UNA BREVE RIFLESSIONE SU DUE
LIRICHE
di
MAURIZIO DONTE
Orazio Antonio Bologna
collaboratore di Lèucade
Quando si affronta il discorso sulla
Poesia, si prova non poco imbarazzo: penetrare nell’animo del Poeta non sempre
è facile, e non è agevole cogliere, anche a una lettura molto attenta e
coscienziosa, tutte le sfumature, che costituiscono il movente della produzione.
La Poesia non è mai stata, nel passato, un prodotto a se stante, avulso dalla
realtà, dal contesto sociale e politico; e non lo è oggi, perché il Poeta non è
insensibile tanto alle spinte interne di rinnovamento, quanto ai fermenti
culturali, che, seppur frammentati e piegati verso tendenze non sempre
ortodosse e consone con la morale umana, costituiscono il bacino, dal quale con
serenità e responsabilità attinge quegli elementi, che, meditati e dirozzati
dalle becere strumentalizzazioni, cui, nel corso del tempo, sono andati
necessariamente incontro, ripropone in chiave diversa all’attenzione del
lettore.
La vera e grande Poesia nelle mani di un abile Poeta, cui
non difetta cultura e sensibilità, abilità nella versificazione e chiarezza di
idee, ha sempre, e comunque, un compito, una missione paideutica. E ciò fin dalle
più remote origini, che vanno cercate nel complesso e variegato mondo assiro
già nella seconda metà del terzo millennio avanti l’era volgare. Al travagliato
periodo di Sargon II è legata non tanto la vita, quanto la produzione lirica di
Enheduanna, vissuta intorno al XXIV sec. a.C. È la più antica poetessa, che
nella storia dell’umanità ha firmato la sua produzione poetica. Secondo la
storia era figlia di Sargon e sacerdotessa del dio Nanna a Ur, dove è stato
trovato anche il suo sigillo, interessante sotto diversi aspetti.
Come ministra del culto
all’interno della città, Enheduanna con un inesprimibile e indescrivibile
afflato lirico scrive liriche pertinenti alla religione, alla fede, alle realtà
trascendenti, che appagano l’animo scosso dalle varie e imprevedibili sventure
terrene. Alla produzione religiosa della poetessa accadica si può accostare la
raccolta dei Salmi, nei quali, accanto alla preghiera, vivono intensi squarci
lirici di altissimo livello, che solo un animo sensibile, educato al culto
delle divine Camena può comprendere e vivere in tutta la sua grandezza.
Anche oggi, nonostante nell’aria vibri potente un esagerato
materialismo e si imponga ogni giorno, e con insistente caparbietà, un insensato
e fuorviante edonismo, la poesia di ispirazione religiosa trova ancora ampio respiro
e maggior ragion d’essere: il poliedrico aspetto della materia, infatti, anche
se alletta e seduce con le sue lusinghe e le sue scintillanti attrattive, non appaga
l’anima, che, per sua natura, anela solo verso l’immateriale, verso il divino,
verso l’eterno. Poesie di altissimo livello e di profonda e di intensa ispirazione
religiosa, oggi, sono dettate dall’animo sensibile di Maurizio Donte, che è una
delle voci più alte e autorevoli della poesia contemporanea.
Il solo accenno alla produzione lirica di Maurizio incute non
poco timore e perplessità anche al critico più incallito; e cercar di avvicinare
e sfiorare le liriche dettate dal suo animo sensibile occorre un coraggio e un
bagaglio di conoscenze non indifferente. Il Poeta, infatti, all’interno di
liriche strettamente legate alla tradizione e alla metrica classica, infonde
ciò che percepisce dal sommesso bisbiglio della natura, dal lieve sciabordio
dell’onda, che si frange sul lido; dai marosi, che con fragore flagellano le
aspre scogliere della Liguria. La lettura delle sue liriche proietta nell’animo
l’usata dolcezza delle colline e delle valli all’interno nell’‘aspro e selvaggio
Appennino ligure, il quale, con i suoi blandi sussurri e con le asperità delle
sue vette scoscese, ha plasmato l’animo del Poeta a quella sensibilità, che
trasuda da ogni verso.
In questi luoghi di suprema bellezza e ancora incontaminati
il Poeta medita e trae ispirazione per componimenti di ampio respiro, nei quali
l’uomo si fonde non solo con la Natura, vive nella Natura, si sente Natura, ma
percepisce in tutta la sua potenza la presenza del divino. Maurizio coglie
questi aspetti e li riversa nell’armonia delle sue liriche, che vanno lette con
serenità, attenzione, con calma.
In queste brevi annotazioni oso fermare l’attenzione
innanzi tutto su una bella e intensa lirica dedicata alla Madonna e intitolata Vergine
benedetta. È, in questo luogo, opportuno dire che Maurizio non è il primo a
rivolgere un inno alla Vergine: già illustri predecessori, come Dante e
Petrarca, per non citare poeti poco noti al grosso pubblico, hanno rivolto
intense e sentite preghiere alla madre del Redentore. In questo caso specifico
Maurizio non segue Dante, la cui preghiera, posta in bocca a San Bernardo, è
troppo teologica e impegnativa sotto il profilo tanto spirituale quanto
culturale: in questo inno sublime Dante fonde in maniera esemplare tanto la profonda
cultura teologica quanto la sublimità dell’irraggiungibile e ineguagliabile
ispirazione lirica.
Nella
sua sincera e intensa invocazione alla Vergine per molti aspetti, soprattutto
umani, si avvicina molto al Petrarca, cui come uomo e per la sua formazione si
sente più legato, come si evince già dalla lettura dei versi, che compongono la
prima strofa:
Vergine
benedetta,
che
sei del Ciel Regina,
posa
uno sguardo limpido
su
questa terra amara,
e per
noi prega o nostra Madre cara.
Vedi,
da tempo immemore
tra i
popoli è la guerra,
prega
per questo mondo,
che
non conosce pace,
prega
per le miserie
che
tutto il mondo, pur sapendo, tace.
I primi due versi, che aprono e
conferiscono all’intero componimento il più profondo significato, ricalcano in
maniera magistrale più i segni della sincera e sentita pietà popolare, che la
straordinaria ricchezza e la profondità dell’insegnamento e della speculazione
teologica. Questa, com’è ovvio, non è assente nell’omiletica liturgica e
cultuale della Chiesa, che trae la sua linfa vitale soprattutto
dall’insegnamento teologico. Questo, oggi, per l’eccessiva semplificazione e un
errato modo di rendere e porgere il rapporto col divino viene del tutto
trascurato persino, e soprattutto, da chi dovrebbe inviare chiari segnali di
dottrina e di spiritualità al fedele.
L’ispirata lirica di Maurizio si può, nello stesso tempo,
considerare lauda, inno, elegia: ripropone, infatti, con sentiti e vibrati
accenti attuali l’intimo e l’insanabile contrasto tra il peccato e la
redenzione, sempre presente nella vita del cristiano. Questa drammatica situazione
si risolve solo se la Madonna posa il suo sguardo puro sull’uomo, che porta ancora,
nonostante la redenzione, il pesante fardello dei mali, derivati dal peccato
originale. Già in questa strofa si avverte l’intima fusione tra l’amore umano,
intriso di passioni e odi, e l’amore divino, fonte di serenità e di quiete.
Maurizio, infatti, sulla scia di Petrarca, cerca di giungere alla pace mediante
l’abbandonata e fiduciosa preghiera rivolta alla persona, che, più di tutti, è
vicina al Redentore.
All’immediato e crudo sguardo sul mondo davanti agli occhi
del Poeta balza in primo luogo la guerra, che lacera e dilania l’umanità. È, questo,
uno stato normale, cui ormai l’uomo è abituato; e anche alla notizia di
migliaia di morti, come già si è più volte verificato in questi ultimi anni,
rimane impassibile: le difficoltà e l’amarezza della vita sulla terra gli hanno
indurito il cuore. Ma ciò che amareggia di più la riflessione del poeta, il
quale mediante un efficace inciso e una rima inattesa richiama l’uomo alla
cosciente consapevolezza di fronte al dilagare dei danni fisici e, soprattutto,
morali causati dalla guerra, tace.
Come
parte dell’umanità il Poeta non riesce a distogliere lo sguardo da ciò che ogni
giorno cade sotto i suoi occhi; e, seguendo le orme del Petrarca, cui è legato
per tanti motivi, non può dimenticare sé stesso, il suo incerto e faticoso
cammino verso la serenità interiore, che, per le obiettive difficoltà, non è
facile. Per tal motivo il Poeta, rendendosi interprete, dell’umanità sofferente
con le prese della vita, si può così rivolgere alla Madonna:
Tu
Vergine diletta,
madre
del mondo intero,
il mio
cammino illumina
su
questa terra oscura:
fai
che ogni via divenga più sicura.
La tua
preghiera liberi
ognun
di noi dal male:
come
di vento un soffio,
che
dentro l'aria fiata,
sale
nel cielo e canta
la tua parola, o Madre mia
Beata.
Il Poeta parla dal fondo dell’umana miseria, con cuore
stanco e affranto e invoca Maria, la prediletta di Dio, perché con la sua
intercessione la grazia di Dio illumini gli uomini e li redima, li aiuti, con
la sua costante presenza, a distaccarsi dal fascino delle seduzioni mondane,
ottenebrate soprattutto dall’egoismo e dalla cattiveria.
Davanti a così triste e tragico spettacolo, il Poeta non
riesce a trattenersi e, seguendo la sua indole, vela la lirica di un sottile e
impercettibile vena di amarezza e di pessimismo, che si dissolvono come nebbia
all’apparire del sole davanti alla presenza protettrice della Vergine, la quale
con la sua presenza lo risolleva all’amore eterno di Dio.
La lirica, inno e, nel contempo, invocazione e preghiera
ardente e profonda, diviene, a mano a mano che si procede nella lettura, una
serena e pacata elegia cristiana: il Poeta, infatti, insieme con le lodi alla
Vergine, con il lento e meditativo ritmico della litania, inserisce il mesto
lamento dell’uomo cosciente di aver perduto la grazia e la dimensione sociale.
L’intensa lirica non è un anodino e asfittico piagnisteo intessuto di luoghi
comuni, ma amara riflessione sulle misere conseguenze dell’egoismo e del timore
continuamente alimentato dalla presenza di estranei, i quali vengono considerati esseri malefici. Sono additati come causa
prima di tutte le sciagure che affliggono la società cosiddetta civile e aperta
all’accoglienza e al dialogo.
In
filigrana, all’interno della pregevole lirica, si leggono le effimere gioie,
nel fondo delle quali l’ego del Poeta ha trovato profonda delusione,
tristezza irrimediabile. A una lettura frettolosa sembra che lo smarrimento
abbia preso il sopravvento sull’uomo; ma a una più attenta lettura e
all’analisi della dialettica, con la quale le due strofe sono costruite, si evince
che all’amara presa di coscienza della propria miseria, il poeta rivolge alla
Vergine un accorato appello di aiuto, perché non permetta alle avverse forze
del male di avere il sopravvento. Questo si evince soprattutto dalla strofa che
segue:
Tu
Vergine perfetta,
ben
vedi come vanno
i
giorni nella tenebra,
e sai
che quella notte
in noi
scatena eterne e dure lotte.
L'Onnipotente
termini
tra
noi quelle parole
che
son ragion di odio,
e,
seminando in cuore
disprezzo
per la vita,
ci
portan solo a guadagnar dolore.
Alla cosciente condizione dell’uomo
attuale in balia di demagoghi, astuti e senza scrupoli, il Poeta prende una posizione
netta e, senza reticenze, invoca la Vergine, perché, con l’aiuto
dell’Onnipotente, allontani quelle parole, che seminano e sono fonte di odio e
di disprezzo per la vita. Queste, lungi dal portare serenità e sicurezza,
rattristano il cuore e lo inducono al disprezzo di quanto vi ha posto il
Creatore. Il forte richiamo ai ciurmatori è evidente e invita il lettore e,
insieme, l’orante a guardarsi da simili persone, che sotto l’aspetto dell’uomo,
(Mt. 7,15) celano la loro indole di belva, di lupi rapaci. Il richiamo alla parabola
evangelica è evidente: basta togliere l’impercettibile velo, che copre l’intera
strofa in modo così leggero, che solo una lettura molto attenta riesce ad
avvertire e comprenderne il senso abilmente sotteso e pacatamente obnubilato
dal suono tanto dei singoli lessemi quanto, e soprattutto, dal ritmo dei sintagmi
abilmente intessuti.
La strofa, abilmente divisa in due parti asimmetriche per
numero e disposizione dei versi, mostra una studiata e ponderata alternanza di
settenari piani e sdruccioli, interrotti al quinto verso, per lo più, da un
endecasillabo piano, e da uno che chiude l’ultimo verso della prima delle strofe,
tranne l’ultima, che ha funzione di coda. In quest’ampia e sentita pericope,
numerosi sono ora più ora meno espliciti i richiami a parabole e similitudini
bibliche, nelle quali il peccato, il cattivo comportamento verso il prossimo e
verso Dio, (Lc 1,79) è raffigurato dalle tenebre, perché non c’è comunicazione
o, per meglio dire, comunione tra l’uomo e Dio. L’uomo, che trascorre la sua esistenza
terrena in questo modo, nonostante abbia gli occhi, (ancora Mt 15,14) è simile
a un cieco, che vuole guidare altri ciechi.
Attenzione particolare da parte del lettore merita l’ultima
strofa, nella quale il Poeta si rivolge alla Vergine, che in molti centri
d’Italia, è venerata, e invocata, con il titolo della Madonna del buon
consiglio, perché dall’alto dei cieli guidi gli uomini erranti in questa
valle di lacrime sulla retta via. Il Poeta si rende conto di questo stato
comune e, oserei dire, abituale dell’uomo e così chiude l’invocazione alla Vergine:
Tu
Vergine un consiglio,
dona
all’umana prole,
che
volge le parole,
soltanto
alla rovina,
e
contro ad ogni logica
pianta
di giorno in giorno
sul
capo di Tuo Figlio,
di
spine una corona,
dolente
di passione.
Prega
per i tuoi figli,
tu
Vergine beata
da
tutto il mondo amata.
Analizzando la struttura
semantico-narrativa, il Poeta, quasi dimentico della sua travagliata esistenza
umana, medita sulla malvagità e sulla caducità delle vicende umana e ricorda,
con un balzo di rara ed efficace bellezza, la coronazione di spine, l’atto che
prelude la via verso il Golgota e la crocifissione di Cristo. Ciò avviene ogni
giorno, e anche più volte al giorno, perché l’uomo, dimentico dell’Amore di
Dio, non esita a intessere una corona di spine e porla ancora una volta sul
capo del Redentore.
Con questa breve, ma ispirata, lirica Maurizio si pone
impareggiabile maestro della più elementare teodicea, che spiana, in modo irrimediabile,
la strada verso la teologia della spiritualità, conducendo il lettore alla Mistica,
sviluppata negli eremi solitari o nel chiuso
delle celle monastiche.
L’impianto narrativo è costituito
da periodi ampi e ben articolati, nei quali tanto la semplicità dei singoli
lessemi quanto la complessità dei sintagmi conferiscono alla composizione
strofica un ritmo ascendente di rara efficacia. Tutto il componimento è un dialogo
continuo, un’ininterrotta riflessione tra la sublimità della misericordia
divina e la cosciente e travagliata considerazione della misera condizione
umana, cui solo la bontà infinita di Dio può lenire e rendere accettabile. Si respira
in ogni strofa il senso della miseria umana, attraverso la quale il Poeta
ripercorre con volo leggero la vita attuale dell’uomo, sommerso da messaggi di
violenza ed egoismo; esamina i diversi peccati e dolori che si incontrano e, se
non sono allontanati
o vinti dalla sicura fede in Dio, rattristano a abbrutiscono l’anima. Alla
constatazione del dolore, il Poeta eleva il grido di dolore e l’invocazione
sgorga fiduciosa dalla sua bocca, perché la Vergine con la sua materna intercessione
aiuti l’uomo a uscire dalle pastoie del peccato.
Nel tessuto stilistico della lirica si alternano e
continuamente si compongono la preghiera e la coscienza del peccato in un
continuo ed efficace contrappunto. In questo processo bene articolato ed
equilibrato nella disposizione delle lasse, in sottofondo aleggiano vivi richiami
ai Salmi e, in modo particolare, ai Vangeli. Il linguaggio diviene di volta in volta spoglio e intenso sia quando
richiama i vari peccati, sia quando invoca la Vergine, perché lo soccorra. È la
confessione, amara e rassegnata, della debolezza, del dolore, della tristezza.
E sono, questi momenti, che potrebbero costituire uno,
iato dispersivo, egualmente ispirati, pregni di umanità palpitante e viva speranza
di salvezza. Si avverte, e aleggia leggero, il senso e l’ansia della pace,
dell’intima serenità, che il Poeta cerca di conseguire, uscendo dal tormento
angosciante della solitudine, per ritrovarsi nella quiete ristorante della
preghiera.
Maurizio, però, non è sempre, e solo,
poeta religioso: la sua produzione tocca anche altri temi, spazia su argomenti
e realtà non meno importanti e interessanti, che costellano e rendono varia la
vita dell’uomo, inserito nella Natura, della quale avverte tutti gli aspetti,
che, purtroppo, non sempre sono apportatori di bene. Nella riflessione del
Poeta un posto particolare è occupato dal mare, del quale ora avverte e ammira
la calma con toccante tenerezza, ora sente la rabbia dei marosi e, impotente a
dominare un elemento così grande della Natura, la sua poesia si vela di nostalgica
amarezza e si china a meditare sulla caducità della vita e di quanto si
accompagna all’umana esistenza sulla terra.
Tra i componimenti più belli, e interessanti, di Maurizio
va certamente annoverato quello, che ha per
titolo Canzone del mare, in belle quartine, con rima alternata. In
questo componimento il Poeta con maggiore intensità rappresenta la complessa e
dolorosa condizione del suo spirito inquieto, perduto nella sconfortante
vastità del mare sconvolto dalla tempesta. Come il vento strappa le vele alle
navi, così le avverse traversie della vita portano inesorabilmente via l’amore,
il sogno del Poeta, la meta desiderata e ultima del suo animo in cerca di pace.
Il vento, però, spirando con violenza, ai suoi sibili unisce i fischi acuti e
laceranti del sartiame e fugge lontano, per perdersi e spegnersi con i suoi fragori
sulla vastità del mare. Allo stesso modo, in un crescendo continuo, si spengono
i sogni e le speranze svaniscono. Il mare con la sua presenza, immobile ed
evocativa, diviene unica, esclusiva e tormentosa realtà, davanti alla quale il
Poeta, pur fermo e cosciente della sua costanza, si sente, almeno per un attimo,
confuso, annichilito, perduto.
Il Poeta, solo con la sua angoscia e la segreta speranza di
uscirne illeso e appagato, ripercorre pur tra i marosi i luoghi a lui più familiari
della sua vita, della sua esistenza di uomo; e, come abbattuto da una profonda
ferita mortale, nello squallore destato dal mare in tempesta, getta pallidi
riverberi di speranza, che, rapiti e trascinati dal vento, si perdono
nell’orizzonte.
Il Poeta in questa lirica si trova immerso in uno spazio
reale e insieme irreale, vasto e indefinito come la passione dell’amore, che,
mentre con la sua presenza addolcisce lo scorrere della vita, con la sua lontananza
getta amarezza e sconforto nell’animo spoglio e angustiato.
Per
avere l’esatta dimensione e percepire il concreto stato d’animo del Poeta, si
riporta la prima quartina:
E
soffia freddo il vento sopra al mare
ed un
pensiero vaga e torna ancora
nell’onda
inquieta, svelto a naufragare
nel
rapido fuggire di quest’ora.
Con questo tanto brusco quanto pacato incipit
sembra che il Poeta voglia evitare ogni vestigio umano e perdersi con i
suoi pensieri nella vasta e sconvolta distesa del mare. Non mancano echi
leopardiani, che rievocano momenti di sconfinata tenerezza e insieme di dolore,
di speranza e di delusione, di fiducia e di abbandono. Il Poeta guarda il mare
con sereno distacco, con velata malinconia, conscio della sua superiorità, del
suo dominio sugli elementi della Natura e sui tormenti della passione. Al
lettore più scaltrito non sfugge la presenza di Rousseau, il quale, fidando
nella ragione, pone l’uomo, pur nella sua debolezza, come un gigante di fronte
all’immensa mole dei mali e degli eventi naturali, che lo sovrastano, lo
assalgono e, a volte, lo distruggono. Insieme con le passioni anche gli
elementi della Natura sono effimeri, vani, inafferrabili e dolorosi per gli
strascichi, che lasciano nel cuore dell’uomo, per le ferite e per i laceranti
strazi dell’animo.
Il Poeta in questo equilibrato e compatto componimento
contempla con sfida, inquietudine e amarezza, la
tempesta che sconvolge il mare: al suo passaggio l’acqua ribolle, i natanti
traballano, le sartie sibilano, brandelli di vele sono portati via come
fuscelli. Assorto nei suoi pensieri il Poeta sente la propria inadeguatezza di
fronte alla potenza della Natura; e, nonostante se ne senta parte di non poco
conto, viene travolto dalla potenza degli elementi in un cosciente e doloroso
naufragio, che, per le avversità della vita, si ripete di frequente. Nel ciclo
del loro scorrere perenne, si presentano ogni giorno le stesse alterne vicende
della vita: al piacere del successo, alla gioia dell’amore, alle piacevolezze
della vita, subentra improvviso un brusco e
radicale cambiamento, che porta con sé, insieme con la morte, la fine di ogni
speranza.
Con questa lirica, che certamente occuperà un posto molto
importante nella raccolta, si ha la netta sensazione che il Poeta voglia richiamare
l’attenzione del lettore sulla sua breve e appassionata storia d’amore in un desolato
senso di impotenza, di caducità, e vanità.
Nella solitudine della meditazione, nella silente e l’amara contemplazione di quanto si scatena intorno,
nella mente del Poeta fugaci e dolorose risuonano le parole d’amore udite e
assaporate nei brevi momenti di felicità. La rievocazione della passata felicità
sembra riecheggiare i dialoghi degli eroi tragici, i quali, sulla scena di un
teatro greco, si ergono potenti contro le avversità degli eventi e li sfidano
con coraggio, pur sicuri di andare incontro alla rovina.
Alla
tragicità Maurizio, in questo caso, preferisce il tono pacato dell’idillio e
dell’elegia, più consoni al suo animo meditabondo e alla sua indole riflessiva.
Alla lettura dei versi che seguono, sembra che il Poeta, sulla scia del Petrarca,
senta l’inesorabile avvicinarsi della morte, sperimentata di recente in tutta
la sua tragica realtà. Anche se sottesa e vibrante nella pacata allusione, non
è questa la prospettiva, con la quale bisogna leggere la Glosa, che
segue:
Silenzio
intorno tra le sue ventate,
trillar
di sartie tese; così amare
tutte
le tue parole, ormai passate,
e
soffia freddo il vento sopra al mare.
Un
giorno fu soltanto e lo ricordo
come la nebbia, il tempo dell'allora,
quando
l’amore tuo divenne sordo,
ed
un pensiero vaga e torna ancora
nella
sera che fa finire il giorno.
Ed
alte son le stelle in cielo chiare,
e
il tuo ricordo corre tutto intorno
nell'onda
inquieta, svelto a naufragare.
Amaro
il tempo passa in un momento
senza
aver peso: un’ala che ti sfiora,
mentre
in cuore svanire l’amor sento
nel
rapido fuggire di quest’ora.
In questa muta e accorata riflessione il
Poeta si sofferma a contemplare la furia degli elementi e in questa prospettiva
avverte non solo la fugacità della vita, ma fallacia di ogni speranza,
l’inganno persino dell’amore, il dono più bello, che il Creatore ha posto nel
cuore della sua creatura prediletta. La mancanza di amore inaridisce il cuore
e, a mano a mano che l’uomo ne avverte l’assenza, percepisce il vuoto e il baratro pronto a
ingoiarlo.
L’amore per una donna, anche se bello e necessario per la
perfetta e piena realizzazione tanto dell’uomo quanto della donna, è pur sempre
effimero, labile, incerto; e, nonostante l’uomo si affatichi a mantenerlo vivo,
può spegnersi all’improvviso e precipitare l’uomo nel baratro della
disperazione. La riflessione obiettiva del credente sulla vita conduce, mediante
l’affettuosa e sensibile presenza dell’altro, all’immediato contatto col
divino, col Creatore. L’amore materiale, quando non puro, è egoismo e fine a sé stesso, diversamente diviene mezzo per
avvicinarsi a quell’Amor, che muove le fibre più riposte dell’essere umano.
In
queste quartine, abilmente costruite, mediante l’accorta e sapiente disposizione
e dei singoli lessemi e degli ampi sintagmi, con impercettibile crescendo,
svela il travaglio che urge nel suo animo, che, trascinato dalla tempesta, si
perde lontano, oltre l’orizzonte. Abbandonato dalla speranza, l’animo del Poeta
sembra cadere nel nulla, nella disperazione, in un nichilismo senza ritorno;
cede, almeno nell’apparenza, al pessimismo più tetro, per la perdita di quelle parole
dell’amore, diventato sordo in seguito al sopraggiungere delle
avversità. L’abbandono non si risolve né si dissolve, pur credendo,
nell’abbandono fiducioso nell’infinita bontà di Dio, ma in un sentimento di
scorata delusione vitale, racchiusa in questi
versi, che, avulsi dal contesto, sembrano sibillini:
… un’ala
che ti sfiora,
mentre
in cuore svanire l’amor sento
nel
rapido fuggire di quest’ora.
Alla pace, attesa e sospirata, subentra e
si sostituisce in modo sempre più pregnante l’amaro rimpianto dell’amore umano,
che appaga, e non sempre, solo i sensi. La pace, cui Maurizio, con sottile allusione
tende, non consiste nell’appagamento di una visione trascendente, priva di
fattezze umane e di tangibilità, ma uno squallido porto nel quale possa, col passar
del tempo, subentrare l’oblio delle sventure che lo hanno travolto e
addolorato.
Il tema della lirica, pur nell’apparente semplicità grazie
a una lettura piana e piacevole, è complesso e, non di rado, di difficile interpretazione
per il sapiente contrappunto tra affermazione e negazione, felicità e
tristezza, gioia e malinconia, pace e inquietudine. Con l’incalzante fuga delle
immagini e delle sensazioni il Poeta coinvolge il lettore e, insieme con il
vento, lo trasporta in nell’onirico mondo d’una realtà psicologicamente vissuta
in tutta l’ampiezza del dolore conseguente all’abbandono.
Nel naturale e normale contrasto tra la presenza
dell’amore, che reca quiete pace serenità e la sua assenza, fonte di tristezza
e di angoscia, il Poeta esprime la veemenza della pena e il senso di abbandono,
provato e sperimentato in tutta la sua ampiezza. È, questo, un momento di
tormento e insoddisfazione a livello sia fisico che psichico. Ed è proprio
quest’ultimo, con la sensibilità del calore e del piacere, a schiudersi in
percettibile pessimismo generato dalla consapevolezza dell’abbandono. La donna
dei suoi desideri, con la sua assenza e col suo silenzio, imprime nell’animo un
movimento senza fine, evocato dall’immagine del mare in continuo movimento.
Anche se l’amore è diventato un ricordo che
sfuma nella nebbia ed è ormai sordo alle invocazioni e ai fremiti
che ancora suscita nel cuore del Poeta, vive in tutta la bellezza, nel suo intatto
scintillio; diviene muto conforto nello scorrere inesorabile del tempo.
L’amore, che il Poeta evoca, è rimasto indelebile nel suo cuore, ed è così
profondamente radicato nel suo ego che,
probabilmente, non può essere cancellato neppure dalla morte.
Il tema della composizione si modula su un lento e
vorticoso susseguirsi di immagini, che rimangono indelebili e trascinano lontano,
verso orizzonti inesplorati. Il pacato e malinconico susseguirsi di variazioni
costituite da un quadro paesistico di accattivante bellezza, dove la passioni
umane si presentano forti e reali, per sfumare, alla fine, nell’amara presa di
coscienza che, insieme con il vento dell’amore, scorre via anche la vita, che
dell’amore diviene solo una muta testimone.
Il Poeta, però, non volge lo sguardo e la sua attenzione
solo al mare e al vento, ma alza gli occhi anche verso il cielo, dove, di
notte, vede brillare le stelle. Queste, come il mare e il vento, sono creature
semplici, elementari, che appartengono da sempre alla vita dell’uomo, considerato
anch’egli parte e componente della natura tanto nella sua semplicità quanto e,
soprattutto, nella unità e complessità. Con questi presupposti fondamentali il
Poeta evoca il creato nella sua palpitante esistenza, nella sua drammatica agitazione,
nel sereno equilibrio che può, nel maggior parte dei casi, infondere e realizzare.
L’apparente e drammatica semplicità della natura e della
vita in questo canto sommesso e doloroso al creato che circonda l’uomo sembra
essere proposto come emblema di un’armonia nativa con l’esistenza, che il Poeta
ha sempre, e con passione, vissuto. Ma più che nei concitati e, a volte,
drammatici lamenti sull’amore perduto, il sentimento profondo che pervade la lirica
e ne permea la struttura è nelle vaghe immagini paesistiche evocate con
desiderio struggente dell’amore, che solo può dare l’agognata pace. Il
desiderio sfocia, in questo modo, nell’elegia e lo spazio fisico, che il Poeta
intride con i suoi accorati lamenti, diviene uno spazio di malinconia e di sogno.
La breve riflessione sulla produzione poetica di Maurizio
Donte non è completa, se non si accenna alla perizia e alla rara competenza
nella metrica, acquisita con lungo studio, assidua pratica, costruttivo confronto
con i classici, dai quali deriva sistemi lirici oggi quasi impossibili da
realizzare. Non di rado, però, il tecnicismo, anche se potrebbe sembrare leziosaggine
o segno di bravura, adorna la strofa e il verso di rara bellezza ed efficacia.
Si
consideri la struttura e la rima dei seguenti versi, messa in corsivo per
renderla con maggiore evidenza:
prega
per questo mondo,
che
non conosce pace,
prega
per le miserie
che
tutto il mondo, pur sapendo, tace.
Non sfugge al lettore attento e scrupoloso
l’efficace anafora del lessema prega, che in tutta la lirica assume un
ruolo particolare. Anche alla rima, variamene disposta nella Preghiera alla
Vergine risponde una rima regolare nella canzone del mare.
Particolare rilevanza assume l’enjambenent, che in non pochi casi
costituisce un elemento portante per l’esistenza stessa della lirica in
generale e, in particolare, della strofa.
L’approccio con un vero Poeta non è mai semplice o facile,
come, a prima vista, potrebbe sembrare: comprendere e analizzare le diverse
componenti, nonché la cultura, che è necessariamente sottesa a ogni creazione,
non di rado conduce allo smarrimento o al fraintendimento di quanto mediante la
disposizione dei versi il Poeta intende veicolare alla sensibilità e alla possibilità
di recezione del lettore.
I due carmi presentati costituiscono un sommesso soliloquio del Poeta con la sua anima espresso in versi semplici e accorati, profondi e meditativi, muti ma eloquenti nel comunicare quanto urge nell’animo travagliato del momento. Si nota una continua introspezione, la ricerca della liberazione, che riesce ad attuare solo nel canto, nella purezza della poesia. Nella sua musica, che sgorga limpida e soave anche nell’avverso fragore degli elementi naturali, le passioni e l’angoscia perdono ogni scomposto, il dissidio si placa in una lucida e sofferta saggezza; diviene una mesta e soave elegia del Poeta sul proprio, sul nostro vivere quotidiano. Nella Poesia Maurizio riesce a vivere e a esprimere l’anelito verso l’infinito e la gioia dell’anima, a esprimere, in ultimo, al di là di ogni contrasto, l’armonia suprema dello spirito umano.
Orazio Antonio Bologna
Grazie, non ho parole per esprimere la mia gratitudine
RispondiElimina