mercoledì 22 giugno 2011

Prefazione alla Silloge "Del pane e del vino", Pasquale Balestriere

Prefazione
a
Del pane e del vino, Edizioni ETS, Pisa 2009. Pp. 32 
di Pasquale Balestriere

"Amici, amici,
                  con corse di timballi cantate
                  alla libera gioia
in ogni sera d’estate o d’inverno,
scandite la danza del cuore, e lieti
secondate l’urlo rotondo
e possente della vita
col vino fratello."



Silloge monotematica, Del padre, del vino, che si dipana su un percorso vario e magistralmente controllato nella forma e nelle scansioni interiori. Balestriere, attraverso un procedere classicheggiante con riferimenti voluti ad autori greco-latini, rovescia sul foglio un’anima commossa e ispirata, ma pur sempre controllata da un verbo ed un ordito, indici di malizia poetica e ricerca verbale. Il padre e il vino sono gli interpreti principali, assieme alla generosa natura, della silloge; ne costituiscono il leit motiv, e al contempo l’organicità. Perché Balestriere mai si disperde, mai scivola in versi troppo melanconici o melliflui, ma sempre mantiene il dire ad un livello robusto e saggiamente strutturato. E ci sarebbe di che cadere in aurea decadente, in quanto il memoriale spesso porta più che a riflettere, a sognare, a rivivere nostalgicamente in maniera non di rado debordante e incontrollata. Ma l’autore si crea un’isola felice, dove col padre rivive attimi e momenti di grande intensità, e il passato rinasce a nuova linfa, grida la sua esistenza, e tutto è ingrandito e rivisto con una nervatura icastica.
Nirvana edenico e amore oblativo sono il rifugio in cui il poeta si getta a corpo morto, alcova di riposo, e terriccio di vitalità, fuori da una realtà foriera di spleen e di inquietudine, dove spesso i rapporti umani sono incrinati. E quello che fuoriesce è un mondo arcaico, sapientemente ritrattato, arricchito da un lessico agreste dal registro ricercato, umanamente forgiato, e poeticamente sentito, dove l’uomo si affratella con la terra, dove “hoc mihi contingat” direbbe Tibullo, dove: “L’uomo scalzo che discende dal greppo / e bionde uve porta in spalla (biondo / lui stesso) ha piede prensile / e sguardo fiero e verde.” (Evocando vendemmie) e dove: “Ai bordi / della primavera t’affidai al riposo, / semidivina creatura, / fratello vino negletto al Santo, / io, contadino regale ed effimero, / voce dolceamara d’una terra / bestemmiata e diletta.”. (Al vino fratello).
      I suoni, i colori, le parvenze, tutto si intona e collabora ad amalgamare amore di figlio per un padre ricco di storia terragna, di sapore di uve e di grume, di onestà, di forza e di fatiche: ”Se , padre, come dicono, dal cielo / o, come credo, certo d’oltre il velo / della vita t’affacciassi a guardare / la terra scura, ancora a numerare / indugeresti i grappoli aggressivi / di questa vigna distesa sui clivi / che nel tuo giorno, serio, coltivasti;”. (Frammenti enoici).
      Le pergole di sole, i liuti di vento, il mirabile colono, i languori d’autunno, i sacerdoti incantati, le sudate zolle, i grappoli opulenti, i venti, i tramonti, le vigne dai pampini dimessi: tutti tocchi e ingredienti mai a se stanti, ma frammenti dell’essere  e dell’esistere,  corpi della gradualità del sentire, concretizzazioni di vita interiore. Il dire elegiaco di Balestriere equivale ad un racconto didascalico, dove sotto ogni colore, ogni forma, ogni sfavillio panico, è nascosto un brandello d’animo che ambisce a concretizzarsi in natura. In ciò il suo panismo esistenziale. E l’autore per dare più corpo al suo “poema” spesso chiama in aiuto i grandi della letteratura: da Omero ad Alceo, dal divo Anacreonte ad Ovidio, da  Orazio al Magnifico, ed al Chiabrera: “A cantarti venga Omero, / venga, o vino, Alceo altero, / venga il divo Anacreonte, / venga Bacco giù dal monte; / venga Ovidio, venga Orazio / e il Magnifico e Chiabrera.” (Accenno semiditirambico).
      La peculiarità di Balestriere non è solamente nei contenuti, nelle sue esplosioni sentimentali, nella sua vasta conoscenza letteraria e umanistica, nella simbiotica fusione tra vibrazioni interiori e fenomeniche apparenze, ma anche nel saper contenere il tutto nelle multiple tonalità di un pentagramma complesso e articolato: alla preminenza dell’endecasillabo, spezzato spesso a centro verso, si alternano il settenario, o il succedersi di tripli o quadrupli trisillabi a far risaltare la sincronia di azioni nei momenti di maggiore intensità emotiva, o, ancora, poesie composte di versi più brevi, quali quadrisillabi, quinari. E niente è casuale, perché il poeta riesce a fare uso di un importante significante metrico per irrobustire l’anima del canto, giocando ora con versi più scorrevoli, ora più rattenuti, ora musicalmente più effusivi come vere cascate di endecasillabi. L’uso frequente degli enjambements, poi, denota il bisogno di spezzare l’ordine versificatorio e prolungare un dire che vada oltre la parola. D'altronde la parola non è mai sufficiente a soddisfare gli slanci dell’anima verso soglie che sanno d’infinito. E non lo è per Balestriere che, comunque, fa trapelare dalla sua silloge che la poesia è vita, è fantasia, è amore, ma soprattutto linguaggio, frutto di un lavoro meticoloso, fatto di revisione, di accurato studio per dare il più possibile al verbo un senso universale: “Stasera –non lo sanno anche i compagni / che bevono con me- io scriverò / un canto che andrà fino alle stelle / e senza sforzo dal cielo la  mandorla / falcata coglierà poi della luna.”. (Preludio).
      Ma forse i versi di maggiore intensità lirica sono proprio quelli dedicati al padre alla fine dell’opera; il poeta gli vorrebbe parlare dopo prove di approdi, di conati falliti, mentre gli occhi rivedono il mare verde del grano, viti appese a sinuose colline, e il suo volto giocondo alla fatica: “Ed ora, d’oltre il cielo, sappi, padre, / che questo tumido lacerto detto / cuore serba anche il pianto del distacco / celato per pudore dai tuoi occhi, / quando partii, nel vento della vigna: / perenne graffio, padre, acre dolore.”. (Ultimo canto per il padre). Balestriere zuppa l’anima nel sangue della sua terra per poi tradurla in un canto che sublimi fino all’etereo delle stelle e si perpetui oltre l’effimera vita dei mortali.
Ho già avuto occasione di recensire un’opera dell’autore (Prove d’amore e di poesia) e sinceramente sono rimasto affascinato dal suo modo di scrivere, dalla sua organicità, dalla complessità delle tematiche e dal linguaggio pulito, ricco di figure ed arrivante. Ed ho notato una certa continuità      in questa sua silloge sia a livello stilistico-organizzativo, contenutistico-formale, che emotivo. Per questo mi piace ultimare la mia prefazione con la stessa chiusura di quella recensione: “Se Hönderlin chiede nella lirica Iperione al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”, Balestriere, forse, chiede alla vita che si faccia canto, canto rifugio, che azzardi lo sguardo, direi foscoliano, oltre lo spazio, ed oltre il tempo.


Nazario Pardini

In barca verso l’isola del Giglio il 29/07/2009



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