sabato 28 giugno 2014

N. PARDINI LETTURA DI: "I SEGRETI DELL'UNIVERSO", DI NADIA CHIAVERINI





Recensione
a
Nadia Chiaverini: I SEGRETI DELL’UNIVERSO
CFR Edizioni. Piateda (SO). 2014

Ma  è la memoria che non torna/ rimane nascosta nei meandri della mente


C’è sempre vento che scompiglia i segreti
un treno in transito senza fermata                                
s’inventa ogni volta una storia
che invece è ancora  la vita

Poesia ampia, aperta, armoniosa, esigente, carica di input esistenziali quella di Nadia Chiaverini. Leggerla, miscelarsi ai suoi palpiti meditativi e alle sue offerte di generosa levatura poetica, significa assaggiare l’aspro e il dolce, il sacro, e il profano dell’esistere. Significa farsi poeti, con tutto noi stessi, farli nostri questi sapori contrastanti, queste dicotomiche presenze, che, intrise di terreno, di quotidianità, si elevano ai segreti dell’universo, del vivere, dell’esserci, del morire.

Sento a volte che la vita affonda
Come una vite s’avvita nel suo cardo                            
A volte s’intinge morbida nel legno
A volte s’infrange   in un duro
e freddo pezzo  di metallo… (pp. 1).

Sì!, è proprio così! La vita a volte affonda, a volte s’intinge, a volte s’infrange. Una suggestiva e diacronica emotività volta a cogliere, con estrema duttilità, la luce dei giorni, le ombre delle notti; il senso delle stagioni primaverili o autunnali del nostro andare. É doveroso pescare nei rigagnoli più nascosti di questo “poema”, negli anfratti più ombrati per coglierne i significanti più incisivi. E annotare che tutto confluisce in un fiume tanto ondulante come l’anima che li ispira. Ondulante per la varietà della versificazione a contenere tanto impatto emotivo. Ondulante per le fughe, i ritorni, le calme e le piene, le tensioni, ed i riposi di questo viaggio. É qui la compattezza e l’organicità dell’opera. In una visione scrupolosa, personale, tormentata, anche, dell’esistenza. Un’esistenza infarcita di sogni, di illusioni, delusioni, che contribuiscono a infoltire un memoriale che conturba la poetessa per la sua fragilità. Per una fragilità che nasce e si sviluppa nelle meditazioni che si innervano di tale sentimento. E questi messaggi da personali si amplificano ad una significazione universale; perché sono di tutti, appartengono all’uomo in quanto tale. Perché sa, e di questo si tormenta, che il tutto si svolge in uno spazio ristretto. Azzardare lo sguardo oltre la siepe provoca solo smarrimento, e conferma di questa nostra pochezza. Umana, quindi, anche troppo umana, questa vicenda nelle sua tormentata storia personale e sociale, e di vita e di spleen. Sì!, male di vivere. Direbbe il poeta: “Il sogno, lo spazio, e il tempo, segnando i limiti di un fatto, ne sono anche motivo, forte motivo di inquietudine e di elevazione spirituale”. Perché sa e teme la poetessa di perdersi in un mare tanto vasto che incute paura. Quella umanissima paura che il patrimonio, il grande patrimonio delle nostre memorie si annulli in così tanto spazio. In così tanto mare indifferente a storie di salite, e discese, di andate, e ritorni che si fanno sempre più preziosi col correre del tempo. Proprio come quelle essenze riposate in segrete, fuori dai rumori e dalle intemperie. Che da cristalline si fanno color oro, tanto sono preziose.

strappo le pagine del giornale
urlo che irrompe
duro e tagliente  come un diamante
certo la vita è abbondante
sfrontata e sprezzante
tracima
la  vita che chiama 
vita mai collaudata (pp. 1).


 Dal ventre di un antico garage
-ruggine sulla saracinesca e pareti ammuffite-
chissà cosa risale  alla luce
secchielli e palette del mare
retini per pescare
vecchie pagelle e la prima  cartella di scuola
di pelle rossa
barattoli di latta e pezzi di stoffa
Mi ricordano una lotta tra le cose
per rimanere vive
per non scomparire
Ma  è la memoria che non torna
rimane nascosta nei meandri della mente
dove è tabula rasa, non c’è più niente
Solo di ciò che è importante
rimane un bagliore, una luce
di chiavi a mazzetti, di oggetti
tanti oggetti, di plastica di legno di ferro
 oggetti senza senso oggigiorno
oggetti  senza ritorno… (pp. 5).     

Sì!, forse, esiste il timore di perdere la memoria, e non solo i piccoli suoi urgenti frangenti, schegge di vita. E' il tempo, nella sua corsa sfrenata, che tutto corrode. E c’è questa meditazione, questa visione eraclitea dell’essere e dell’esistere. Della labilità del presente. D’altronde è una nostra condanna quella di vivere a terra col pensiero rivolto all’oltre. Azzardare lo sguardo oltre i confini. E' pascalianamente  dicotomica questa simbiotica fusione fra l’essere umani e il pensiero che azzarda.    
        Ma, qui, c’è anche un profondo sentimento di attaccamento alla vita. Alla sua sacralità. E ai doveri dei padri per i figli, all’amore per tutto ciò che ci circonda e ci turba per la sua bellezza e misteriosa rarità. E tante le questioni che si addensano nell’animo della Nostra. Come gli stessi interrogativi sulla continuità delle familiari vicissitudini; o su quel patrimonio che si è fatto storia. Dum loquimur fugerit invida aetas. Ed è questo che turba, è questo che infonde pathos al dipanarsi dello spartito poetico, tatuato da un’anima fortemente irrequieta. Sì!, fugge il tempo, ma si lascia dietro un carico di esperienze umane che si fanno vive, pesanti, soprattutto se prospettate nel lontano futuro. Da qui i tanti dubbi che si concretizzano in versi dettati da tanta generosità ispirativa. E la parola si fa essenziale, matura, nuova. Sconnessa, anche; incurante dell’ordine morfosintattico; inventata nella sua forza evocatrice, tanta la voglia di dire. La poetessa la lavora, la amplifica, la scompone e ricompone, perché sente l’urgenza di termini finalizzati a tale portata. Termini adatti e propensi ad affiancare tanta effusione emotiva. La poesia per Nadia Chiaverini è lavoro, non certo scrittura nata da un’ispirazione pensata intoccabile, ma ricerca; è ampliamento o riduzione del verso; è insieme di enjambements e figure stilistiche che creino significanti metrici adatti a far risaltare i ritmi varianti del cuore; insieme di accorgimenti lessico-fonici, di astuzie, anche, frutto di esperienza sul campo. E la parola non sempre è sufficiente a coprire gli spazi tanto misteriosi, quanto pressanti dell’anima. Da qui, anche, l’insoddisfazione perpetua del “poeta” che non trova mai adeguato l’incastro verbale.

Accettare il tempo
Delle domande senza risposte
Mentre si stempera e dilava
La collera che più non m’appartiene .
Abitare le parole come una casa                                    
Adattarle al corpo come un abito da sera
Nuova dimora il tempo che consola
Finché il silenzio  eterno comincerà a parlare
Come una madre che non si dà pace
Perché ormai  il tempo è scaduto
Come un piccione finito sul selciato (pp. 2)

        E c’è  la natura, in questi versi, a fare da supporto agli intenti meditativo-esistenziali della scrittrice. Una natura sempre presente con i suoi colori, le sue ombre, o le sue luci a rendere visivi gli impulsi emotivi. Una natura trattata in tutte le sue misure occorrenziali.

Stentano le rose quest’anno
come domande senza   risposte
fuggite come illusioni  perdute
stelle   cadenti
in un  cielo  nero d’inchiostro        
Pensa a me
quando un fulmine l’attraversa
come un pensiero perverso
non è ancora maggio
e le lucciole tintinnano la notte (pp. 1).

Le rose, le stelle cadenti, il cielo, il fulmine, maggio, le lucciole… configurazioni di tanti segreti che danno forza e colore, concretezza al sentire. Si traducono in allegorie di un linguaggio teso a evidenziare i significati più intimi. É uno dei momenti di maggiore effetto lirico. Di grande portata poetica. La musicalità intrinseca, contenuta nella magistrale disposizione del verso libero, e il contenuto che si slarga dal soggettivo a considerazioni oggettive “Stentano le rose quest’anno/ come domande senza risposte/ fuggite come illusioni perdute…”   fanno di questi versi una vera melodia di suggestione plurale.

   i segreti dell’universo I

 In un mondo di maschere 
si nasconde l’anima in orbite vuote
E’ la vita che strazia e nessuno ci crede 
È lo specchio la prova: 
-Davvero, ma’ , eri così? 
Opera d’arte stravolta da genio d’artista 
Che gonfia le reni e affloscia i seni 
Forse tutto poteva essere altrimenti
Lo sanno  le pietre dei torrenti 
Che rubano i segreti dell’universo (pp. 3).


i segreti dell’universo II

-Quando puoi, torna presto-
 Lo so, hai bisogno adesso
Quando io non ci sono
Ti chiederò perdono, dopo
Quando sarà tardi
Forse tutto potrebbe essere diverso       
Lo sanno  le  sabbie del deserto
 Che rubano i segreti dell’universo  (pp. 3).

        Ma quanti i segreti dell’universo. Di un universo che ci ruota attorno, che ci assedia, che ci liscia, ci lambisce, ci arrovella la mente, l’anima e ci stravolge. E noi ci torturiamo coi perché. Ci poniamo questioni insolubili, e ci tormentiamo, non trovando risposte giuste. Quello che distinguiamo è solo l’apparenza, la superficie sottile di un misterioso processo; ma non riusciamo a districare i reconditi nessi di un imperturbabile fieri. “Forse tutto poteva essere diverso/ …/ Lo sanno le sabbie del deserto/ Che rubano i segreti dell’universo”. “Lo sanno le pietre dei torrenti/ che rubano i segreti dell’universo”. 
        Il dubbio, il letto vuoto, la notte insonne, fonda, il richiamo di parole, e un cielo che trattiene il respiro, muto. Un concatenarsi di sequenze psicologiche devastanti: tentativo di appigliarsi al sogno, per confutare una realtà amara. Ma tutto fa parte di un gioco umano, fatto di passioni e di sconforti. Di sconfitte, forse. Ma anche spia di un grande attaccamento alla vita, perfino a quella sua parte che più ci addolora. E Nadia Chiaverini fa della poesia uno strumento di vibrante realismo psicologico e filosofico. Costruito su riflessioni amare, scatenate da quello specchio realisticamente impietoso che ci parla di tempo, di affetti, di autunni e primavere. Di carne ci parla. E della  miseria del corpo umano dovuta a quei segreti che tanto ci assillano.
Ma anche se la Nostra, alfine, giunge all’amara conclusione che tutto si disfa in polvere, in una misera polvere che chiude una stagione senza dèi e senza precisi orizzonti, non è detto che in quella pietra nera - e mi piace pensarlo - non possa vedere un futuro punto luce quale simbolo di spiritualità e di prolungamento di vita. Quel prolungamento che troneggia anche nel  disperato grido di emorragia d’amore

“e mi stringevi  la mano, amore”


                                Nazario Pardini                            


Nessun commento:

Posta un commento