giovedì 19 giugno 2014

RELAZIONI DI F.MARTIRE, D. ROMEO, M. MINELLI, E L. GIORDANO SU "IL FIGLIO DI AZIZA" E "LE NEBBIE DEL PASSATO"





Relazione
 Le nebbie del passato

di Filomena Martire


Eccomi maresciallo Leonardi, eccomi a lei!
L’ho seguita, sa, l’ho pedinata. E’ un paradosso, non trova? Una lettrice che decide di vestire i suoi panni e di tuffarsi “nelle nebbie del passato” mentre con “le movenze di un pachiderma” lei cerca di riprendersi la vita a Montebello che, forse, come quella dei suoi abitanti d’adesso in poi non sarà più la stessa.
Succede che dopo la caduta nello stagno, nella melma in cui tutto soffoca,riemerga qualcosa di necessario: uno squarcio in quelle nebbie, la coscienza di una nuova possibilità.
Mi è piaciuto,maresciallo, quel suo andare lento nelle ombre, fra gli spettri, quel sentirsi parte di una commedia dolente pur conservando la lucidità del suo ruolo. Mi è piaciuta la sua analisi logica umana, senza fronzoli, così piena di dubbi, quelle domande rivolte prima a se stesso e poi ai suoi indiziati, quel relazionarsi discreto indossando la loro pelle.
Mi è piaciuto come ha saputo far tesoro dell’intuito, fiutare l’assenzio e riconoscerlo, andare oltre l’apparenza per riuscire infine ad aprire quella”bambola russa” depositaria della verità, costruire la trappola scegliendo come esca ciò che tutti a Montebello credevano fosse solo una leggenda, un racconto di guerra passato di bocca in bocca, surreale e atroce, una zavorra di cupidigia e di morte.
Mi è piaciuto quel contrasto d’insofferenza e benevolenza nei confronti dell’appuntato Riccoboni, uomo semplice, uno spilungone che sembra vivere in superficie ma che poi stupisce superando la paura delle catacombe e ricevendo “il battesimo del sangue”per salvare non soltanto il maresciallo ma l’amico.
E che dire di Montebello? Quel borgo mi ha sussurrato che ogni mondo è paese riportandomi nell’entroterra del mio Sud, all’Appennino calabrese che fa da cordigliera tra l’interno ed il mare, alle dita nodose di quei contadini, alle loro schiene spezzate dalla fatica, all’odore aspro dell’olio che scorre lento dai frantoi, a  quei volti di donne fiere, amazzoni di una terra scorticata dagli errori che ricordano donna Assunta Almiranti, “tigre ferita”di cui lei, maresciallo, ne ha subito il fascino coltivando il pensiero di averla al suo fianco.
Caro maresciallo, devo dire che a tratti, “Le nebbie del passato”, per il loro sguardo attento su quel brulicare di  vita nel borgo, mi hanno ricondotto all’Antologia di Spoon River che rappresentò attraverso quei poveri esseri, ai quali toccò in sorte di esistere soltanto da morti, la voce di un villaggio, delle sue ambiguità, dei suoi vizi e delle sue virtù.
Quando l’anima di un luogo ti prende, anche se non è la tua radice originaria, non scegli più ma impari a vivere per addizione.

Di un luogo amerai i contrasti perché in quei contrasti sai di esserci anche tu. Non è forse vero maresciallo Leonardi?



Presentazione de “Le Nebbie del Passato”
di Diego Romeo

Prima di tutto vorrei ringraziare Maria e l’IPLAC per questa bellissima opportunità che mi è stata concessa. Un opportunità che mi onora sia per il bel libro che mi è stato proposto di presentare che per  il bellissimo pubblico oggi qui convenuto.
Poi vorrei fare le mie scuse ad Andrea Marchetti, perché quando Maria mi ha proposto questo libro, il mio pensiero è stato che bello dovrò presentare “solo” un ottimo giallo! Ottimo già lo sapevo perché Andrea è un autore IPLAC e l’IPLAC è l’IPLAC…
In verità, ed è per questo che mi scuso con Andrea, questo non è solo un ottimo giallo, ma è molto di più. Si perché alla fine il fattore “Giallo” è solo uno dei molteplici aspetti che possiede questo romanzo, ma andiamo con ordine.
Come dicevo questo è un ottimo giallo, ma perché è un ottimo giallo? Oggi noi siamo abituati a serie televisive poliziesche, spesso ispirate a libri, molto easy e flash. Dove tutto si risolve in 45 minuti di spettacolo ed in uno o due gironi di indagini… magari fosse così. Anche il crimine più prefetto ed efferato, per esigenze di copione e di scarsa concentrazione del telespettatore medio, deve durare poco, troppo poco e comunque le trame non posso mai essere troppo complicate. Qui invece ci troviamo di fronte ad un giallo vecchio stile, dove tutto è umano ed imperfetto dal criminale all’eroe che segue il caso. Anzi l’eroe forse è il più umano ed imperfetto di tutti. Non è bello ne atletico, non è super intelligente, non è super equipaggiato (visto anche il tempo storico in cui si svolge il romanzo), ma è sicuramente fedele al suo ideale di giustizia, al suo paese e soprattutto al sui amato corpo dei carabinieri. Si mette alla ricerca degli indizi, fa domande, interrogatori, appostamenti tutto alla vecchia maniera e con i poveri mezzi che il suo paese di Montebello gli poteva offrire, ma soprattutto ci mette il tempo che ci vuole (Per esempio è molto bella la narrazione di come l’appuntato Riccomoboni trascrive le deposizione degli indagati, a mano perché non si disponeva neanche di una macchina da scrivere). Dicevo un giallo vecchio stile dove da padrone la fanno i sentimenti e le intuizioni dei protagonisti e non le analisi del DNA e i super database delle agenzie governative. Un giallo nel quale alla fine, per fortuna, l’assassino non è il solito maggiordomo. Anche se qui un maggiordomo c’è ed è tutt’altro che simpatico… ma ora basta se no potrei svelare troppo della trama.
Un secondo aspetto che mi ha colpito molto, forse più del primo visto la mia formazione da storico, è proprio l’ambientazione sia temporale che geografica del romanzo. Andrea ha avuto la capacità di descrivere minuziosamente l’Italia del dopo guerra. Ci troviamo infatti agli inizi degli anni 50, in un paese che usciva dalla guerra e che voleva solo dimenticare. Un paese dove l’imperativo era risorgere, un paese del paino Marshall, un paese troppo occupato a ricostruire per pensare solo a se (commovente la felicità di Don Alfio, che si pregusta i facili guadagni del suo spaccio, quando apprende che dovranno arrivare in paese delle squadre di muratori che devono ricostruire parte del piccolo borgo). Devo dire che qui Andrea mi ha stupito molto, perché ha fatto di questo giallo un vero e proprio romanzo storico, dove la storia delittuosa è solo un pretesto per descrivere l’Italia degli anni 50. La repubblica era ancora giovane e il conte Alfredo la faceva ancora da padrone, anche se doveva mediare fra democrazia cristiana di PCI. Nessuno aveva la  macchina ed il telefono era appannaggio di pochi. Insomma un Italia genuina, un Italia a cui forse anche oggi dovremmo guardare di più per capire meglio, forse, come uscire da questa benedetta crisi.
Ma vi è stato un terzo aspetto che mi ha colpito molto e che ha solleticato molto la mia indole sociale. Ovvero le riflessioni che Andrea fa sul male della guerra e sulla povertà.
Il romanzo è piano di queste riflessioni che vedono un Italia allo stremo delle forze fra le due guerre. Un Italia in cui i padri si vergognano di non ricucire a provvedere alle proprie famiglie (leggere pag. 39). Ma anche lo spettro della guerra madre di tutte le povertà, sia materiali che spirituali, che trasforma un ragazzo qualunque in un assassino senza pietà. Una follia che Andrea mette bene in evidenza in parecchi punti come questi: (leggere pag. 188). Un romanzo che fa riflettere sulla povertà, la miseria dell’animo umano e la guerra. Un romanzo che non usa parole a caso. Da notare come per indicare la prima guerra mondiale il Marchetti usa il termine più giusto di “Grande Guerra”, perché non è stata solo la prima delle guerre mondiali ma è stata anche l’origine di tutti i mali del novecento come teorizzava lo strico tedesco Fritz Fischer. Una guerra che cambiò il concetto di scontro bellico convenzionale ed in cui per la prima volta si coinvolsero i civili in maniera sistematica.
Insomma un romanzo che fa riflettere per gli alti contenuti storici (anche se il paesino di Montebello era solo un piccolo paese del centro Italia è comunque un icona dell’Italia di quei tempi) che sociali.
Ultima considerazione che non posso non fare, e mi scuserete se vi tedio ancora con le mie chiacchiere, visto il mio passato da aiuto cuoco è la grande centralità che l’autore da ai pranzi e alle cene. Dalla tavola dello spaccio di Don Alfio, al banchetto sontuoso del conte Alfredo, ai manicaretti della moglie dell’appuntano Riccoboni (per inciso la moglie dell’appuntano è una dei personaggi che più mi è piaciuta pur non apparendo mai direttamente nella narrazione) per arrivare all’intimità della tavola di donna Assunta, il Marchetti descrive ed invoglia il lettore con dei particolari appetitosi che non mi hanno lasciato insensibile. Particolari che hanno contribuito a dare quella pennellata di italianità verace a tutta la vicenda.



Il figlio di Aziza - Pino Ferrara - 15 giugno
di
Manuela Minelli

“Il figlio di Aziza“ è una bella storia. E’ una storia di donne, Lemlem e Aziza, due sorelle, diversissime tra loro, anzi opposte per carattere e stile di vita, con esistenze che definire travagliate è dire niente, vite fatte di rinunce, sacrifici, situazioni pericolose, affanni e soprusi, ma loro nonostante tutto vanno avanti, crescono, trovano la loro strada, si perdono, si ritrovano, si supportano e si sopportano.
Ma “Il figlio di Aziza” è anche la storia di due bambini, Sam e Adam ai quali, per effetto di quell’antico detto “Le colpe dei genitori ricadono sui figli”, non gli è permesso vivere l’infanzia, essere bambini, come Natura vorrebbe.
 All’inizio incontriamo Lemlem e Aziza bambine anche loro, cresciute senza i privilegi, soprattutto affettivi, poiché figlie di una famiglia eritrea numerosa e benestante ma che, vuoi per la guerra civile che si combatte nel loro paese, vuoi per pregiudizi ambientali, religiosi e per l’anaffettività della loro mamma (dovuta sempre al tipo di tradizioni, al ruolo in cui è confinata la donna in certe società, pensate che la mamma delle due protagoniste del romanzo ha avuto il primo figlio Idris a sedici anni, cosa normale nell’Eritrea degli anni ’50) crescono senza l’amore, le cure, la protezione, l’educazione e l’affetto che dovrebbe essere diritto sacrosanto di ogni bambino di qualsiasi razza, estrazione sociale e continente.
 “Il figlio di Aziza” è una saga familiare che vede protagoniste le cosiddette “categorie deboli”, donne e bambini, il che, detto così, potrebbe avere tutti i presupposti per una storia un po’ lacrimosa, che coinvolge il lettore facendogli vivere le emozioni dei personaggi, e il pathos forte di un romanzo dove le sofferenza fisica e psicologica la fanno da padrone.
 E invece non è così. L’autore, Pino Ferrara, ha scelto di raccontare questa storia da cronista, potrei quasi dire che Pino Ferrara è un giornalista, più che uno scrittore. E infatti nel suo curriculum, tra le varie attività, c’è anche quella del giornalista. Scientemente Ferrara ha sfrondato la narrazione di tutti quei dettagli che avrebbero potuto toccare il cuore e la sensibilità del lettore, niente lacrime dunque per la storia di Aziza, dei suoi figli e di sua sorella Lemlem, semplicemente una cronaca, anche spietata in alcuni passaggi, che racconta una saga familiare che inizia negli anni sessanta e arriva sino ai giorni nostri.
 Ma la grande particolarità di questo romanzo è che tutto quanto descritto e raccontato in queste 271 pagine è storia vera. L’autore è il papà, certamente non biologico, ma il papà adottivo di Adam, il figlio di Aziza, appunto. Lui ha raccolto con pazienza, coraggio e dedizione le testimonianze di tutti quegli attori della vicenda che si sono resi disponibili. Lemlem, Aziza, il suo bambino Adam, e altri vari personaggi rintracciati per il mondo, tramite internet anche, che hanno raccontato vicissitudini vissute realmente e non  inventate.
Pino Ferrara ha ricostruito con pazienza certosina, un’enorme mosaico, incastrandone le delicatissime e fragili tesserine, mettendo l’uno accanto all’altro i pezzetti, in anni di lavoro.
 Sapete qual è la cosa che più mi ha incantata di questo libro?
E’ che è un atto d’amore verso il suo bambino, un lavoro catartico per il piccolo Adam che gli ha permesso di liberarsi dei fantasmi del passato. Ed infatti…ascoltate cosa scrive Pino Ferrara nei ringraziamenti:
“Quando mi è venuta l’idea di scrivere questa storia avevo pensato di non dirgli niente (ad Adam, ndr) e fargli una sorpresa a cose fatte. Poi mi sono reso conto che lui poteva aiutarmi perché le vicende sue e di sua madre le aveva vissute in prima persona. Gli parlai del progetto e l’idea gli piacque molto, ma si mostrò restio a collaborare perché ricordare gli faceva male. Ero preparato a fare a meno delle informazioni che avrebbe potuto darmi, quando, di punto in bianco mi disse che forse era meglio che mi raccontasse quello che ricordava della sua infanzia, della sua vita con i suoi genitori e dopo di quella con sua madre solamente. “Se ti racconto tutto – mi disse – forse mi libero per sempre delle cose che ogni tanto mi vengono in mente. Tu le scrivi e io non devo più pensarci”. Iniziammo a registrare quello che lui ricordava, senza un ordine preciso. Cominciava a dire quello che gli veniva in mente e spesso era colto dalla commozione. Allora smettevamo per riprendere in un’altra occasione. E’ stato un lavoro delicato, ma alla fine Adam si è sentito sollevato e contento, come liberato di un grosso peso che lo opprimeva. Grazie Adam”.
 A me piace immaginare questo papà con sua moglie, Wilma, che con tanta tenerezza e pazienza sono lì con il registratore in mano e gli occhi negli occhi del loro bambino. Caro Pino Ferrara, devo dirti che questa è la cosa che più mi  ha emozionata. Ed ora ditemi se questo non merita già un applauso.
Ma torniamo alla storia. Abbiamo Lemlem e Aziza, che vengono allontanate dalla madre, un po’ per metterle in salvo dalla guerra civile, ma anche molto per egoismo e per quelle tradizioni di cui parlavamo prima, in cui le femmine sono un peso per la famiglia. Specialmente le femmine ribelli, sognatrici e assolutamente allergiche alle regole imposte dalla società patriarcale e maschilista, femmine che magari non vogliono sposare un promesso sposo sconosciuto solo perché ricco, perché le famiglie hanno preso accordi ed è meglio rendere infelice a vita una figlia bambina che mancare ad una parola data.
E quindi Lemlem è la prima a partire. Aziza arriverà a seguire. Entrambe affidate ad un’amica di famiglia, come pacchetti postali da recapitare a qualcun’ altro che vive ad Asmara, prima, e in Italia poi, tutte persone a loro estranee.
Nella testimonianza scritta in corsivo nelle prime pagine del libro Lemlem, ricordando la sua infanzia, parla di una vita rigida, senza calore umano, in una grande famiglia-tribù molto ricca in cui si viveva come in un convento o in una caserma. Ma comunque una famiglia.
E quindi le bambine si ritrovano in un paese sconosciuto, con persone a loro sconosciute, che comunicano in una lingua che non è la loro, con il terrore per il salto nel buio che le era stato imposto. E da qui è tutto un peregrinare tra scuole in cui i compagni – e sappiamo quanto sanno essere crudeli i bambini – prendono in giro le nuove arrivate con un colore di pelle differente dal loro, e poi tra lavori e situazioni umilianti.
Aziza è bella e solare e diventata adolescente fa innamorare chiunque. Cercando quell’amore che le è sempre mancato si lega rapidamente a uomini che si rivelano essere fallimentari.
Lemlem è molto più timida, introversa e prudente. Ci mette anni per innamorarsi. Ed è anche il punto fermo per sua sorella di poco più piccola. Lemlem c’è sempre. E’ da lei che Aziza torna quando è in difficoltà perché perde i lavori, rimane senza soldi, resta incinta, ma mal sopporta le regole imposte dalla sorella. Lei, Aziza, è selvaggia, istintiva, disordinata, incostante, vitale. Ha un grande amore per la vita, è una che non si lascia piegare. Frequenta i bar, esce con i ragazzi, fuma per strada. Del resto è stata allontanata da casa e mandata dalla sorella “per punizione”, per aver marinato la scuola. La mamma aveva detto a Lemlem che era solo per un periodo di tempo. Ma Aziza è indomabile ed è un pericolo per la reputazione della famiglia, quindi da una telefonata rapidissima, Lemlem apprende che sarà lei in quanto sorella maggiore, a doversi occupare di Aziza in tutto e per tutto. Quando Lemlem stava per replicare la mamma attacca il telefono.
Le due sorelle crescono, entrambe con numerose ferite dentro, ma crescono. Entrambe hanno voglia di farsi una famiglia, ed è facile capire il perché.
Le ragazze studiano e lavorano e per questo viaggiano tra il Sudan, i paesi arabi, Perugia, Roma, Londra. Quando Aziza resta incinta di Sam, il primo figlio, il padre non lo sa. Quando il bambino avrà cinque anni lei scriverà una lettera alla sorella pregandola di convincere Kamal, il giovane padre che fa parte di una comunità africana della Roma bene, a prendersi le sue responsabilità.
Fatto sta che il piccolo Sam viene consegnato dalla stessa Aziza ad un’incaricata della nonna paterna. E’ la storia che si ripete. Ma di Sam, Aziza non riuscirà più a sapere nulla.
Per tutta la sua vita Aziza avrà nelle orecchie le urla del suo bambino che, mentre viene portato via, chiama “Mummy Mummy!” Questo sarà uno dei terrificanti fantasmi che la accompagnerà fino alla fine.
Aziza non è una madre scriteriata o senza cuore è una madre che non avendo i mezzi di sussistenza per assicurare al proprio figlio una vita migliore di quella che avrebbe avuto con lei, fa una cosa che, se la vogliamo vedere anche da un’altra ottica, è un grande, enorme, atto di coraggio.
Aziza si riprende, passa da un lavoro ad un altro, continua la sua vita. Passa anche dei periodi tranquilli, in cui tutto sembra filare liscio. La sorella Lemlem la aiuta, anche a distanza.
Aziza incontra James, vedovo, dolce, simpatico, appassionato, scrive per la BBC, suona il clarinetto, la aiuta. Diventano ottimi amici. Finché  decidono di sposarsi. Lui ha 67 anni e la differenza di età tra loro è evidente, ma si amano sul serio, l’uno completa l’altra, sono le due metà della mela.
E qui c’è la scena – scusate ma io ho un po’ la lettura cinematografica, nel senso che vedo quello leggo, ovviamente se chi scrive è talmente bravo da farmela vedere – c’è la scena di un gran bel matrimonio con alcuni parenti venuti da lontano e con la sorella Lemlem che osserva la sposa: bella, leggiadra e felice e si chiede perché non io? C’è gelosia da parte di questa donna saggia, buona, previdente, assennata, che ha sempre aiutato quella scriteriata di sua sorella, lei che ha una storia travagliatissima con Marco, anche per questioni di razzismo da parte dei genitori di lui.
C’è una bella analisi psicologica di tutti i numerosi personaggi di questo libro. Fredda, da cronista come dicevamo prima. Almeno fino a pagina 176. Poi vi dirò cosa accade a pagina 176.
Aziza e James mettono al mondo un bambino, Adam, e James è un papà eccezionale.
Aziza trova il lavoro che fa al caso suo, nella ludoteca di un centro benessere per Vip, ad accudire i bambini dei clienti. Questo le permette di stare con il suo bambino e anche con suo marito, e lei si sente realizzata perché il lavoro le piace, forse questo è il periodo più felice della vita di Aziza, peccato che duri poco, soltanto due anni.
James è sempre più presente nella vita del figlio, ma un brutto giorno si ammala e in breve tempo muore. In breve muore anche una delle sorelle, Lula, ma lei lo viene a sapere per vie traverse. Ancora una volta ha la conferma che sua madre non la tiene in alcuna considerazione. Questo getta Aziza nello sconforto più totale, non mangia, non dorme, fuma troppo e quel po’ di alcool che usava per tirarsi su il morale nei momenti difficili aumenta sempre di più, fino a divorarla.
Il piccolo Sam cresce nella più totale anarchia e tocca a lui, un frugoletto magro di otto anni, come lo descrive Ferrara, prendersi cura di mamma Aziza che è sempre più prostrata dal dolore, dall’incapacità di reagire, ma ha comunque degli sprazzi di lucidità nei quali gioca con il figlio e cerca di fare la mamma come meglio le riesce. E sono quelli i momenti felici che restano impressi nei ricordi di Adam.
Ancora una volta interviene Lemlem, che incontra l’autore di questo libro e inizia a raccontargli di sua sorella vedova, con un bambino piccolo e con grandi problemi di salute, accennando ad un esaurimento nervoso.
A pagina 176 avviene l’incontro di Pino Ferrara e di sua moglie Wilma con Adam e Aziza. E qui la narrazione assume tutto un altro tono. E come non potrebbe essere diversamente?
Ferrara e sua moglie si trovano davanti uno scenario di miseria, disordine, sporcizia e squallore, con il piccolo Sam solo in casa perché la mamma era andata a fare la spesa.
Sarà l’inizio di un lungo e delicato percorso che Pino Ferrara e sua moglie Wilma, con infinita pazienza e dolcezza, decidono di intraprendere. Un percorso che li porterà all’adozione definitiva di Adam, il frugoletto magro che oggi sta per laurearsi in Business Management and Marketing alla Winchester University .
 Ed ora vorrei raccontarvi un rapidissimo aneddoto: quando la nostra Maria Rizzi mi ha messo in mano il libro di Pino Ferrara chiedendomi di leggerlo, scriverci su una recensione e presentarlo oggi, la prima cosa che ho fatto è stata quella di guardare chi fosse l’editore. Questo è un mio vizio personale, ancora prima di leggere il titolo di un libro devo vedere qual è la casa editrice che l’ha pubblicato.  “Il figlio di Aziza” è pubblicato da “La Vita Felice”, questo editore ha pubblicato gli ultimi miei due libri e conosco altri autori ed altri suoi libri e sapevo che questo editore non pubblica nulla che non sia valido. E così, senza neanche leggerlo, perché non riuscirei a scrivere una buona recensione senza che un libro mi piaccia, le ho detto di subito di sì. E non me ne sono pentita.
 Ma ora ho una domanda per Pino Ferrara: io vorrei avere notizie di Sam. Possibile che non si sia riusciti a rintracciarlo, magari su FB?


 Il figlio di Aziza Di Pino Ferrara
Recensione di Luca Giordano

Questo libro di Pino Ferrara è interessante e ci porta a scoprire delle cose nuove con un modo originale di esporle. Esso ha un solo difetto: sembra fatto apposta per far innervosire l’ufficio marketing di una casa editrice.
Tratta di Africa: oggi, Africa! come si fa a parlarne? Malattie, missionari, sono tutte cose già viste, noiose.
Parla di qualcosa che coinvolge l’autore in prima persona, non solo in quanto tale ma anche nella sua vita affettiva. Orrore! Un  coinvolgimento! Non è neanche un libro - inchiesta, un instant - book, un diario piccante, sarà uno di quei libri di cui se ne vedono tanti.
Ma se leggerete il libro riderete di queste affermazioni.
Perché è una storia appassionante. Io personalmente mi sono identificato in donne africane che fuggono dal loro paese. Io che abito da sempre nella stessa casa e che sono un uomo.
Con alcuni amici spesso abbiamo riflettuto su come la vera fonte di un’opera letteraria non sia la professionalità, ma debba nascere da un’esigenza profonda, essa provoca un’azione autenticamente creativa, la professionalità è uno strumento ma non ne è l’origine. Questo libro di Pino Ferrara è una dimostrazione di come un non professionista possa essere un autore creativo. Ci aiuta un famoso aforisma di Schopenhauer che è un elogio del dilettantismo:
"Dilettanti! Dilettanti! Così vengono chiamati con disprezzo coloro che si occupano di una scienza o di un’arte per amore di essa e per la gioia che ne ricevono, per il loro diletto, da quanti si sono dedicati agli stessi studi per il proprio guadagno, poiché costoro si dilettano solo del denaro che con tali studi si procurano. Un tale disprezzo deriva dalla meschina convinzione, che nessuno possa prendere qualcosa sul serio senza lo sprone della necessità, del bisogno e dell’avidità. Il pubblico ha lo stesso atteggiamento e la stessa opinione: e di qui nasce il suo rispetto per gli “specialisti” e la sua sfiducia verso i dilettanti. La verità è, al contrario, che per il dilettante la ricerca diventa uno scopo, mentre per il professionista rappresenta solo un mezzo, ma solo chi si occupa di qualcosa con amore e con dedizione può condurla al termine in piena serietà. Da tali individui, e non da servi mercenari, sono sempre nate le grandi cose."
Arthur Schopenhauer
Questo libro effettivamente nasce da un’esigenza profonda: la volontà di spiegare a un ragazzo la storia delle sue origini.
L’elaborazione del testo è fatta con un notevole cura, usando i migliori mezzi a disposizione: interviste ai protagonisti e una ricostruzione storica degna, anzi a volte superiore, di un ambiente di studiosi della materia.
Il libro di Pino Ferrara ha molte identità, come una persona.
Amin Maalouf, scrittore libanese, nel suo saggio “L’identità”, spiega come ciascuno porti in se molte identità. Ad esempio io sono impiegato di banca, marito, aimè anche genero, amante della poesia, viaggiatore e così via; alcune di esse si affermano per motivi storici e contingenti e insieme creano l’individuo.
Parlerò di questo libro attraverso le identità letterarie che esso racchiude.
“Il figlio di Aziza” è la ricostruzione di una storia, questa è la prima identità esplicitata dall’autore.  La voce narrante spiega alcuni passaggi, tiene le fila del racconto senza pesare sulla storia. È gradevole e s’inserisce in un tassello tra un giornalismo capace di grandi sintesi descrittive, raro in Italia di origine anglosassone e una ricostruzione storica che mi ricorda alcuni passi dello storico dell’Italia coloniale A. Del Boca.
Ci sono poi le storie, e qui la seconda identità è la dimensione  biografica . È storia vera, intensa, nella quale noi traviamo il ciò che rende il libro interessane.
Da una parte un conflitto generazionale, che è la causa iniziale di tutto, dove le ferite inferte dallo scontro con la tradizione familiare molto dura dell’Eritrea, hanno delle conseguenze che , come in una carambola del biliardo, provocheranno un secondo conflitto, quello con la dura realtà dell’emigrazione e la diversa capacità dei protagonisti di affrontare le vita.
C’è chi trova in se una grande forza e ne fa scaturire una personalità generosa e solida, chi invece soccombe pur affrontando tante vicissitudini, chi è chiuso nel suo egoismo, chi con la sua generosità ripara il vuoto lasciato dal male nella vita di un ragazzo.
Raccontando questa verità l’autore non cede alla tentazione di adattarla, romanzandone alcune parti, e non cede neanche alla grettezza di svelare dei particolari inutili che risulterebbero solo mortificanti e falserebbero ugualmente la verità profonda delle storie.
Qui si vede al servizio della narrativa, una capacità che hanno i migliori dirigenti di banca in Italia - di cui Pino Ferrara fa parte - quella di sapersi muovere in situazioni complesse senza romperne mai gli equilibri, quasi come dei diplomatici esperti.
Questo libro ha un’altra identità: la capacità di farci pensare, non accondiscendendo a quello che noi già crediamo, ma inserendo tra le nostre conoscenze delle novità. Queste storie sono la materia prima per capire qualcosa del mondo. Perché noi capiamo come le vite siano complicate, come il male o il bene non siano in una persona sola, capiamo di quanto siano ingiuste le considerazioni che si fanno adesso sull’immigrazione, di come gli uomini non sono delle statistiche, sono degli individui con ciascuno una storia. Capiamo perché il razzismo è stupido: la reale complessità del mondo non sopporta la stupidità di chi si lascia andare affermazioni senza conoscere le situazioni. Ci si può trovare un soggettivismo che Gilles Deleuze sintetizza nella frase:  ”Nessuno è la maggioranza, tutti sono una minoranza”.
Infine questo libro è testimone di una passione. Appassionato ma non in maniera semplicistica, una passione riflessiva che parte da un’esperienza personale dell’autore e di sua moglie. Mi si permetta un inciso: apprendo dal libro che la signora Wilma, moglie di Pino Ferrara, anche lei personaggio positivo di questa storia, sia insignita del titolo di Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana, se in Italia i Cavalieri del Lavoro fossero tutti come la signora Wilma noi saremmo la prima nazione del mondo.
La passione di Pino Ferrara lo porta a scrivere un libro complesso. Effettivamente la ricostruzione è complessa, ma l’autore riesce a non renderla complicata. La complicazione di questo libro la paragonerei a un mosaico pieno di particolari che però ha nella sua unità una bellezza.
Questo libro ha un’altra identità: è un libro tipicamente italiano. Anche la genesi, induttiva nata dalla volontà di spiegare a un ragazzo la sua storia, fa parte proprio di una italianità che più che guardare a regole o a schemi precostituiti si getta nella complessità del mondo cerca di capirla. Mi raccontava un amico, che ha lavorato per un periodo società informatiche nella Silicon Valley, che molte società hanno all’interno un italiano che, quando ci sono dei guasti o delle situazioni per cui non si riesce capire perché le cose non funzionano, entra in gioco e, senza saper neanche tanto spiegare come, riesce a risolvere il problema. Questa capacità intuitiva-induttiva, questa creatività al di fuori degli schemi è veramente una caratteristica italiana. Nel libro è una storia concreta e non un ragionamento a far nascere l’opera, tutto funziona senza uno schema.
Questo libro infine è un libro europeo perché parla di persone venute in Europa, parla di giovani che sono venuti in Europa e che hanno lavorato e vissuto in Europa. Parla di un ragazzo figlio di una donna africana ora adottato da due europei e che sarà un nuovo europeo, dicono studi con ottimi risultati e si avvia a diventare membro della classe dirigente europea.
Infine mi sia concesso di parlare di una cosa personale. Io lavoro in banca e prima di essere assunto ho sempre pensato che il lavoro in banca fosse una cosa per persone con poca fantasia. Mi sono dovuto ricredere, ormai le banche sono un luogo dove si annidano le persone più sovversive che esistono nella nostra società. È chiaro che si tratta di un essere sovversivi non in modo violento, ma certamente conoscere le dinamiche interne dell’economia, capirne tutta la grettezza, provoca in certi animi  una ribellione.
Soprattutto non avrei mai creduto di trovare dell’anticonformismo. L’ho trovato in alcuni colleghi, e in questo libro Pino Ferrara mi ha fatto capire dove nasce. Lavorare in banca, controllare tutti numeretti, non farsi sfuggire niente, fa restare molto con i piedi per terra, ma se si sta con i piedi per terra a volte si riesce a prendere lo slancio per fare un salto. Personalmente auguro a tutti di leggere questo libro, perché si farà un salto nella comprensione del mondo di oggi, tirando i fili delle storie che sono le storie che noi vediamo naufragare sulle coste italiane e fa capire come la nostra fortuna di essere europei benestanti va investita in amore e comprensione per l’umanità, per ciascun uomo, per poter sperare in un mondo migliore.

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