Nota alla recensione di Sandro Angelucci
su "Chiedo i cerchi" e "Amalgama"
della Poetessa Serofilli
Non avendo il piacere di conoscere la poesia della poetessa Serofilli, ma conoscendo a fondo la puntualità filologica delle esegesi del critico Sandro Angelucci, mi soffermerò solo sul nocciolo principale dell’articolo (forma-contenuto) che lo scrittore dipana con grande maestria e senso estetico.
Linguaggio onesto e puntuale quello di Angelucci sulla poesia della Serofilli. L'argomento è ostico e al contempo opinabile: forma e contenuto; ricerca assillante di termini e stilemi o valorizzazione del significato, scevro da costrizioni formali. Spontaneità, o argini a racchiudere gli impeti interiori. La poesia; quell’annoso dilemma che si trascina dall’antichità fino a noi; sarà, forse, quella parte di noi che più si avvicina all'irraggiungibile? irraggiungibile per la parola? Quel mistero forgiato, cercato, ricercato, infiammato, denudato, articolato ma soprattutto demandato al grande ed impossibile compito di rivelarci. E per questo non mai sufficiente nella nostra ricerca di dirci. Ed Angelucci non solo è il critico che tratta da esperto esegeta la poesia, ma la fa sua, la "soggettivizza", per ridarla al foglio con l'anima di chi la vive, nella sua impossibilità, da poeta. Ma se vogliamo che l'equilibrio desanctissiano diventi un nutrimento indispensabile del dire poetico, è necessario intesserne di musicalità lo spartito. Non c'è poesia in un verso che stride alla lettura. E la musicalità deve essere per prima cosa nostra, insita nel dualismo di anima/ragione, per far parte successivamente del diacronico espandersi del verso. Da là l’importante significante metrico che abbracci e al contempo valorizzi la cifra del nostro essere ed esistere, del nostro aprirsi dal contingente al grande senso. Gli estremi no! Tutti quei modernismi o tentativi di innovazione vòlti ad esagerare la parola e il fonetismo intrinseco portano a sminuirne la substantia basilare. Ed altrettanto ne sminuisce la funzione il libero e “becero” "aveu" come corso di un fiume non sorretto da robusti argini. Quel sasso gettato nell’acqua deve essere lo stimolo a un’armonica circolarità, a un’espansione dell'epicentro verso un senso totalizzante che ci suggeriscono la natura e la naturalezza. Equilibrio fra la parola e il verso, fra il verso e il componimento, fra il tutto e l'anima. Ed è la musicalità a cucire coi suoi ritmi, presenti nell'uomo fin dagli albori, un buon tessuto adatto a vestirci. E Sandro Angelucci nella sua elegante, asciutta, concreta e, mi si passi, bellissima diagnosi sottintende, col suo discorso metodicamente organico, l'importanza, annoso dilemma, dell'equilibrio fra forma e contenuto. E forse facendoci un po’ contaminare dal fascino armonico ed armonioso di versi di struttura classica si può rivivere, attualizzandola, una certa poesia che vedo oggigiorno abbastanza sofferente.
In particolare mi sono piaciute di Angelucci alcune arrivanti pennellate che rendono visive e scintillanti certe occasioni poetiche: “[…] accendere o, meglio, colpire i vocaboli, perché tintinnino come tanti bicchieri di cristallo”. Ben scelte poi le pièces per le comparazioni analitico-strutturali sul tema. Chiariscono bene, come dall’analisi di Angelucci, lo spirito che ne emerge sul valore non tanto di una squadratura, quanto di una armonia contestuale.
Nazario Pardini
16/05/2011
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