Giancarlo Baroni. I
nomi delle cose. Puntoacapo
Editrice. 2020
Divora l’erba di cui si
nutrono
con tanta avidità che non ne
resta (Avidità).
Giancarlo
Baroni si presenta sulla scena poetica con la nuova silloge dal titolo I NOMI
DELLE COSE editata con cura per i caratteri di puntoacapo Edirice. Il poeta affonda le radici nell’amore per l’arte,
nei raggi luminosi del poema, nei disvalori del tempo, e già viviamo appieno il
suo messaggio ontologico dalla poesia eponima che contiene gli abbrivi emotivi
che fanno da prodromica apertura al resto dell’opera. Tanti sono gli spunti che
ci permettono di avviare la lettura di questa proteiforme plaquette: la
struttura formale, i densi contenuti di vita e di amore, il connubio tra
verbalismo e empatia, la esperita limpidezza disciplinare, e le aporie del
quotidiano…
Poesia
scorrevole, di euritmica sonorità, in cui il verso, con tutto il suo potere
concretizzante, affidandosi ad accessori di effetto contrattivo ed estensivo,
si distende su uno spartito ampio e articolato. Molteplici le chiavi di lettura
di questa versificazione: memonica, esistenziale, naturalistica, psicologica,
onirica, ma soprattutto realistica; di un realismo pane a pane, vino al vino.
Così come le cose ci parlano, coi loro nomi, e con i guizzi del pensiero dell’autore,
teso a confessare i suoi patemi, i suoi stati emotivi, la sua plurale
connotazione vitale. L’uomo è condizionato dalla realtà che lo circonda, e bene
o male, ne riceve gli stimoli a riflettere, a pensare alla sua condizione
umana: perché esistiamo, cosa ci riserverà il futuro, i misteri del quando e del dove. Tutti interrogativi che non
trovano risposte adeguate; e di questo il poeta si inquieta, si tormenta, come
ogni altro mortale, che si sente a disagio di fronte al tutto o al niente. Fin
dai tempi più remoti l’uomo ha fatto a cazzotti con il tempo, sentendosi da
esso sconfitto senza tregua. E così
(vedi gli Egizi e prima ancora altre civiltà) hanno accompagnato il defunto con
generi alimentari o comodità varie pensando di continuare la vita spirituale
oltre tomba. Insomma l’uomo ha sempre sofferto della sua finitezza. Sentirsi dei pulviscoli spersi nell’infinito non
è di sicuro cosa rara, dato che dall’origine l’essere umano si è confrontato col tempo e la
natura. E’ notando il ciclo delle stagioni, la bellezza della primavera e la
caducità dell’autunno, che ha considerato la sua scomoda posizione in questo
perenne flusso; la sua effimera statura di fronte al tutto che lo circonda; i
suoi limiti epistemologici. Un vero viaggio questo di Baroni, un nostos tra
bufere e giorni di sole. Come è la vita. E qui poesia e vita si alimentano a
vicenda dando concretezza e visività, paradigmatica consistenza al verbo, agli
impatti sintagmatici che proprio dalla vita traggono respiro. Ed è così che la
natura, attorno vigoreggiante, si fa interprete delle emozioni del poeta.
Si
viaggia, anche a vista, senza una meta precisa, col rischio di sbattere in
trabucchi in agguato; l’importanza è andare, navigare con la speranza di vedere
all’orizzonte il profilo di un’isola che tiene il quid del fatto di esistere. Tutti
i quesiti che ci vogliono presenti, tutti i giochi che alimentano le ombre
della nostra strada. Ombre e luci. Le contrapposizioni che formano, col loro
ossimorico apporto, i vari stadi dell’esistere. D’altronde la vita è fatta di
ombre e di luci, di luci e di chiarori, di chiarori e di lampi, di lampi e di
nubi. Dal succo di tali contrapposizioni l’essenza dell’esser-ci. Il nome delle
cose. Scomodando Eraclito: «È
la stessa cosa in noi il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e
il vecchio; poiché queste cose mutandosi sono quelle, e quelle a loro volta
mutandosi sono queste». E tutto scorre nella dialettica dei contrari, tutto si
fa e si disfa, tutto genera e forma la via su cui camminiamo. Cosa resta alla
fine? Il ricordo. Un memoriale che equivale a rivivere con sottigliezza i
giorni in cui godemmo o quelli in cui patimmo. Il fatto sta che c’è sempre
nella nostra sacca un fatto nebuloso ormai sfumato di quello che fummo. Restare
aggrappati a tale memoria significa ricostruire, e perché no, allungare, anche, il tempo che ci fu dato per vivere. Invenzioni creative, costruzioni personali,
stilemi che vanno contro il pensiero comune ci attraggono per la loro novità;
ci incuriosiscono dacché viene da sé porci la domanda del fine a cui aspira
l’autore; dato che spesso il suo stile resta impigliato nel nome delle cose
senza dare un netto logos del suo andazzo complessivo, a meno che non si cerchi
il risvolto ecologico, come in Avorio a pag. 12; o il surreale appiglio di chi
se ne beve il caffè “come se davanti avesse/ non il viale con mille
auto/ma un golfo pieno di vele” alla pag. 59. Di certo uno stile che ci
sorprende, che ci frastorna, con i suoi risultati improvvisi, che mai ti aspetteresti. A meno che tu non voglia
scoprire il senso della caducità dei
petali delle rose negli interrogativi sulla durata delle pareti che li
contengono. Qui omnia sunt, tutto è possibile se si parte dai presupposti del
titolo: I NOMI DELLE COSE. Di certo una poetica lontana dagli sperimentalismi
di positura prosastica, dacché il verso sa quando deve andare a capo e contiene
in sé il pensiero dell’autore, che, presente e attivo, dà substantia al tutto.
Un proseguire snello e apodittico dove le composizioni, di pochi e brevi versi,
si distendono nette e asciutte. Anche le figure retoriche accompagnano in
maniera ridotta, meno che l’antitesi, la metafora e il simbolismo, la sintassi
poetica. Una poesia che ci appare più vicina alla tradizione italiana che alle
novità sperimentali, differenziandosi, comunque, per costruzione formale e
invenzioni creative, che la rendono unica e personale:
Si affaccia alla finestra
sorseggia un caffé beata
come se davanti avesse
non il viale con mille auto
ma un golfo pieno di vele (Un golfo pieno di vele).
Nessun commento:
Posta un commento