Dante Maffia
Sulle ferite dei venti
I luoghi nella Poesia di Dante
Maffìa.
Un David del Bronx
Federico Garcìa Lorca è il
Poeta che più mi fa pensare a Maffìa. I
due grandi Maestri d’Infinito sono irruenti,(…gli
faccio , / vedere le cicatrici del cuore,
degli occhi, del cielo… ),[1]anarchici
frombolieri, due David immortali del Bronx: “cantavano mostrando le loro cinture/con la ruota, l’olio, il cuoio e il
martello//Novantamila minatori traevano
l’argento dalle rocce,/i bambini disegnavano
scale e prospettive.”[2]
Né Dante Maffia teme il Bronx:
“Io il Bronx ce l’ho nell’anima.. “… si fermi qui./ Io so come rendere innocui i teppisti”[3].
I due Immensi, nella loro Poesia appaiono rudi e fragili, nati per fare i
poeti, per trarre dalle miniere della vita, non solo il bello, ma tutto il
dolore del mondo. Importanti nella Poesia del Figlio della Sibaritide sono i luoghi; come, d'altronde, l’intero universo: cielo e terra; mari e
monti; città e abissi metropolitani; spettri e sogni (Neve in sogno). Anche le
cose, non solo i libri[4]
sono parte viva nella sua Poesia, è il poeta che parla non a un generico mondo,
ma anche agli oggetti umili del suo quotidiano, così lo si può sorprendere a
colloquio con una tazza col caffè :”sei
sbreccata, vecchia zitella ormai/certo ricordo le prime volte,/ma i fiorellini
azzurri ormai /ti sono sbiaditi./ Non farti sentire altrimenti per me si mette
male// Smettila anche tu o finirai in cocci/Dì anche al caffè di tacere,/siamo
tra nemici sospettosi e cattivi”[5]
I luoghi di Maffìa non
costituiscono mai approdi, nemmeno la sua Calabria, seppure amata al disopra di
tutto, può dirsi rifugio, egli appartiene al mistero a un fluido romboidale destinato ad esplorare, in cerchi
concentri , come Dante nell’ Empireo e nell’Inferno, il logos dell’universo.
E’ un Maestrale , a volte, violento ,
porta con sé nella sua solitudine e nel
suo dolore i falchi che il grande
Federico gli ha regalato, con essi si orienta e dibatte e in loro compagnia vola sulle Spiagge del Mulino.[6]”Però sappiate che ho di fronte il mare,/Che
posso vedervi ancora bambine/e ascoltare la voce dei vostri sogni/e che sono
l’unico ospite/alla mensa di Federico/mentre brontola ai falconi/o mi legge i
suoi versi.[7]
Questi versi di straordinaria e unica bellezza, dedicate alle sue due figlie,
non solo a Rosa e che aprono la raccolta Neve Ardente con la prima parte
titolata “Figlie” testimoniano in modo franco (come sa esserlo solo Maffìa) che
sa di appartenere come figlio non
tanto alla Calabria, ma si sente, come
uomo e Poeta, di appartenere alla storia, al pari del grande Federico.
Maffià non ama nessuna
accademia, nessun tessuto di seta, né i salotti e i mandolini, egli è schivo, uno di quei venti padroni del cielo e della terra, sa di
esserlo, ma non è felice, né si accontenta di essere un dio. E’ un vento che scompiglia. Parte la sua vita dal Castello di Roseto Capo Spulico, qui da
piccolo ha brindato con i torrioni merlati del castello che l’accolsero
fanciullo, da qui leggeva il suo futuro nelle mani del cielo, già con
corona d’argento, con dentro un dolore così grande da fargli desiderare di
preferire i fondali limpidi di quel suo mare, e orientava a
piacimento la direzione dei venti, accarezzava nella
disperazione delle ferite aperte da chi troppo presto gli era stato rapito, i
granelli di sabbia della sua spiaggia che erano la sua dote, il suo tesoro di
perle.
Tra stelle e comete, guerre e ribellioni, nenie e racconti
della sua gente maturò l’incanto per la
vita e per l’amore. Già all’alba, spuntando appena il sole si lasciava
attraversare da scie di luci e di rimpianti, a cavalcioni sulle ruote
del vecchio Mulino e le spighe di mare erano il suo canto. Sulla sua guancia di bambino portava già stampate due
lacrime che saranno eterno tatuaggio alla sua anima: “La Calabria che lo scirocco sferza/non so se
venendo o andando verso il mare./La campagna ora arsa ora verde/con pompamagna
di vigneti e ulivi/è sempre qui, ingombra la mia anima,/la tesse e la distesse
nei giulivi/pomeriggi d’estate, negli inverni amari/e tristi d’ore
interminabili./La Calabria che pretende amore/-e non sa bene se sia donna o
falco-/io la sradico, la esalto, la sotterro,/la benedico e maledico e poi/la invoco:
madre, tomba, cielo,/condanna, luce che non tramonta mai”.
Per Dante Maffia è senza
lapprodi, nessun luogo può calmare il
suo dolore, né braccia che possano dare
tregua alla sua inquietudine, se non l’abbraccio delle ombre invocate che non l’abbandonano,
forse le uniche che gli fanno compagnia.
E’ Ulisse senza la sua Itaca.
I suoi approdi non sono da Nausica , sanno di ruggine amara di
esiliato che non sa dove dirigere la sua nave.
Ed ecco che si profila nella sua vita la città di Torino,[8] terra di esiliati, (quanti sono i meridionali che nella Città
della Fiat hanno costruito il loro
“destino”, seppelliti là dove non volevano morire), città con false promesse
come L’America per gli altri raminghi emigrati meridionali:” Torino della mia infanzia / era la culla dell’ordine e della
ricchezza / e presentarsi a me con quella schifezza / di bidoni consunti, di
giornali vecchi, / su cui c’erano vistose cacche di topi / mi fece male” (Mi
meravigliai). “Per le strade di Torino”, avventurarsi per quelle strade…
l’orrore dei bidoni dove anche lì ,nella città della ricchezza ,i poveri
continuano a frugare e la nebbia e le ombre che attediano l’animo fino a temere
che tutto è morto, solo rimangono i lamenti dei morti che invocano il mare e il
tepore del dolce cielo natio. E’ una città di fronte alla quale il Poeta
inorridisce, dalla quale il Poeta fugge,” :Cantilene di sporcizia, di cadute a
picco/sulla vertigine dello sballo. Nei letti caldi/dei più la consolazione del
televisore”, dove l’anima si accartoccia, dove la solitudine è cosi
immensa da creare una itinerante astenia, un’assenza di appartenersi, se non il
sentirsi vivo solo in furiosi assalti sessuali, sempre nelle strade occasionali
e nella notte che dopo la furia lasciano il pianto e il vuoto. Continua
tortuoso , come in un labirinto di mostri il vagare per via Po, Porta Nuova,
corso Unione Sovietica, corso Galileo Ferraris, via Lagrange, via Spano, via
Roma, via Tunisi, via Novara, le Molinette, il vecchio stadio, i Murazzi, il
ghetto ebraico, via Cibrario, la collina di Superga, E’ come se il Poeta nel
voler ostinatamente puntualizzare, voglia anche distruggere ogni ricordo,
meglio morire che vedere ciò che i suoi occhi hanno visto e, ancora,
insiste, Porta Palazzo, via Paoli, Un lungo inganno che persiste. “E” la fatica
delle “camminate” per le strade della città.[9]
Il Poeta- Ulisse ha vagato per tutto il mondo. Alcune Nazioni Il
Giappone, L’Africa l’hanno accolto come un dio, riconoscendogli la sua
grandezza di Poeta e oratore.
Poi venne New York .
Mai si sentì più dolorosamente estraneo alla
vita e, sempre di più, nel suo cuore
piuma, dopo piuma creò un nido sullo strapiombo del Castello tra mare e cielo,
qui nel suo infinito avanzare incontrava i suoi morti . Aveva sulla sua nave alzato uno stendardo, con disegnata la Rosa
dei venti, era la sua bacchetta per l’orchestra: li dirigeva in un concerto di
violini e pommedije narrate da donne col
fazzoletto nero in testa, a coprire pudiche i loro capelli neri , e le mani
logorate dal lavoro: “Me rassegn?allu sciullaminte, alli
scuncizze/ntusinghese sbròded’u fùche da poguedìje…Tutta l’America
contrapposta al suo cuore: “Non riesco a scrollarmi di dosso/il rumore/fatto di mani alzate a
chiedere soccorso. Un livido schiocco di serpi anelava alla gloria,/ e su ogni
facciata di grattacielo si udiva/lo scorrere della pietà che ansimava./ Non ho
più le mani, né gli occhi,/ma solo un riflesso di luna rubato al Central Park”[10].
La Sibartite lo tenne stretto, non lo lasciò
mai andare e lui, in tutto il mondo, rese celebre la sua Calabria e il suo
dialetto. Quale meraviglia di musicalità
sono quei versi calabresi in “Neve in sogno” un monumento di fedeltà, un
desiderio di appartenenza, un urgenza di gridare al mondo che forse un paradiso
ci potrebbe essere su questa terra, se solo gli uomini smettessero di essere
bastardi. Ed ecco nei ricordi di New
York, [11]mentre
dolore e ribellione lo assalgono, trova salvezza da una depressione malefica che
lo assale appollaiato su tralci d’uva ,
schiva disgustato un materialismo
volgare, la fame insaziata e insaziabile di ricchezze. Il Poeta trova questa estrema orgia di
possesso, il volgare abbuffarsi di cibo
più spregevoli della povertà. Quest’America umilia , è arrogante, rapace
insaziabile dove i poveri,: quelli
americani, perché anche in America ci sono i poveri, non hanno nulla da invidiare a quelli
calabresi: ”Poi fare i conti con
l’estensione del corpo,/cercare se nelle fibre le sensazioni restano/in
strascichi limpidi o come zecche nascoste/Il deposito dei ricordi è situato/in
una radura scomoda dell’ansa delle ossa/Forse niente resterà a guardia del
senso/e la vita si risolverà nei passi nella voce/nel desiderio di stringere
una mano. Ecco dunque il diario di bordo di un viaggio che il tempo macina
ingordo/allucinato o stanco o nero di fuliggine.[12]
Il Poeta è terrorizzato di essere abbandona da
quel Maestrale che l’ ha reso signore di se stesso, ha terrore di perdere “il
mistero” che ha alimentato la sua poesia nei vicoli di Roseto, dove affascinato,
fin da bambino succhiava la “Neve in
sogno”. E nella America l’ allucinogena
luce al neon che lo rendono ombra e nuvola, pronta a scomparire, un cuore che
batte in dolore tra vite desolate. Il
poeta si ritrae terrorizzato da questa società levigata per apparire, il cui
unico profumo che conosce non è di viole e margherite, men che mai il profumo
del mare e l’ardore del Maestrale, a New York l’unico profumo è quello dei
dollari, sugli altare gli americani non mettono fiori, ma, maledetti dollari. Ritrarsi
e conservare il mistero della vita è il suo unico grido, unico segno che gli
rimane è urlare il suo dolore, fuggire da
New York.
“Un fiume che viene
cantando/nei dormitori delle periferie, ed è argento, cemento o
brezza/nell’alba ingannevole di New York/Esistono le montagne. Lo so./E le
lenti per la sapienza./Lo so. Ma io non sono venuto a vedere il cielo./Sono
venuto a vedere il torbido sangue./Il sangue che porta le macchine alle
cateratte/ e lo spirito alla lingua del cobra. Tutti i giorni ammazzano in New
York / quattro milioni di anitre,
/cinque milioni di porci,/duemila colombe per il piacere degli agonizzanti… [13]e
confondevo le mie gambe e i miei occhi con i
banconi dei supermercati ch’erano l’infinito,/l’orizzonte, la goduria l
[1] Dante
Maffìa, Neve in sogno, introduzione di Daniel Cundari, pg 28New York andata e
ritorno,iiriti Editore,,gennaio 2013;.
[2] Federico
Garcìa Lorca, Poesie, II volume ,traduzione di Carlo Bo, Nuova serie diretta da
Giacinto Spagnoletti. Guanda
[3] Dante
Maffia, Neve in sogno, Opera citata, pg28;
[4] L’uomo
che parla ai libri , Centodieci domande a Dante Maffia, a cura di Marco
Onofrio, Edilazio 2018;;
[5] Dante
Maffìa, opera citata, pg.25(V);
[6] Il
mulino è un luogo della sua Roseto Capo
[7] Dante
Maffì a a Rosa, A Rosa, preludio a Neve in sogno
[8] Dante
Maffìa, Poesie Torinesi, Edizioni Lepisma 2011, 51 componimenti
[9] Vincenzo
D’Alessio, “Su Poesie Torinesii di Dante Magffìa”;
[10] Dante
Maffìa, Neve in sogno, Ricordi di New
York, IX (pag.68) e X (pg 69), iiritiEditore, gennaio 201;.
[11] Opera
citata pagine 52-69, spartiti (I-X);
[12] Op.
citata, pg 53
[13] Lorca,
Poesie, volume II, Guanda, New York,
Officina y denuncia per Antonio Hernandez Soriano
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