lunedì 14 settembre 2020

ORAZIO ANTONIO BOLOGNA LEGGE DUE LIRICHE DI MAURIZIO DONTE

                 UNA BREVE RIFLESSIONE SU DUE 

                                     LIRICHE

                                           di

                          MAURIZIO DONTE

                    

                     Orazio Antonio Bologna

                   collaboratore di Lèucade


Quando si affronta il discorso sulla Poesia, si prova non poco imbarazzo: penetrare nell’animo del Poeta non sempre è facile, e non è agevole cogliere, anche a una lettura molto attenta e coscienziosa, tutte le sfumature, che costituiscono il movente della produzione. La Poesia non è mai stata, nel passato, un prodotto a se stante, avulso dalla realtà, dal contesto sociale e politico; e non lo è oggi, perché il Poeta non è insensibile tanto alle spinte interne di rinnovamento, quanto ai fermenti culturali, che, seppur frammentati e piegati verso tendenze non sempre ortodosse e consone con la morale umana, costituiscono il bacino, dal quale con serenità e responsabilità attinge quegli elementi, che, meditati e dirozzati dalle becere strumentalizzazioni, cui, nel corso del tempo, sono andati necessariamente incontro, ripropone in chiave diversa all’attenzione del lettore.

La vera e grande Poesia nelle mani di un abile Poeta, cui non difetta cultura e sensibilità, abilità nella versificazione e chiarezza di idee, ha sempre, e comunque, un compito, una missione paideutica. E ciò fin dalle più remote origini, che vanno cercate nel complesso e variegato mondo assiro già nella seconda metà del terzo millennio avanti l’era volgare. Al travagliato periodo di Sargon II è legata non tanto la vita, quanto la produzione lirica di Enheduanna, vissuta intorno al XXIV sec. a.C. È la più antica poetessa, che nella storia dell’umanità ha firmato la sua produzione poetica. Secondo la storia era figlia di Sargon e sacerdotessa del dio Nanna a Ur, dove è stato trovato anche il suo sigillo, interessante sotto diversi aspetti.

  Come ministra del culto all’interno della città, Enheduanna con un inesprimibile e indescrivibile afflato lirico scrive liriche pertinenti alla religione, alla fede, alle realtà trascendenti, che appagano l’animo scosso dalle varie e imprevedibili sventure terrene. Alla produzione religiosa della poetessa accadica si può accostare la raccolta dei Salmi, nei quali, accanto alla preghiera, vivono intensi squarci lirici di altissimo livello, che solo un animo sensibile, educato al culto delle divine Camena può comprendere e vivere in tutta la sua grandezza.

Anche oggi, nonostante nell’aria vibri potente un esagerato materialismo e si imponga ogni giorno, e con insistente caparbietà, un insensato e fuorviante edonismo, la poesia di ispirazione religiosa trova ancora ampio respiro e maggior ragion d’essere: il poliedrico aspetto della materia, infatti, anche se alletta e seduce con le sue lusinghe e le sue scintillanti attrattive, non appaga l’anima, che, per sua natura, anela solo verso l’immateriale, verso il divino, verso l’eterno. Poesie di altissimo livello e di profonda e di intensa ispirazione religiosa, oggi, sono dettate dall’animo sensibile di Maurizio Donte, che è una delle voci più alte e autorevoli della poesia contemporanea.

Il solo accenno alla produzione lirica di Maurizio incute non poco timore e perplessità anche al critico più incallito; e cercar di avvicinare e sfiorare le liriche dettate dal suo animo sensibile occorre un coraggio e un bagaglio di conoscenze non indifferente. Il Poeta, infatti, all’interno di liriche strettamente legate alla tradizione e alla metrica classica, infonde ciò che percepisce dal sommesso bisbiglio della natura, dal lieve sciabordio dell’onda, che si frange sul lido; dai marosi, che con fragore flagellano le aspre scogliere della Liguria. La lettura delle sue liriche proietta nell’animo l’usata dolcezza delle colline e delle valli all’interno nell’‘aspro e selvaggio Appennino ligure, il quale, con i suoi blandi sussurri e con le asperità delle sue vette scoscese, ha plasmato l’animo del Poeta a quella sensibilità, che trasuda da ogni verso.

In questi luoghi di suprema bellezza e ancora incontaminati il Poeta medita e trae ispirazione per componimenti di ampio respiro, nei quali l’uomo si fonde non solo con la Natura, vive nella Natura, si sente Natura, ma percepisce in tutta la sua potenza la presenza del divino. Maurizio coglie questi aspetti e li riversa nell’armonia delle sue liriche, che vanno lette con serenità, attenzione, con calma.

In queste brevi annotazioni oso fermare l’attenzione innanzi tutto su una bella e intensa lirica dedicata alla Madonna e intitolata Vergine benedetta. È, in questo luogo, opportuno dire che Maurizio non è il primo a rivolgere un inno alla Vergine: già illustri predecessori, come Dante e Petrarca, per non citare poeti poco noti al grosso pubblico, hanno rivolto intense e sentite preghiere alla madre del Redentore. In questo caso specifico Maurizio non segue Dante, la cui preghiera, posta in bocca a San Bernardo, è troppo teologica e impegnativa sotto il profilo tanto spirituale quanto culturale: in questo inno sublime Dante fonde in maniera esemplare tanto la profonda cultura teologica quanto la sublimità dell’irraggiungibile e ineguagliabile ispirazione lirica.

Nella sua sincera e intensa invocazione alla Vergine per molti aspetti, soprattutto umani, si avvicina molto al Petrarca, cui come uomo e per la sua formazione si sente più legato, come si evince già dalla lettura dei versi, che compongono la prima strofa:

Vergine benedetta,

che sei del Ciel Regina,

posa uno sguardo limpido

su questa terra amara,

e per noi prega o nostra Madre cara.

Vedi, da tempo immemore

tra i popoli è la guerra,

prega per questo mondo,

che non conosce pace,

prega per le miserie

che tutto il mondo, pur sapendo, tace.

I primi due versi, che aprono e conferiscono all’intero componimento il più profondo significato, ricalcano in maniera magistrale più i segni della sincera e sentita pietà popolare, che la straordinaria ricchezza e la profondità dell’insegnamento e della speculazione teologica. Questa, com’è ovvio, non è assente nell’omiletica liturgica e cultuale della Chiesa, che trae la sua linfa vitale soprattutto dall’insegnamento teologico. Questo, oggi, per l’eccessiva semplificazione e un errato modo di rendere e porgere il rapporto col divino viene del tutto trascurato persino, e soprattutto, da chi dovrebbe inviare chiari segnali di dottrina e di spiritualità al fedele.

L’ispirata lirica di Maurizio si può, nello stesso tempo, considerare lauda, inno, elegia: ripropone, infatti, con sentiti e vibrati accenti attuali l’intimo e l’insanabile contrasto tra il peccato e la redenzione, sempre presente nella vita del cristiano. Questa drammatica situazione si risolve solo se la Madonna posa il suo sguardo puro sull’uomo, che porta ancora, nonostante la redenzione, il pesante fardello dei mali, derivati dal peccato originale. Già in questa strofa si avverte l’intima fusione tra l’amore umano, intriso di passioni e odi, e l’amore divino, fonte di serenità e di quiete. Maurizio, infatti, sulla scia di Petrarca, cerca di giungere alla pace mediante l’abbandonata e fiduciosa preghiera rivolta alla persona, che, più di tutti, è vicina al Redentore.

All’immediato e crudo sguardo sul mondo davanti agli occhi del Poeta balza in primo luogo la guerra, che lacera e dilania l’umanità. È, questo, uno stato normale, cui ormai l’uomo è abituato; e anche alla notizia di migliaia di morti, come già si è più volte verificato in questi ultimi anni, rimane impassibile: le difficoltà e l’amarezza della vita sulla terra gli hanno indurito il cuore. Ma ciò che amareggia di più la riflessione del poeta, il quale mediante un efficace inciso e una rima inattesa richiama l’uomo alla cosciente consapevolezza di fronte al dilagare dei danni fisici e, soprattutto, morali causati dalla guerra, tace.

Come parte dell’umanità il Poeta non riesce a distogliere lo sguardo da ciò che ogni giorno cade sotto i suoi occhi; e, seguendo le orme del Petrarca, cui è legato per tanti motivi, non può dimenticare sé stesso, il suo incerto e faticoso cammino verso la serenità interiore, che, per le obiettive difficoltà, non è facile. Per tal motivo il Poeta, rendendosi interprete, dell’umanità sofferente con le prese della vita, si può così rivolgere alla Madonna:

Tu Vergine diletta,

madre del mondo intero,

il mio cammino illumina

su questa terra oscura:

fai che ogni via divenga più sicura.

La tua preghiera liberi

ognun di noi dal male:

come di vento un soffio,

che dentro l'aria fiata,

sale nel cielo e canta

la tua parola, o Madre mia Beata.

Il Poeta parla dal fondo dell’umana miseria, con cuore stanco e affranto e invoca Maria, la prediletta di Dio, perché con la sua intercessione la grazia di Dio illumini gli uomini e li redima, li aiuti, con la sua costante presenza, a distaccarsi dal fascino delle seduzioni mondane, ottenebrate soprattutto dall’egoismo e dalla cattiveria.

Davanti a così triste e tragico spettacolo, il Poeta non riesce a trattenersi e, seguendo la sua indole, vela la lirica di un sottile e impercettibile vena di amarezza e di pessimismo, che si dissolvono come nebbia all’apparire del sole davanti alla presenza protettrice della Vergine, la quale con la sua presenza lo risolleva all’amore eterno di Dio.

La lirica, inno e, nel contempo, invocazione e preghiera ardente e profonda, diviene, a mano a mano che si procede nella lettura, una serena e pacata elegia cristiana: il Poeta, infatti, insieme con le lodi alla Vergine, con il lento e meditativo ritmico della litania, inserisce il mesto lamento dell’uomo cosciente di aver perduto la grazia e la dimensione sociale. L’intensa lirica non è un anodino e asfittico piagnisteo intessuto di luoghi comuni, ma amara riflessione sulle misere conseguenze dell’egoismo e del timore continuamente alimentato dalla presenza di estranei, i quali vengono considerati esseri malefici. Sono additati come causa prima di tutte le sciagure che affliggono la società cosiddetta civile e aperta all’accoglienza e al dialogo.

In filigrana, all’interno della pregevole lirica, si leggono le effimere gioie, nel fondo delle quali l’ego del Poeta ha trovato profonda delusione, tristezza irrimediabile. A una lettura frettolosa sembra che lo smarrimento abbia preso il sopravvento sull’uomo; ma a una più attenta lettura e all’analisi della dialettica, con la quale le due strofe sono costruite, si evince che all’amara presa di coscienza della propria miseria, il poeta rivolge alla Vergine un accorato appello di aiuto, perché non permetta alle avverse forze del male di avere il sopravvento. Questo si evince soprattutto dalla strofa che segue:

Tu Vergine perfetta,

ben vedi come vanno

i giorni nella tenebra,

e sai che quella notte

in noi scatena eterne e dure lotte.

L'Onnipotente termini

tra noi quelle parole

che son ragion di odio,

e, seminando in cuore

disprezzo per la vita,

ci portan solo a guadagnar dolore.

Alla cosciente condizione dell’uomo attuale in balia di demagoghi, astuti e senza scrupoli, il Poeta prende una posizione netta e, senza reticenze, invoca la Vergine, perché, con l’aiuto dell’Onnipotente, allontani quelle parole, che seminano e sono fonte di odio e di disprezzo per la vita. Queste, lungi dal portare serenità e sicurezza, rattristano il cuore e lo inducono al disprezzo di quanto vi ha posto il Creatore. Il forte richiamo ai ciurmatori è evidente e invita il lettore e, insieme, l’orante a guardarsi da simili persone, che sotto l’aspetto dell’uomo, (Mt. 7,15) celano la loro indole di belva, di lupi rapaci. Il richiamo alla parabola evangelica è evidente: basta togliere l’impercettibile velo, che copre l’intera strofa in modo così leggero, che solo una lettura molto attenta riesce ad avvertire e comprenderne il senso abilmente sotteso e pacatamente obnubilato dal suono tanto dei singoli lessemi quanto, e soprattutto, dal ritmo dei sintagmi abilmente intessuti.

La strofa, abilmente divisa in due parti asimmetriche per numero e disposizione dei versi, mostra una studiata e ponderata alternanza di settenari piani e sdruccioli, interrotti al quinto verso, per lo più, da un endecasillabo piano, e da uno che chiude l’ultimo verso della prima delle strofe, tranne l’ultima, che ha funzione di coda. In quest’ampia e sentita pericope, numerosi sono ora più ora meno espliciti i richiami a parabole e similitudini bibliche, nelle quali il peccato, il cattivo comportamento verso il prossimo e verso Dio, (Lc 1,79) è raffigurato dalle tenebre, perché non c’è comunicazione o, per meglio dire, comunione tra l’uomo e Dio. L’uomo, che trascorre la sua esistenza terrena in questo modo, nonostante abbia gli occhi, (ancora Mt 15,14) è simile a un cieco, che vuole guidare altri ciechi.

Attenzione particolare da parte del lettore merita l’ultima strofa, nella quale il Poeta si rivolge alla Vergine, che in molti centri d’Italia, è venerata, e invocata, con il titolo della Madonna del buon consiglio, perché dall’alto dei cieli guidi gli uomini erranti in questa valle di lacrime sulla retta via. Il Poeta si rende conto di questo stato comune e, oserei dire, abituale dell’uomo e così chiude l’invocazione alla Vergine:

 

Tu Vergine un consiglio,

dona all’umana prole,

che volge le parole,

soltanto alla rovina,

e contro ad ogni logica

pianta di giorno in giorno

sul capo di Tuo Figlio,

di spine una corona,

dolente di passione.

Prega per i tuoi figli,

tu Vergine beata

da tutto il mondo amata.

Analizzando la struttura semantico-narrativa, il Poeta, quasi dimentico della sua travagliata esistenza umana, medita sulla malvagità e sulla caducità delle vicende umana e ricorda, con un balzo di rara ed efficace bellezza, la coronazione di spine, l’atto che prelude la via verso il Golgota e la crocifissione di Cristo. Ciò avviene ogni giorno, e anche più volte al giorno, perché l’uomo, dimentico dell’Amore di Dio, non esita a intessere una corona di spine e porla ancora una volta sul capo del Redentore.

Con questa breve, ma ispirata, lirica Maurizio si pone impareggiabile maestro della più elementare teodicea, che spiana, in modo irrimediabile, la strada verso la teologia della spiritualità, conducendo il lettore alla Mistica, sviluppata negli eremi solitari o nel chiuso delle celle monastiche.

L’impianto narrativo è costituito da periodi ampi e ben articolati, nei quali tanto la semplicità dei singoli lessemi quanto la complessità dei sintagmi conferiscono alla composizione strofica un ritmo ascendente di rara efficacia. Tutto il componimento è un dialogo continuo, un’ininterrotta riflessione tra la sublimità della misericordia divina e la cosciente e travagliata considerazione della misera condizione umana, cui solo la bontà infinita di Dio può lenire e rendere accettabile. Si respira in ogni strofa il senso della miseria umana, attraverso la quale il Poeta ripercorre con volo leggero la vita attuale dell’uomo, sommerso da messaggi di violenza ed egoismo; esamina i diversi peccati e dolori che si incontrano e, se non sono allontanati o vinti dalla sicura fede in Dio, rattristano a abbrutiscono l’anima. Alla constatazione del dolore, il Poeta eleva il grido di dolore e l’invocazione sgorga fiduciosa dalla sua bocca, perché la Vergine con la sua materna intercessione aiuti l’uomo a uscire dalle pastoie del peccato.

Nel tessuto stilistico della lirica si alternano e continuamente si compongono la preghiera e la coscienza del peccato in un continuo ed efficace contrappunto. In questo processo bene articolato ed equilibrato nella disposizione delle lasse, in sottofondo aleggiano vivi richiami ai Salmi e, in modo particolare, ai Vangeli. Il linguaggio diviene di volta in volta spoglio e intenso sia quando richiama i vari peccati, sia quando invoca la Vergine, perché lo soccorra. È la confessione, amara e rassegnata, della debolezza, del dolore, della tristezza. E sono, questi momenti, che potrebbero costituire uno, iato dispersivo, egualmente ispirati, pregni di umanità palpitante e viva speranza di salvezza. Si avverte, e aleggia leggero, il senso e l’ansia della pace, dell’intima serenità, che il Poeta cerca di conseguire, uscendo dal tormento angosciante della solitudine, per ritrovarsi nella quiete ristorante della preghiera.

 

Maurizio, però, non è sempre, e solo, poeta religioso: la sua produzione tocca anche altri temi, spazia su argomenti e realtà non meno importanti e interessanti, che costellano e rendono varia la vita dell’uomo, inserito nella Natura, della quale avverte tutti gli aspetti, che, purtroppo, non sempre sono apportatori di bene. Nella riflessione del Poeta un posto particolare è occupato dal mare, del quale ora avverte e ammira la calma con toccante tenerezza, ora sente la rabbia dei marosi e, impotente a dominare un elemento così grande della Natura, la sua poesia si vela di nostalgica amarezza e si china a meditare sulla caducità della vita e di quanto si accompagna all’umana esistenza sulla terra.

Tra i componimenti più belli, e interessanti, di Maurizio va certamente annoverato quello, che ha per titolo Canzone del mare, in belle quartine, con rima alternata. In questo componimento il Poeta con maggiore intensità rappresenta la complessa e dolorosa condizione del suo spirito inquieto, perduto nella sconfortante vastità del mare sconvolto dalla tempesta. Come il vento strappa le vele alle navi, così le avverse traversie della vita portano inesorabilmente via l’amore, il sogno del Poeta, la meta desiderata e ultima del suo animo in cerca di pace. Il vento, però, spirando con violenza, ai suoi sibili unisce i fischi acuti e laceranti del sartiame e fugge lontano, per perdersi e spegnersi con i suoi fragori sulla vastità del mare. Allo stesso modo, in un crescendo continuo, si spengono i sogni e le speranze svaniscono. Il mare con la sua presenza, immobile ed evocativa, diviene unica, esclusiva e tormentosa realtà, davanti alla quale il Poeta, pur fermo e cosciente della sua costanza, si sente, almeno per un attimo, confuso, annichilito, perduto.

Il Poeta, solo con la sua angoscia e la segreta speranza di uscirne illeso e appagato, ripercorre pur tra i marosi i luoghi a lui più familiari della sua vita, della sua esistenza di uomo; e, come abbattuto da una profonda ferita mortale, nello squallore destato dal mare in tempesta, getta pallidi riverberi di speranza, che, rapiti e trascinati dal vento, si perdono nell’orizzonte.

Il Poeta in questa lirica si trova immerso in uno spazio reale e insieme irreale, vasto e indefinito come la passione dell’amore, che, mentre con la sua presenza addolcisce lo scorrere della vita, con la sua lontananza getta amarezza e sconforto nell’animo spoglio e angustiato.

Per avere l’esatta dimensione e percepire il concreto stato d’animo del Poeta, si riporta la prima quartina:

E soffia freddo il vento sopra al mare

ed un pensiero vaga e torna ancora

nell’onda inquieta, svelto a naufragare

nel rapido fuggire di quest’ora.

Con questo tanto brusco quanto pacato incipit sembra che il Poeta voglia evitare ogni vestigio umano e perdersi con i suoi pensieri nella vasta e sconvolta distesa del mare. Non mancano echi leopardiani, che rievocano momenti di sconfinata tenerezza e insieme di dolore, di speranza e di delusione, di fiducia e di abbandono. Il Poeta guarda il mare con sereno distacco, con velata malinconia, conscio della sua superiorità, del suo dominio sugli elementi della Natura e sui tormenti della passione. Al lettore più scaltrito non sfugge la presenza di Rousseau, il quale, fidando nella ragione, pone l’uomo, pur nella sua debolezza, come un gigante di fronte all’immensa mole dei mali e degli eventi naturali, che lo sovrastano, lo assalgono e, a volte, lo distruggono. Insieme con le passioni anche gli elementi della Natura sono effimeri, vani, inafferrabili e dolorosi per gli strascichi, che lasciano nel cuore dell’uomo, per le ferite e per i laceranti strazi dell’animo.

Il Poeta in questo equilibrato e compatto componimento contempla con sfida, inquietudine e amarezza, la tempesta che sconvolge il mare: al suo passaggio l’acqua ribolle, i natanti traballano, le sartie sibilano, brandelli di vele sono portati via come fuscelli. Assorto nei suoi pensieri il Poeta sente la propria inadeguatezza di fronte alla potenza della Natura; e, nonostante se ne senta parte di non poco conto, viene travolto dalla potenza degli elementi in un cosciente e doloroso naufragio, che, per le avversità della vita, si ripete di frequente. Nel ciclo del loro scorrere perenne, si presentano ogni giorno le stesse alterne vicende della vita: al piacere del successo, alla gioia dell’amore, alle piacevolezze della vita, subentra improvviso un brusco e radicale cambiamento, che porta con sé, insieme con la morte, la fine di ogni speranza.

Con questa lirica, che certamente occuperà un posto molto importante nella raccolta, si ha la netta sensazione che il Poeta voglia richiamare l’attenzione del lettore sulla sua breve e appassionata storia d’amore in un desolato senso di impotenza, di caducità, e vanità.

Nella solitudine della meditazione, nella silente e l’amara contemplazione di quanto si scatena intorno, nella mente del Poeta fugaci e dolorose risuonano le parole d’amore udite e assaporate nei brevi momenti di felicità. La rievocazione della passata felicità sembra riecheggiare i dialoghi degli eroi tragici, i quali, sulla scena di un teatro greco, si ergono potenti contro le avversità degli eventi e li sfidano con coraggio, pur sicuri di andare incontro alla rovina.

Alla tragicità Maurizio, in questo caso, preferisce il tono pacato dell’idillio e dell’elegia, più consoni al suo animo meditabondo e alla sua indole riflessiva. Alla lettura dei versi che seguono, sembra che il Poeta, sulla scia del Petrarca, senta l’inesorabile avvicinarsi della morte, sperimentata di recente in tutta la sua tragica realtà. Anche se sottesa e vibrante nella pacata allusione, non è questa la prospettiva, con la quale bisogna leggere la Glosa, che segue:

Silenzio intorno tra le sue ventate,

trillar di sartie tese; così amare

tutte le tue parole, ormai passate,

e soffia freddo il vento sopra al mare.

 

Un giorno fu soltanto e lo ricordo

come la nebbia, il tempo dell'allora,

 quando l’amore tuo divenne sordo,

 ed un pensiero vaga e torna ancora

 

nella sera che fa finire il giorno.

 Ed alte son le stelle in cielo chiare,

 e il tuo ricordo corre tutto intorno

 nell'onda inquieta, svelto a naufragare.

 

Amaro il tempo passa in un momento

 senza aver peso: un’ala che ti sfiora,

 mentre in cuore svanire l’amor sento

 nel rapido fuggire di quest’ora.

In questa muta e accorata riflessione il Poeta si sofferma a contemplare la furia degli elementi e in questa prospettiva avverte non solo la fugacità della vita, ma fallacia di ogni speranza, l’inganno persino dell’amore, il dono più bello, che il Creatore ha posto nel cuore della sua creatura prediletta. La mancanza di amore inaridisce il cuore e, a mano a mano che l’uomo ne avverte l’assenza, percepisce il vuoto e il baratro pronto a ingoiarlo.

L’amore per una donna, anche se bello e necessario per la perfetta e piena realizzazione tanto dell’uomo quanto della donna, è pur sempre effimero, labile, incerto; e, nonostante l’uomo si affatichi a mantenerlo vivo, può spegnersi all’improvviso e precipitare l’uomo nel baratro della disperazione. La riflessione obiettiva del credente sulla vita conduce, mediante l’affettuosa e sensibile presenza dell’altro, all’immediato contatto col divino, col Creatore. L’amore materiale, quando non puro, è egoismo e fine a sé stesso, diversamente diviene mezzo per avvicinarsi a quell’Amor, che muove le fibre più riposte dell’essere umano.

In queste quartine, abilmente costruite, mediante l’accorta e sapiente disposizione e dei singoli lessemi e degli ampi sintagmi, con impercettibile crescendo, svela il travaglio che urge nel suo animo, che, trascinato dalla tempesta, si perde lontano, oltre l’orizzonte. Abbandonato dalla speranza, l’animo del Poeta sembra cadere nel nulla, nella disperazione, in un nichilismo senza ritorno; cede, almeno nell’apparenza, al pessimismo più tetro, per la perdita di quelle parole dell’amore, diventato sordo in seguito al sopraggiungere delle avversità. L’abbandono non si risolve né si dissolve, pur credendo, nell’abbandono fiducioso nell’infinita bontà di Dio, ma in un sentimento di scorata delusione vitale, racchiusa in questi versi, che, avulsi dal contesto, sembrano sibillini:

un’ala che ti sfiora,

 mentre in cuore svanire l’amor sento

 nel rapido fuggire di quest’ora.

Alla pace, attesa e sospirata, subentra e si sostituisce in modo sempre più pregnante l’amaro rimpianto dell’amore umano, che appaga, e non sempre, solo i sensi. La pace, cui Maurizio, con sottile allusione tende, non consiste nell’appagamento di una visione trascendente, priva di fattezze umane e di tangibilità, ma uno squallido porto nel quale possa, col passar del tempo, subentrare l’oblio delle sventure che lo hanno travolto e addolorato.

Il tema della lirica, pur nell’apparente semplicità grazie a una lettura piana e piacevole, è complesso e, non di rado, di difficile interpretazione per il sapiente contrappunto tra affermazione e negazione, felicità e tristezza, gioia e malinconia, pace e inquietudine. Con l’incalzante fuga delle immagini e delle sensazioni il Poeta coinvolge il lettore e, insieme con il vento, lo trasporta in nell’onirico mondo d’una realtà psicologicamente vissuta in tutta l’ampiezza del dolore conseguente all’abbandono.

Nel naturale e normale contrasto tra la presenza dell’amore, che reca quiete pace serenità e la sua assenza, fonte di tristezza e di angoscia, il Poeta esprime la veemenza della pena e il senso di abbandono, provato e sperimentato in tutta la sua ampiezza. È, questo, un momento di tormento e insoddisfazione a livello sia fisico che psichico. Ed è proprio quest’ultimo, con la sensibilità del calore e del piacere, a schiudersi in percettibile pessimismo generato dalla consapevolezza dell’abbandono. La donna dei suoi desideri, con la sua assenza e col suo silenzio, imprime nell’animo un movimento senza fine, evocato dall’immagine del mare in continuo movimento.

Anche se l’amore è diventato un ricordo che sfuma nella nebbia ed è ormai sordo alle invocazioni e ai fremiti che ancora suscita nel cuore del Poeta, vive in tutta la bellezza, nel suo intatto scintillio; diviene muto conforto nello scorrere inesorabile del tempo. L’amore, che il Poeta evoca, è rimasto indelebile nel suo cuore, ed è così profondamente radicato nel suo ego che, probabilmente, non può essere cancellato neppure dalla morte.

Il tema della composizione si modula su un lento e vorticoso susseguirsi di immagini, che rimangono indelebili e trascinano lontano, verso orizzonti inesplorati. Il pacato e malinconico susseguirsi di variazioni costituite da un quadro paesistico di accattivante bellezza, dove la passioni umane si presentano forti e reali, per sfumare, alla fine, nell’amara presa di coscienza che, insieme con il vento dell’amore, scorre via anche la vita, che dell’amore diviene solo una muta testimone.

Il Poeta, però, non volge lo sguardo e la sua attenzione solo al mare e al vento, ma alza gli occhi anche verso il cielo, dove, di notte, vede brillare le stelle. Queste, come il mare e il vento, sono creature semplici, elementari, che appartengono da sempre alla vita dell’uomo, considerato anch’egli parte e componente della natura tanto nella sua semplicità quanto e, soprattutto, nella unità e complessità. Con questi presupposti fondamentali il Poeta evoca il creato nella sua palpitante esistenza, nella sua drammatica agitazione, nel sereno equilibrio che può, nel maggior parte dei casi, infondere e realizzare.

L’apparente e drammatica semplicità della natura e della vita in questo canto sommesso e doloroso al creato che circonda l’uomo sembra essere proposto come emblema di un’armonia nativa con l’esistenza, che il Poeta ha sempre, e con passione, vissuto. Ma più che nei concitati e, a volte, drammatici lamenti sull’amore perduto, il sentimento profondo che pervade la lirica e ne permea la struttura è nelle vaghe immagini paesistiche evocate con desiderio struggente dell’amore, che solo può dare l’agognata pace. Il desiderio sfocia, in questo modo, nell’elegia e lo spazio fisico, che il Poeta intride con i suoi accorati lamenti, diviene uno spazio di malinconia e di sogno.

La breve riflessione sulla produzione poetica di Maurizio Donte non è completa, se non si accenna alla perizia e alla rara competenza nella metrica, acquisita con lungo studio, assidua pratica, costruttivo confronto con i classici, dai quali deriva sistemi lirici oggi quasi impossibili da realizzare. Non di rado, però, il tecnicismo, anche se potrebbe sembrare leziosaggine o segno di bravura, adorna la strofa e il verso di rara bellezza ed efficacia.

Si consideri la struttura e la rima dei seguenti versi, messa in corsivo per renderla con maggiore evidenza:

prega per questo mondo,

che non conosce pace,

prega per le miserie

che tutto il mondo, pur sapendo, tace.

Non sfugge al lettore attento e scrupoloso l’efficace anafora del lessema prega, che in tutta la lirica assume un ruolo particolare. Anche alla rima, variamene disposta nella Preghiera alla Vergine risponde una rima regolare nella canzone del mare. Particolare rilevanza assume l’enjambenent, che in non pochi casi costituisce un elemento portante per l’esistenza stessa della lirica in generale e, in particolare, della strofa.

L’approccio con un vero Poeta non è mai semplice o facile, come, a prima vista, potrebbe sembrare: comprendere e analizzare le diverse componenti, nonché la cultura, che è necessariamente sottesa a ogni creazione, non di rado conduce allo smarrimento o al fraintendimento di quanto mediante la disposizione dei versi il Poeta intende veicolare alla sensibilità e alla possibilità di recezione del lettore.

I due carmi presentati costituiscono un sommesso soliloquio del Poeta con la sua anima espresso in versi semplici e accorati, profondi e meditativi, muti ma eloquenti nel comunicare quanto urge nell’animo travagliato del momento. Si nota una continua introspezione, la ricerca della liberazione, che riesce ad attuare solo nel canto, nella purezza della poesia. Nella sua musica, che sgorga limpida e soave anche nell’avverso fragore degli elementi naturali, le passioni e l’angoscia perdono ogni scomposto, il dissidio si placa in una lucida e sofferta saggezza; diviene una mesta e soave elegia del Poeta sul proprio, sul nostro vivere quotidiano. Nella Poesia Maurizio riesce a vivere e a esprimere l’anelito verso l’infinito e la gioia dell’anima, a esprimere, in ultimo, al di là di ogni contrasto, l’armonia suprema dello spirito umano.


Orazio Antonio Bologna

 

 

 

1 commento: