martedì 3 giugno 2014

PASQUALE BALESTRIERE: "L'ORFISMO DI DINO CAMPANA"


Pasquale Balestriere collaboratore di Lèucade

L’ORFISMO DI DINO CAMPANA
DI 
PASQUALE BALESTRIERE
COLLABORATORE DI LÈUCADE

Dino Campana dal dipinto di Giovanni Costetti


Piero Bigongiari nel 1959 includeva i Canti Orfici di Dino Campana tra i venti libri del Novecento da salvare [1]. Dopo poco più mezzo secolo il poeta toscano trova solo breve spazio in diverse antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo di studi medio-superiore. Recentemente (soprattutto dagli anni Novanta in poi) si è manifestato  un risveglio d’interesse nei confronti di questo artista che è, anche per vicende biografiche, l’unico vero esempio di “maledettismo”  -autentico, dico-  (e non, come accade oggi in qualche discutibile poeta, esibito, se non addirittura ostentato) della poesia italiana.
DINO CAMPANA (Marradi 1885 - Castelpulci 1932) ebbe un’esistenza vagabonda e travagliatissima. Una grave forma di psicopatia, manifestatasi vero i 15 anni, gli fu compagna assillante e tremenda. Nel 1913 aveva già scritto i Canti Orfici, unica sua opera (se si eccettuano alcune pubblicazioni postume di “carte” campaniane curate da vari studiosi), della quale lo stesso Ardengo Soffici non comprese appieno il valore se è vero che, avendone addirittura smarrito il manoscritto, purtroppo in unico esemplare, costrinse il Campana a ricostruire mnemonicamente la raccolta. E pensare che lo sventurato Dino sperava nell’aiuto di Soffici e della redazione di Lacerba (innanzitutto di Papini, che per primo aveva avuto tra le mani l’opera) per la pubblicazione dei suoi versi! Così i Canti Orfici vennero stampati nel 1914, a spese dell’autore, presso il modesto editore (o tipografo) Ravagli di Marradi. I primi studiosi ad interessarsi di quest’opera furono, manco a dirlo, i critici militanti di quel periodo: Giuseppe De Robertis, Emilio Cecchi, Giovanni Boine. Poi, nel corso del tempo, hanno scritto di Campana biografi, esegeti, poeti, narratori, critici: da Mario Luzi a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Carlo Bo a Franco Fortini, da Antonio Tabucchi a Sebastiano Vassalli, da Gianfranco Contini a Eugenio Montale, da Gianni  Turchetta a Luciano  Anceschi, giusto per citarne alcuni.  
Ma perché Canti Orfici?
Va innanzitutto precisato che il titolo originario della raccolta manoscritta, quella affidata a Papini, che l’aveva passata a Soffici,  era “Il più lungo giorno“. Il caso ha voluto che la raccolta venisse ritrovata nel 1971 nel mare magnum delle carte di  Soffici ( morto nel 1964) nella sua casa di Poggio a Caiano.
Per ritornare alla domanda, occorre dire che nel 1910 Domenico Comparetti pubblicava a Firenze un’opera fondamentale per la conoscenza dell’Orfismo: la silloge delle Laminette orfiche, sottili làmine d’oro rinvenute in tombe di alcune località della Magna Grecia e della Grecia stessa, che sembrano essere le uniche testimonianze dell’ escatologia di tale dottrina. È noto, infatti, che l’Orfismo fu un culto misterico (“il più misterioso dei misteri greci”, lo definisce Vincenzo Cilento[2]) che si collegava in qualche modo al mitico Orfeo, poeta, vate, e citaredo, del quale il Böhme[3] sostiene addirittura la storicità, collocandolo, cronologicamente, in piena età micenea (XV/XIV sec. a. C.). E quindi Orfeo sarebbe vissuto prima di Museo, Omero ed Esiodo.  Dell’esistenza di un credo orfico offrono testimonianze degne di fede Pindaro, Empedocle e Platone ma soprattutto le cosiddette “lamelle auree”, le già citate laminette d’oro sulle quali sono incisi ammaestramenti ai defunti e formule sacre: esse sono state ritrovate, quasi sempre in tombe, a Thurii, Petelia, Farsalo, Eleutherna (Creta) e Hipponion. Il culto orfico, praticato da una setta di iniziati, non ebbe mai larga diffusione per la sua dogmaticità e per l’eccessiva imposizione di divieti (molti   accoliti in più  ebbero i misteri eleusini); si affermò quando vennero meno le “poleis” e con esse la religione omerica, promettendo all’uomo greco, in ambasce religiose, una eroizzazione (più che divinizzazione) del miste.
È lecito chiedersi a questo punto in quale misura l’Orfismo abbia influito sulla produzione poetica di Campana.
Ho già detto che la silloge comparettiana vide la luce nel 1910 ed è noto che nel 1913 i Canti Orfici  erano praticamente composti; nel 1914 infatti vennero dati alle stampe. Mi pare dunque difficile che la pubblicazione del Comparetti abbia potuto incidere a fondo sulla poetica di Campana; verosimile è invece che essa, come afferma il Galimberti[4], abbia avvicinato il poeta alle fonti più pure dell’Orfismo, già del resto conosciuto, forse attraverso Nietzsche e Rohde.
Uno degli aspetti orfici più eclatanti in Campana è il titanismo, venato di colpa, di scelleraggine, di perfidia; il quadro però si slarga in una visione amplissima, variamente colorata e infine analogica: titano è Adamo, è Lucifero, è Faust, è l’uomo, è chiunque si ribelli all’autorità costituita; ma, orficamente, è impuro, è colpevole (e Campana non sentiva colpevole la sua stessa follia?); pertanto, chiuso nel ciclo delle nascite, trova in questo il suo limite e la sua speranza di salvezza.
Più che all’escatologia orfica la spiritualità di Campana sembra protesa allo svelamento del mistero che circonda l’uomo e la sua vita: l’orfismo misterico e misterioso gli offre allora l’espressione -Canti Orfici- adatta ad indicare il sordo lavorio di scavo e di ricerca, l’affannoso impegno poetico che gli consente di strappare alla fitta ragnatela del mistero l’immagine poetica, incerta e torbida, e di cristallizzarla in religione e mito, motivo e scopo dell’esistenza; sicché lo sguardo allucinato del poeta si fissa a scrutare una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce; e forse Campana sente di dover indossare i panni del poeta-vate, ierofante e profeta, titano e uomo.
Come che sia, un fatto appare indiscutibile: Campana ha fatto tutt’uno della sua vicenda biografica e della rappresentazione poetica: vita e poesia, quotidianità ed estasi, serenità e pazzia si fondono senza soluzione di continuità.
Non è da credere però che Campana non abbia avuto ascendenti culturali, del resto ben individuati: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Poe, i preromantici e i romantici, Nietzsche, Rimbaud; così l’io titanico che si esprime nei Canti non sarebbe comprensibile né spiegabile senza tener conto della Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia) nicciana  o de Le bateau ivre (Il battello ebbro) rimbaudiano; e l’intero mondo lirico non sarebbe rettamente interpretato senza certe mediazioni dannunziane e romantiche o senza la lezione poetica e morale carducciana.
Dino Campana, “poeta maledetto” della letteratura italiana non ha trovato finora, come ho già detto, veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie, come nel caso degli ermetici e di certa recente poesia: il fatto è che sul suo sostrato culturale e sulle sue esperienze biografiche s’innesta una tendenza odissiaca e avventurosa unita a una predisposizione, non solo  visiva, come pur sostiene qualcuno, ma  visionaria, che attentano all’integrità del mistero e quindi richiedono lo svelamento o, almeno, l’intuizione della vera realtà, dell’inconoscibile, con tutta l’acutezza morbosa e le innumerevoli possibilità di “lettura”, di interpretazione e di discorso poetico che solo l’autentica genialità,  magari -come nel nostro caso-   venata di follia, può consentire. Per questo la strada percorsa da Campana è rimasta impraticata; per questo i Canti Orfici non sempre trovano piena realizzazione artistica; ma per questo, anche, esistono.
A questo punto si può tranquillamente affermare  che Campana ci ha lasciato un guizzo d’umanità inquieta, che cerca di superare e spiegare una foresta di simboli, tipicamente baudelairiana, attraverso l’onirismo evocativo e medianico, le folgorazioni improvvise, le sciabolate di luce torbida, creando immagini spesso solo accennate, ricche di colore, di suggestioni e rapporti analogici; si spiega così il dettato poetico a volte estremamente dovizioso, a volte fratturato e sconnesso, disseminato di passaggi arditi, logicamente inspiegabili; e l’aggettivazione, quasi abbacinata in illusoria fissità, non riesce a nascondere l’ansimo del verbum strappato al mistero.
Pertanto non è assolutamente pensabile di legare Campana a una scuola poetica; del resto i suoi legami con il futurismo furono brevi ed epidermici.
È invece legittimo pensare a lui come a un titano folle e irriverente, che, per aver partecipato allo sparagmòs (dilaniamento) di Dioniso-Zagrèo (a proposito, si noti l’analogia con la morte dell’apollineo Orfeo fatto a pezzi dalle Mènadi tracie), è condannato a scontare la propria colpa e a vivere dolorosamente la propria umana condizione.
Per chiudere, riporto la poesia forse più esemplare, ma certamente più conosciuta, dei Canti Orfici: “Viaggio a Montevideo”.


VIAGGIO A MONTEVIDEO
di Dino Campana

Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D'ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:...
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un'isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell'equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l'inquieto mare notturno.

Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco:
selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune... 

                      Pasquale Balestriere






[1] P. Bigongiari, in L’Approdo, ott.-dic. 1959.
[2]V. Cilento, Comprensione della religione antica, Napoli, 1967.
[3] R. Böhme, Orpheus. Der Sänger und seine Zeit, Bern und München, 1970.
[4] C. Galimberti, Dino Campana, Milano, 1967.

6 commenti:

  1. Visse miseramente facendo il giramondo. Nel periodo in cui si spostava tra Firenze e Bologna, egli stesso vendeva nei caffè fiorentini frequentati dagli intellettuali i suoi Canti orfici. Diceva dei suoi versi: "Sono note musicali; - Sono stati di fantasia. - Sono colorismi più che altro. - Sono un effetto di colori e di armonia: un'armonia di colori e di assonanze. - Cercavo di armonizzare dei colori e delle forme". E il Falqui commenta, sintetizzando il valore e il significato del poeta: "L'accoramento e quel sollevare una delirante vita fino alle vette più aeree per subito risprofondarla, è facoltà singolare di Dino Campana". Quello che sapientemente e sensibilmente emerge dall'approfondimento analitico-esegetico del nostro Pasquale Balestriere. Grande studio, il suo, che va oltre, naturalmente, approfondendo uno dei punti focali del poeta, l'orfismo, poco trattato così ampiamente fino ad ora dagli altri critici. Un perspicuo contributo alla conoscenza delle intime vicende del grande Campana
    Nazario

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  2. Vale la pena di ricordare, a completamento di questo colto ed affascinante saggio, da meditare, il lavoro di Sebastiano Vassalli su Dino Campana. che porta il titolo La notte della cometa, del 1984
    Amatissimo, Campana rappresenta per Vassalli la ricerca del padre ideale, quello letterario, che l’autore incontrò leggendo La Chimera, la poesia che Dino aveva mandato a Prezzolini, a vent’anni.
    "Cercavo un personaggio con certi particolari connotati. Il caso me l'ha fatto trovare nella realtà storica e da lì l'ho tirato fuori: con accanimento, con scrupolo, con spirito di verità.
    …. se anche Dino non fosse esistito io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest'uomo meraviglioso e 'mostruoso', ne sono assolutamente certo. L'avrei inventato così".
    Così finisce il libro di Vassalli, poeta che parla di un poeta, e in Campana biografa parte di se stesso.
    Non è, Vassalli, biografo di una "vita", ma di una speranza tesa, e di un gusto che, sta virando, in caccia di una integrità e di una forza individuale di scrittore, esemplare oggi scomparso, dissolto.
    “Le mie ricerche su Dino Campana mi hanno insegnato quanto sia difficile ricostruire la vita di un uomo che non è stato storicizzato in vita. Ogni ricordo si perde nel volger di pochi anni, al massimo di qualche decennio; le guerre e l’incuria dei vivi distruggono registri,archivi, documenti.- e sconsolato conclude-…Una panca, un tappeto possono durare per secoli: il ricordo di un uomo no . Come sta scritto nel libro: < Un infinito vuoto. Un infinito niente. Tutto è vuoto niente.>”
    M.Grazia Ferraris

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  3. Trovo particolarmente suggestivo e puntuale questo saggio critico su uno dei poeti più celebrati, ma anche più isolati, del nostro Novecento, che - come dice giustamente il suo autore - "non ha trovato finora... dei veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie" ragguardevoli. Tra queste vorrei permettermi di indicare un autore profondamente anarchico e metafisico nello stesso tempo, la cui notorietà è purtroppo circoscritta alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori: Marino Piazzolla. Stimolante e molto sottile lo scavo psicologico-filosofico condotto da Balestriere sull'Orfismo in generale, ed in particolare su quello campaniano, ponendo in risalto i legami e le distinzioni tra la visione orfico-superomistica, che promette "una eroizzazione (più che divinizzazione) del miste", e la visione omerico-odissiaca, che io direi squisitamente umanistica, eroica ed antieroica nello stesso tempo.
    Franco Campegiani

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  4. La profonda e lucida esegesi di Pasquale Balestriere su Dino Campana, ci aiuta a capire il tremendo dramma vissuto dagli intellettuali, e soprattutto dai poeti, verso la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. E la cosiddetta ma vera “follia” di Campana è il segno più integro del disagio e del male di vivere dei poeti “maledetti”. Dino Campana non è estraneo alle suggestioni di Baudelaire e di Rimbaud, soprattutto in “Viaggio a Montevideo” e in “Chimera”. Anche le iniziazioni, cui accenna con ampia dovizia di analisi e riferimenti Pasquale Balestriere, sono certamente molteplici e di varia consolidata ispirazione poetica, palesi o nascosti, cui anche Dino Campana si ispira, attento più a rendere ritmo e musicalità che a rigorosi legami “sintattici” e logici. La poesia di Campana si spinge al centro dell’ansia della verità e spesso appare, come ebbe a dire Carlo Salinari “un fiume tumultuoso, come un caos pauroso, un abisso senza fondo. La notte è il suo simbolo visivo”. Un vero oltraggio che i “Canti orfici” non siano riusciti a conquistare un posto migliore nel nostro spazio letterario. E’ grazie a Pasquale Balestriere se possiamo rituffarci nella poesia degli anni tra i più tumultuosi ed innovativi del nostro fermento culturale, di respiro europeo. Mi ha fatto anche tornare alla mente la splendida, singolare e dirompente lettura dei Canti Orfici di Carmelo Bene.
    Umberto Cerio

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  5. un breve ma nutrito saggio, che mette in luce alcuni aspetti interessantissimi della produzione "orfici" del caro poeta, scomparso troppo giovane e dalla vita travagliata e pur feconda di cultura e creatività. Un approfondimento , questo di Baletriere che ben si colloca nella "storia" della nostra letteratura , aggiungendo tasselli luminosi e approfonditi , che non si trovano facilmente nelle pagine cosi dette ufficiali. Auguro allora che riesca a scrivere ancora per altri poeti - autori poco seguiti dalla critica, ma meritevoli di ogni attenzione. Antonio Spagnuolo .

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  6. In una siffatta analisi su Campana, Balestriere mette in essere una suggestiva struttura classico-umanistica e petizioni culturali profonde sull’esistere, bifronte, tra Kronos e Aion: soltanto con tali premesse gli è possibile trasformare le valutazioni dell’orfismo di Campana, dell’animus che lo sottende, in un urto culturale per i debitori (ignavi della letteratura) verso un poeta maudit , che egli consegna alla folta colonna dei geni. Campana, pur con le contraddizioni disperate, le vertigini sugli abissi, con la visionarietà baudelairiana (les nuages qui passent là-bas) o il colore cupo della mente, del dolore insensato, precede in noi, tramite il critico, il gridellino dannunziano, il colore che concupisce l’infinito.
    Le voragini esistenziali - che si affidano all’orfismo per una ricerca sacra, per reagire alla tomba, affermando il diritto all’urlo, al titanismo - trovano, analogicamente, ragioni o mitiche o storiche: i ritorni interiori o esteriori di Campana viaggiano fra due poli: la Grecia orfica e il relativismo sul crinale di due secoli(XIX/ XX); e sono altresì elementi presenti nella contemporaneità culturale e sociale, suggerisce Balestriere (onde la parola chiave, metodologicamente indicata, per il passato e il presente, dell’analogia). Campana, così disatteso dalla critica scolastica e letteraria, non compreso nell’unicità simbolica di un insegnamento (l’agire poetico), è ancora solo, ma è vivo . Questa dignità umana e questa unicità profetica (questo fare, vivendo, poesia) sono dichiarate con empatia umana e letteraria da Balestriere, che volontariamente, provoca urti intellettuali non ignorabili. Egli vede nell’oggi la cardinalità, la necessità di recuperare un poeta che in sé aveva riassunto sconfitte esistenziali e sibili di infinito, squallori e prove poetiche nel demolirli: è come se il critico contaminasse nella sua carne culturale gli echi furibondi di Kronos o quelli placati, struggentemente evocativi, di Aion; risacche di un mare greco o italico che interrogano velieri di Odisseo e vascelli letterari (baudelairiani?), alla scoperta della vita, oltre l’accidia mentale e la sua disperazione.
    Lo scritto di Balestriere è di una potenza provocatoria inaudita: è il riverbero di chi conosce le vie dell’intelligenza e della Bellezza, che portano lontano, oltre ogni pregiudizio,oltre ogni sé congelato.

    Maria Luisa Tozzi

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