sabato 9 maggio 2020

ROSSELLA CERNIGLIA LEGGE: "NEL FRATTEMPO VIVIAMO" DI NAZARIO P., GUIDO MIANO EDITORE



Nazario Pardini
NEL FRATTEMPO VIVIAMO

Recensione di Rossella Cerniglia

 
Il titolo dell’ultimo libro di Nazario Pardini, Nel frattempo viviamo, concentra ed esprime - come sempre avviene in un’opera letteraria - il senso sostanziale di essa, racchiude in nuce, il sentire e l’essenza tematica che l’hanno prodotta. A partire da esso, è dunque da indagare questa condensazione di senso che è il nucleo assunto a fondamento dell’intero testo.
Analizzandolo e vagliandolo alla luce complessiva dell’opera, mi sento di porre l’accento, piuttosto che sul “viviamo”, in quel “Nel frattempo” che induce, e apre uno spiraglio sul sentimento di un’attesa: all’ansia o alla paura di un qualcosa di fondamentale che è taciuto, o per lo meno, per il momento, rinviato, tenuto a bada o allontanato, nella situazione di fatto del vivere: da quella situazione dell’essere gettati a vivere - direbbe Heidegger - che ci consegna come esser-ci in questo mondo. Perciò, è sì vero che il libro è incentrato sul vivere e sulla vita, illustrata in tutte le sue variopinte manifestazioni e declinazioni e forme, ma quel “Nel frattempo” sposta l’asse di questa visuale e la rende obliqua a chi legge. Così il senso mi pare si condensi più sull’elemento non apertamente focalizzato che su quello del vivere che di per sé si mostra. E la percezione di questa attesa che rimane nell’ombra, come celata dietro una cortina, è tuttavia elemento di costante richiamo.
Nei versi incontriamo dunque la vita, il quotidiano perdersi e frantumarsi di noi nelle esperienze esistenziali, e la ricomposizione dell’armonia prodigiosa, quando lo sguardo si innalza a sfere più elevate e universali.
Nei pochi versi della p. 23 (quasi tutte le poesie mancano di una titolazione) troviamo, vividamente condensata l’essenza della vita, poiché la morte delle cose conduce l’uomo di fronte a quello che è pure il suo inesorabile destino: “Uccide il cielo/ un altro giorno ancora;/ cadono frutti “paccoli”/ consunti poi/ da vespe e da formiche”.
I versi della p. 27 ci aprono, invece, magnificamente, all’immagine dello scorrere inavvertito del tempo nella dimensione umana, dimenticato nelle cure giornaliere, nell’urgere degli accadimenti o con il perdersi dello sguardo nella bellezza delle cose e del mondo. Il vivere, continuamente ci svia dall’idea di questo insensibile e inarrestabile corso, dall’idea della fine cui conduce questo misterioso passaggio, questo silente fluire: “Come è scaltro il tempo!/ Mi nasconde il suo passare/ ora con il profumo del mare,/ ora con il volare dei passeri,/ ora con le foglie rame quando autunna...”. Tutto sommato, una visione della realtà che mi pare approdi al senso heideggeriano dell’esistere. Perché al di là del contatto intenso con la vita, l’idea della fine se ne sta acquattata nell’ombra, a sottolineare l’urgere implicito di una domanda: “Di tanta vita, che resta?” Si vedano allora i versi della p. 28. È un panta rei che conduce in un gorgo, quello che cerchiamo, con tutte le nostre forze di esorcizzare, immergendoci nel fluire della vita, fisica, consistente, emozionale. Ed emerge allora il senso di quel “Nel frattempo” che racchiude il vero significato, l’anima inquieta del libro, il senso di un’attesa che mi pare pregna della tonalità emotiva dell’”Angoscia” heideggeriana. Alla p. 29, la domanda è esplicitamente formulata: “Si muove il cielo, la terra,/ il sole,/ l’universo;/ ma dove andremo?/ Come mi sento sperso!” Così, di fronte alla vastità di questo eterno moto, del perpetuo divenire, l’anima si smarrisce. E forse ad essa il poeta intende alludere nei versi di p. 30, quando dice: “Ho conservato una foglia; / (...) È lì in un barattolo/ sotto vuoto spinto./ Mantiene, sì, l’aspetto/ di chi muore,/ ma pur sempre un colore senza fine”. E mi domando se “questo colore senza fine” non rievochi forse l’elemento che permane al di là della finitezza insita nell’esperienza terrena.
La dimensione del ricordo, assai presente nei versi, è invece elemento vitale riferibile proprio alla nostra terrestrità, costitutivo del nostro essere: è il rivivere la dimensione del nostro passato, che sempre si fa appiglio alla vita, rievoca la bellezza ed unicità della nostra percezione, e la riporta in noi, riconducendoci in un tempo altrimenti abbandonato, tramontato per sempre. Il passato torna a vivere nel poeta, e i ricordi sono quelli del paesaggio amato, delle campagne della sua terra a cui il suo cuore si rivolgeva nell’infanzia e nell’età giovanile: “Ho sorseggiato grappoli di ricordi/ non ancora maturi di sole/ nell’ultima fumiga bruna./ Il palato ha gustato/ comunque/ l’asprore/ di forza sanguigna/ che esplodeva la vigna dell’anima/ avanti che fosse novembre.”
A volte, però, i ricordi tornano alla mente del poeta come in una lontananza remota: “...per dirmi che l’anima un giorno/ era tatto, colore, profumo di fieno,/ sapore di bosco...” e come dalla lontananza dalla stessa vita. All’interno dei versi, nel loro dispiegarsi in pienezza vitale, indoviniamo allora l’anelito e la ricerca di un senso non effimero ma radicale, di questo inestinguibile scorrere del tempo nel divenire di tutte le cose. Ma non possiamo che tornare alla vita, finché viviamo. Non possiamo che tornare a quel “Nel frattempo viviamo”.
 Oltre alla dimensione memoriale, un altro elemento sovviene alla vita, le è anzi indispensabile, ed è l’illusione, i mondi da noi stessi creati, che ci sostengono e danno forza al nostro stesso cammino. Anche la poesia attinge perennemente alla sua indomita forza, misteriosa e creatrice: “Stai con me/ sul molo del mio mare/ forse traspare, se restiamo quieti,/ tra i barbagli dei flutti/ e il maestrale,/ la sagoma dell’isola fatata...”.
Circa una metà del libro è costituita da una sezione che non avevo ancora menzionato, dal titolo Dal serio al faceto - Dal sacro al profano. È frutto di una smaliziata visione, impregnata di quel sentimento profano, dolce e amaro, della vita, irriverente e mordace che mostra le sue qualità epigrammatiche e ci riporta spesso, con un rapido e vivace tratteggio, a un quadretto che condensa il nucleo della riflessione etica ed esistenziale. L’ironia è contesta ai versi, e tra essi evidenzierò soltanto alcuni spunti paradigmatici, molti dei quali hanno l’efficacia irrisoria e triste del mettere a nudo la vita. Eccone alcuni esempi: “È come un lecca lecca, sai, la vita,/ finito non ti resta che lo stecco,/ non te ne fai un becco, caro mio!/ gustala bene prima che sia finita!” (p. 71). oppure: “La gioia è come un ago nel pagliaio,/ ti dai da fare, sfraschi per trovarla,/ a un certo punto ti ritrovi gaio, perché ti sembra quasi di toccarla,/ ma la paglia finisce e c’è lo stollo...” (p. 74) o alla pagina successiva: “Una strada stretta e pien di ghiaia/ è la vita,/ nei pochi tratti lisci appare gaia,/ ma in salita./ o in qualche buca piena di motriglia...”
E ogni tanto ricompare la sete di eternità che è nel poeta e nell’uomo: “Gli uomini ragionano e parlano/ come se fossero eterni./ Metti caso che si accorgano di non esserlo,/ anche se in ritardo,/ tentano di tutto per diventarlo” (p. 78).
In una dimensione non nichilista, il senso della vita è quasi sempre rinvenuto in ciò che di eterno permane in questo misterioso fluire. È attestato dalla tensione alla sfera ideale, dall’empito del sentimento che diviene anelito di Assoluto. E così, possiamo dire, che si chiude il cerchio, e il poeta torna a se stesso, al suo vero essere, quasi che queste ultime riflessioni, questi ultimi versi, non fossero che divagazioni, variazioni sul tema dell’esistenza, per tornare poi sempre a quello cruciale, eterno, vasto, che riconduce l’uomo alle proprie radici, al suo anelito costante e indomabile, che travalica il senso di ogni finitezza e caducità.

Rossella Cerniglia


Nazario Pardini
NEL FRATTEMPO VIVIAMO
Prefazione di Enzo Concardi, 2020
Guido Miano Editore, mianoposta@gmail.com



1 commento:

  1. Mi complimento di cuore con la dottoressa Cerniglia, la sua è un'autentica lettura della Silloge da critico letterario. Nel mondo della cultura credo sia importante riconoscere il valore altrui e pensare al verbo competere nella sua reale accezione, ovvero 'incontrarsi'. Mi chiedo perchè noi uomini tendiamo a perdere di vista certe etimologie a vantaggio delle interpretazioni peggiori. Una recensione, ripeto, che mi ha catturata. Grazie di cuore e un affettuoso saluto.

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