domenica 1 giugno 2014

FRANCO CAMPEGIANI SU "IL BANDOLO", NUOVO MANIFESTO CULTURALE

ARTICOLO DI FRANCO CAMPEGIANI
COLLABORATORE DI LÈUCADE
FRANCO CAMPEGIANI COLLABORATORE DI LÈUCADE

IL BANDOLO
nuovo manifesto culturale
(TESTO COMPLETO SUL MESE DI MAGGIO) 


Nell'incontro/dibattito al "Polmone Pulsante" del 28/05, dove si è presentato e discusso il manifesto culturale denominato "Il Bandolo", c'era un folto pubblico di addetti ai lavori (artisti, letterati e critici). L'accesa conversazione si è aggrumata intorno al nucleo ideale che il manifesto intende portare avanti: quello dell'arte come "vocazione", idea destinata a creare una ferita profonda nell'odierno tessuto culturale dominato dall'idea diametralmente opposta dell'arte come puro e semplice professionismo. Intendiamoci: la professionalità è fuori discussione per i firmatari de "Il Bandolo", ma essa non va confusa con il professionismo. Colui che ha professionalità può essere o non essere un professionista. Con ciò non si intende abiurare il professionismo, ma si vuole dire con forza che è ininfluente ai fini dell'opera creativa.
Ben venga chi riesce a vivere e a sbarcare il lunario con la propria vocazione artistica, ma la spinta a creare deve esser tale da imporsi comunque nella vita dell'artista, a prescindere dal modo con cui egli si procura il pane quotidiano. Non si può condizionare l'urgenza creativa al danaro o a un piatto di minestra. La nostra cultura è in crisi perché è bloccata nella creatività, nella capacità di proporre nuove conoscenze attingendo a saperi superiori, universali. L'urgenza fondamentale del gruppo sta tutta in questo rilancio della creatività autentica, capace di gettare uno sguardo nel profondo ponendo fra parentesi le sovrastrutture culturali naufragate nel nulla.
Molti miti della modernità, pur nati da esigenze autentiche, sono diventati obsoleti, per cui noi oggi viviamo nel manierismo della modernità (il cosiddetto Postmoderno). Ogni civiltà nasce da mitologemi originari che inevitabilmente si logorano nel tempo e diventano obsoleti. E' accaduto altre volte nella storia: la creatività diviene capricciosa, vanitosa, e gli artisti si trasformano in semplici operatori capaci di svolgere un'azione di puro professionismo, rinunciando al ruolo di promotori del mito, promotori di civiltà. Pensano a pubblicare i loro libri, a fare le loro mostre, a vincere i loro premi, eccetera, promuovendo se stessi e i propri affari, le proprie consorterie ed in breve la propria carriera, la propria affermazione personale, il proprio ego. Se questo è professionismo, evviva i dilettanti! Costoro, liberi da ciò, si trovano nella giusta condizione di spirito per ricevere e trasmettere quella scossa creativa che consente di uscire dall'impasse.  
Ascoltiamo Schopenhauer: "Dilettanti! Dilettanti! Così vengono chiamati con disprezzo coloro che si occupano di una scienza o di un’arte per amore di essa e per la gioia che ne ricevono, per il loro diletto, da quanti si sono dedicati agli stessi studi per il proprio guadagno, poiché costoro si dilettano solo del denaro che con tali studi si procurano. Un tale disprezzo deriva dalla meschina convinzione, che nessuno possa prendere qualcosa sul serio senza lo sprone della necessità, del bisogno e dell’avidità. Il pubblico ha lo stesso atteggiamento e la stessa opinione: e di qui nasce il suo rispetto per gli “specialisti” e la sua sfiducia verso i dilettanti. La verità è, al contrario, che per il dilettante la ricerca diventa uno scopo, mentre per il professionista rappresenta solo un mezzo, ma solo chi si occupa di qualcosa con amore e con dedizione può condurla a termine in piena serietà. Da tali individui, e non da servi mercenari, sono sempre nate le grandi cose".
Credo sia evidente come Schopenhauer, in questo pensiero tratto da una raccolta di aforismi, non faccia che esaltare la professionalità, affermando che essa si trova molto più facilmente nei dilettanti che nei professionisti. Egli parla espressamente di "ricerca", di "dedizione", ma solo chi si "sente chiamato" può accettare un tale sacrificio. Professionalità e vocazionalità sono sinonimi e indicano la stessa cosa. Applicazione ed impegno sono imperativi categorici per chiunque venga ispirato dalle Muse. Non si può sperare di essere toccati da esse standosene tranquilli ad oziare tra i fiorellini olezzanti di un prato, mentre gli "augelli" cinguettano tra di loro. Ai nullafacenti niente regala la Musa. Bisogna lavorare, bisogna studiare, con l'avvertenza tuttavia che la scuola principale è quella che si svolge da se stessi in prima persona.
Lo stile, il linguaggio e l'armamentario tecnico, se davvero creativi, non sono gabbie preconfezionate, ma si costruiscono in progress, lavorando e sudando in prima persona. Non ci sono regole "a priori". Le regole son quelle che l'artista ed il poeta si costruiscono da se stessi nel loro operare giornaliero. Senza questo corteggiamento, la Musa non concede le sue grazie, né fa la sua apparizione. Senza questa macerazione, l'individuo non si libera del proprio individualismo e non apre le porte dell'universale che è in lui. Individualità ed individualismo non sono la stessa cosa. Ci sono individui sani, e addirittura altruisti, che si lasciano volentieri ispirare da valori universali. Individui aperti e non intimisti, non chiusi in se stessi, nel proprio narcisismo, nell'esaltazione del proprio Io. Né è sufficiente sostituire l'Io con il Noi, se anche il Noi può essere inquinato dall'egoismo settario e partigiano. Una comunità autentica è fondata sulla comunione. E questa non può che essere una conquista coscienziale, un traguardo dell'Io.

                                Franco Campegiani  



2 commenti:

  1. Egr: prof F. Campegiani, non volevo essere il primo ad intervenire sul suo scritto del quale condivido in pieno ogni parola, ogni concetto più che esastivo nella chiarezza su un argomento non facilmente esternabile per iscritto. La ringrazio intanto per la lezione di umiltà che mi ha dato e spero anche ai numerosi frequantatori di questo blog del quale, dico con modestia, di farne ormai parte e che leggo quasi quotidianamente e dove quotidianamente apprendo, imparo, recepisco, valuto e quant'altro attraverso i vari scritti dei collaboratori dello stesso blog a partire dal Prof. Pardini, da Lei, dalla Busà per finire col mio caro amico P. Balestrieri, Mestrone e tutti gli altri.
    Dopo aver letto quanto di suo in argomento - la domanda mi è sorta spontanea- Chi sarà delegato e con quale autorevolezza a valutare e quindi a definire che una espressione artistica, nel ns/ caso poetica, sia frutto di professionismo freddo o diversamente frutto di quel dilettantismo professionale dal quale esala in modo inequivocabile l'afflato ispirativo. I premi letterari? Le case Editrici ? e di questi, i vari e numerosi componenti
    di giuria sono tutti all'altezza del ruolo assegnatole? Per quando mi riguarda e per la lunga esperienza di partecipante a premi nazionali di poesia anche nazionalmente rinomati ho dei grossi grossi dubbi; Per le Case editrici stendo un velo pietoso essendo esse attività commerciali votati giustamente al guadagno economico quindi... Mi scusi, forse sono andato fuori tema banalizzando involontariamente la profondità del Suo dettato; ma su questo campo sono più che deluso e quindi facilmente mi lascio coinvolgere. RingraziandoLa ancora una volta per l'autorevole attenzione posta alla mia IN UN EDEN DISFATTO codialmente Pasqualino Cinnirella

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  2. Caro Cinnirella, trovo assai pertinente la sua domanda e la ringrazio per darmi la possibilità di meglio chiarire il mio pensiero. Nel Manifesto culturale "Il Bandolo", il cui testo integrale (di cui sono co-autore) è stato pubblicato nel mese di maggio in questo blog letterario, lei potrà trovare qualche risposta al problema giustamente e acutamente sollevato. A parer mio non esistono criteri oggettivi, scientifici, per stabilire il valore di un'opera artistica. Personalmente mi attengo al criterio dell'universalità, con la dovuta precisazione, tuttavia, che non c'è nulla di più individuale dell'universale (a meno che non si voglia far coincidere l'universale con il consenso pubblico, e sarebbe abominevole). Nel Manifesto è scritto: "L'arte non parla a tutti, massificandoli, ma al cuore di ognuno". Si intende dire, con questo, che la poesia e l'arte (in una parola il mito) hanno a che fare con la sfera della verità (oltre, ovviamente, che con quella della bellezza), ma si vuole anche dire che la verità può essere universale solo in quanto colpisce le coscienze singole (altrimenti sarebbe un'imposizione intollerabile). Il poeta ispirato possiede questa visione del mondo e deve fare del tutto per affermarla. Se l'attuale organizzazione del mercato non gli lascia spazio sufficiente, sta a lui rimboccarsi le maniche per tentare, non dico di cambiare il mondo (il che sarebbe utopistico), ma di guadagnarsi il proprio spazio vitale e di difenderlo. Come? Con l'associazionismo culturale, ad esempio, aggregandosi con chiunque la pensi alla stessa maniera. In fondo il mercato è libero e risponde alla legge della domanda e dell'offerta. Non è vero che l'offerta condiziona la domanda, ma è vero il contrario. Se la domanda di un certo prodotto culturale dovesse crescere, l'offerta dovrebbe adeguarsi inevitabilmente. Non avrebbe scampo.
    Franco Campegiani

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