CONTRIBUTO
CRITICO DI LORENZO SPURIO
La prima parte è contraddistinta da uno scritto
del critico Lorenzo Spurio e, a continuazione, nella seconda parte, si trova la
traduzione dallo spagnolo all'italiano fatta dallo stesso critico, di un
articolo apparso ieri sul quotidiano spagnolo "La Vanguardia". Articolo
veramente interessante, da cui emerge la versatilità dell’autore che sa
adattare il linguaggio a qualsiasi ambito scritturale. Conosciamo bene, oramai,
l’eclitticità di Spurio, la sua vena filologica, ma soprattutto il suo impegno critico
dalle innumerevoli occasioni letterarie che ha elaborato sia sulla
sua importante rivista (Euterpe) che in cartaceo. E qui ne abbiamo la conferma.
Nell'articolo che ha tradotto figura, nel corpo del saggio, la
statua di Garcia Lorca nella Piazza Santa Ana di Madrid alla quale è stata
posta la mascherina per via del Corona virus. Nel saggio ci sono un paio di
brevi accenni a questa pandemia che stiamo vivendo.
“L’aurora
di New York geme”: note sul Lorca americano
La metropoli, antro di
marginalità e contaminazione
Saggio di Lorenzo Spurio
Il quotidiano spagnolo La Vanguardia ha pubblicato in data 5 maggio 2020, nella sua
versione online, un articolo dedicato al poeta Federico García Lorca e alla sua
esperienza americana con uno sguardo all’odierna condizione sociale gravata
dalla pandemia del Covid-19, scritto dalla giornalista María Dolores Cano Menéndez.
GARCIA LORCA |
Lorca viaggiò alla volta dell’America nel 1929,
accompagnato da Fernando de los Ríos, e rimase sul continente americano per ben
nove mesi durante i quali, oltre a frequentare poeti e artisti locali, prese
parte alle riproduzioni di pellicole del cinema americano, frequentò i vari
quartieri della metropoli, scrivendo con acribia nelle sue poesie delle
contraddizioni e del senso di sfiducia provato dinanzi alla frenesia di un’umanità
annichilita e asservita al dominio consumistico. Trascorse ore felici a Coney
Island, la celebre isola dei divertimenti, forse incontrò il poeta disadattato
Hart Crane (grande amante, come lui, di Walt Whitman che nella sua lunga Ode richiama come “l’uomo con le farfalle nella barba”) che, pochi anni dopo, si
lasciò morire nelle acque del Golfo del Messico; entrò in stretto contatto con
la comunità nera, afro-caraibica, presente nel quartiere di Harlem, con la
quale si senti in profonda sintonia, come nel suo territorio, l’Andalusia,
aveva fatto nei confronti dei gitani. Durante la sua permanenza visitò, nel
Vermont, anche l’amico Philip Cummings, giornalista e critico, che – come
riportano le testimonianze deducibili dalla corrispondenza – gli pagò in
anticipo il lungo viaggio che fece in treno sino a casa sua[1],
a Eden Mills, non lontana dal confine con il Canada.
Nell’ultimo periodo della sua permanenza in
America – durante la quale frequentò un corso di lingua inglese alla Columbia
University, conobbe Antonieta Rivas Mercado e Nella Larsen – viaggiò a Cuba,
dove era stato invitato a tenere delle conferenze. Sull’isola caraibica, a
contatto con una dimensione pienamente latina, il poeta disse di sentirsi come
a casa, come fosse una seconda patria. Lì senz’altro conobbe Nicolás Guillén e
si avvicinò alla sua poetica musicale, pregna di quel duende che aveva esaltato nella tradizione orale flamenca. Ne è
esempio chiarificatore il componimento dal titolo “Son de negros en Cuba” dove
la parola “son” non sta per la terza persona plurale del verbo essere (“sono”)
ma richiama quel canto e quella danza tipiche di Cuba il cui ritmo sono dati
dalla mezcla di musicalità spagnole
con elementi e l’uso di strumenti primitivi, della tradizione afro-cubana
(Guillén ne avrebbe raccolti numerosi in una delle sue opere principali, Motivos de son, del 1930).
Lorca va paragonando, nei suoi colloqui con la
stampa, le varie città cubane che visita (L’Avana e Santiago, fra tutte, ma
anche Cienfuegos) ai vari capoluoghi dell’Andalusia: sono città che gli
ricordano tal vez Malaga, otras veces Cordoba o Cadice. Ian Gibson
e la critica ufficiale sono concordi, anche in base all’entusiasmo col quale il
poeta dimostrò di vivere quei momenti (lo ricorderà bene anche Alfredo Mario
Ferreiro in una successiva lettera-testimonianza), nel sostenere che fu proprio
a Cuba, in quella latinità primitiva, così speziata nella popolazione creola e
verace, che Lorca visse meglio la propria condizione omosessuale o, per lo
meno, iniziò quel processo interiore di maggiore accettazione, un progressivo
allontanamento dalla frustrazione che nella Grande Mela e a Eden Mills aveva
dominato. Ossessione amorosa che, però, come ben sappiamo, mai lo abbandonò nel
corso della sua breve esistenza. Quando nel 1935 Lorca ritornò in Spagna da un
secondo viaggio americano (Buenos Aires e Montevideo) che lo aveva visto
acclamato come un torero (come ricorderà nella corrispondenza con l’amata madre
Vicenta), ormai all’apice del suo successo (come drammaturgo, va ricordato, non
tanto come poeta, dove diventerà grande, un classico,
solo dopo la sua morte) le animosità e i rigurgiti di violenza di quelli che
sarebbero diventati i due bandos
(fazioni) del conflitto civile, erano esplosi. Lorca era additato dai
reazionari e monarchici non solo come comunista (addirittura, in maniera
mendace come espia rusa) ma quale maricón (omosessuale, in un’accezione
fortemente dispregiativa, che potremmo rendere nella nostra lingua come
“invertito”, “checca” o “finocchio”): situazione, questa, che non verrà mai
meno – di contro alla sua fama indiscussa come intellettuale – e che di certo
fu motivo di sofferenza interiore.
Nell’articolo che segue, da me tradotto in
italiano, si ripercorre un po’ alcuni degli elementi di quella lunga permanenza
sul territorio americano (del viaggio a New York e Cuba nel 1929-1930 sul quale
molto ha scritto il critico Andrew A. Anderson) con particolare attenzione alla
prima fase, quella newyorkese, città alla quale dedicò molti componimenti, dal
taglio secco e dal verso acuminato, non di rado pervasi da un velame surreale
(come in effetti l’opera Poeta en Nueva
York, che sarebbe stata pubblicata solo nel 1940, venne ascritta, affine
all’avanguardia surrealista), critica e angustiata da quella società americana
che aveva eretto il capitalismo come sua unica legge di vita a dispetto del
dominio animale (rappresentato nelle poesie in stato vegetativo, smembrato,
dilaniato, morente e putrescente), della salvaguardia del pianeta (New York è
caotica e inquinata), all’inseguimento di quel bitume liquido che è il denaro
che distoglie gli uomini dai veri significati della vita.
Non va dimenticato che Lorca sperimentò con i
propri occhi la disperazione diffusa che fece seguito, nell’ottobre del 1929,
al Crollo della Borsa di Wall Street. Momento di profonda crisi per l’economia
americana, che portò a un’inflazione senza pari, disoccupazione, perdita dei
risparmi, indignazione, casi di suicidio e una convulsione irrefrenabile.
Iniziò la Grande Depressione. Il poeta osservò il tutto meticolosamente e lo
descrisse: a modo suo, è chiaro. La sua non è una cronica dei fatti ma un
coinvolgimento empatico con l’ambiente della megalopoli nel quale si trova, a
lui estrano, – grattacieli, ponti metallici, uomini che si ubriacano e urinano
per la strada, il fiume di un colore troppo scuro – che lo porta, con uno sguardo
visionario e in qualche modo premonitore, a tracciare le linee di una deriva
economica, sociale e morale.
L’articolo che segue, apparso su La Vanguardia, sottolinea gli aspetti,
nelle poesie di questo periodo, nei quali Lorca aveva già nel 1929, dunque più
di ottant’anni fa, percepito le idiosincrasie americane, facendo risaltare le
storture della società, le inesattezze, le aberrazioni, i casi di deprecabile
marginalizzazione, la povertà di alcuni quartieri e il disinteresse
generalizzato degli abbienti, finanche il dominio di un’aria pesante
(inquinata, con gas mefitici), di tombini che ricevono acqua infetta, di uno
spazio apparentemente ospitale sebbene asettico dove, invece, sembra essersi
annidato il male, il virus, il germe di una contaminazione tanto sanitaria
quanto sociale.
Ecco perché, nel bel mezzo di questa ansia e
crisi generalizzata dove ci troviamo, a causa di questa epidemia che ha colpito
il mondo intero dai primi mesi di quest’anno, l’autrice dell’articolo ha tenuto
a rivendicare questi prodromi della megalopoli malata, della città più
sviluppata e moderna al mondo che, complice in qualche modo l’uomo stesso che
la abita, di colpo si trova sprofondata in un clima irreale, tra paranoia e
delirio, invasa da un agente contaminante pericoloso, invisibile, che ha
portato morti e stravolgimenti nelle vite di tutti.
Le predizioni di
Federico García Lorca[2]
Articolo
di María Dolores Cano Menéndez
Barcelona
– La Vanguardia, 05/05/2020
Il poeta proclamò il
futuro trionfo del naturale, del sano, del non contaminato e lo fece a New
York, una delle città più colpite ora dal Coronavirus.
Il poeta granadino Federico García Lorca viaggiò a New York nel 1929, visita che
ispirò la raccolta di poesie surrealiste Poeta
en Nueva York nella quale denunciò il modo di vivere della città dei
grattacieli, centro del capitalismo e del progresso tecnologico.
Utilizzò
in questa opera una tecnica innovatrice, avanguardista: verso libero, visioni
apocalittiche, immagini allucinanti e versi lunghi, con i quali descrisse un
mondo disumanizzato che schiavizzava e torturava i più deboli: bambini,
animali, la natura e in particolar modo la razza nera.
In Andalusia, la sua terra, aveva scritto
poesie sulla vita dei gitani emarginati (Romancero
gitano). A New York lo farà sui neri, schiavizzati e sottomessi agli usi
spietati della civilizzazione nordamericana e alla sua cultura della morte.
Dopo aver passeggiato per la città, il poeta si
sente “assassinato dal cielo”[3],
tra i grattacieli incassati come tombe che s’innalzano verso il cielo e i treni
sotterranei (“forme che vanno verso la
serpe”).
Nella famosa poesia “La aurora” viene descritta
questa grande urbe come spazio di terrore nel quale si ammucchiano masse di
lavoratori neri, resi schiavi.
Una città “[dove]
non esiste un domani né speranza possibile” solamente “un uragano di negre colombe che sguazzano nelle putride acque, immense
scale cercando fra le ariste nardi di angoscia disegnata, monete a sciami
furiosi [che] penetrano e divorano bambini addormentati”.
Nei quartieri “gente che vacilla insonne appena uscita da un naufragio di sangue”;
insonne si sveglia presto per andare al lavoro sotto “la luce sepolta da catene e rumori in [una] sfida impudica sfida di
scienza senza radici”.
In “Nueva York (Oficina y denuncia)” la città è
un inferno dantesco, uno spazio diviso tra due blocchi contrapposti, come due
fazioni in lotta: i sostenitori del progresso e gli schiavi sottomessi a
quest’ultimo.
“Io
denuncio tutta la gente che ignora l’altra metà, che alza i suoi monti di
cemento dove palpitano i cori degli animaletti che si dimenticano e dove tutti
cadremo nell’ultima festa dei buchi”. È un anticipo di profezia: il trionfo
sarà, alla fine, della natura, del sano, del non contaminato.
“Non è
l’inferno, è la strada. Non è la morte, è la bottega di frutta”. Sangue di
esseri liberi (animali e marinai) che fuoriesce dalle moltiplicazioni, dalle
divisioni e dalle somme (scienza, finanza, Borsa). Sangue che conduce alla
malattia del corpo e dello spirito. Sangue che versano i milioni di vittime
ogni giorno (anatre, maiali, colombe, mucche, agnelli, galli,…).
Nella mattinata “i treni interminabili di latte, i treni interminabili di sangue e i
treni di rose ammanettate dai commercianti di profumi”, di mucche schiacciate
al punto da emettere terribili strilli che “riempiono
di dolore la valle, dove l’Hudson si ubriaca di olio” (le acque pulite del
fiume sono contaminate con l’olio sporco delle imprese, delle fabbriche).
Harlem è il quartiere degli afro-americani a
New York, che il poeta vede minacciato dalla civilizzazione degli ascensori e
delle automobili. “El rey de Harlem” è una poesia di denuncia, dove si parla
del grande re prigioniero con un abito di portinaio che, con un cucchiaio di
legno, cava gli occhi ai coccodrilli e colpisce il didietro delle scimmie, per
soddisfare la sazietà, mai appagata, dei bianchi.
Esiste una minaccia, il sangue di tutti i
torturati, massacrati, assassinati, sbeffeggiati (“morti infarinate e cenere di nardo”), che si presenterà per
inondare tetti e terrazze da dove tutti i newyorkesi vorranno fuggire ma non
riusciranno a farlo “il midollo del bosco
penetrerà dalle fessure”. Non ci sarà scappatoia. “Attendete sotto l’ombra vegetale del vostro re che cicute e cardi e
ortiche facciano cadere le ultime terrazze”.
In “Danza de la muerte” si racconta di come la
vendetta si originerà. Gli animali morti si sono riuniti in un’arca, come
quella di Noè, il mascherone che dall’Africa è arrivato a New York: “Arena, caimano e paura sopra New York!”.
Giungerà a sputare veleno e a ballare tra colonne di sangue e di numeri, tra
uragani d’oro e gemiti di operai fermi che latreranno, notte buia, per il tuo
tempo senza luci. Il mascherone, “Che
onda di fango e lucerna sopra New York!”. Oh, selvaggia America del Nord!
Oh, impudico! Oh, selvaggio!
Il poeta non
vuole che balli il Papa né il re, né il milionario né le statue, “né [i] costruttori, gli smeraldi, i folli o
i sodomiti. […] I cobra fischieranno agli ultimi piani, le ortiche faranno
tremare cortili e terrazzi, la Borsa sarà una piramide di muschio, spunteranno
le liane dopo i fucili”.
Nessuno
dormirà a New York (“Ciudad sin sueño”[4])
perché un giorno: “I cavalli vivranno
nelle taverne e le formiche curiose andranno all’assalto dei cieli gialli che
si rifugiano negli occhi delle vacche. Un altro giorno vedremo la resurrezione
delle farfalle disseccate e procedendo ancora in un paesaggio di spugne grigie
e barche mute vedremo brillare il nostro anello e nascere rose dalla nostra
lingua”.
Il poeta avverte: “Sveglia!
Sveglia! Sveglia! Quelli che ancora hanno i segni di fango e acquazzone, quel
ragazzo che piange perché non sa l’invenzione del ponte o quel morto che non ha
più che la testa e una scarpa, bisogna portarli al muro dove iguane e serpi
attendono, dove attende la dentatura dell’orso, dove attende la mano
mummificata del bambino”.
Il vigore del selvaggio, massacrato dalla
civilizzazione, dalla tecnica, dal denaro, finirà per vincere. Potrà così
imporsi, finalmente, la natura, asfissiata, malata, esausta, moribonda,
assassinata?
Esprimo, al pari del poeta, il mio desiderio di poter
vedere le nostre città piene di muschio, di terra, di fiori, di erba, di
uccelli, di alberi frondosi, di aria pulita e di potermi tuffare nelle acque
trasparenti dei mari, con un fondale nitido.
Dopo il confinamento [a causa del Corona Virus] ci
saranno ancora aria inquinata, irrespirabile, il rumore assordante, la
massificazione? È questo il “progresso” che ci aspetta per il domani?
[1] Va ricordato che in questo periodo Lorca
non è ancora indipendente dal punto di vista economico e che il viaggio per gli
Stati Uniti e tutte le spese per la sua permanenza a New York vengono coperti
dai genitori, con leggero ma palpabile malcontento del padre che per lui
vorrebbe un futuro sicuro come sarà, forse più velocemente, quello del fratello
Francisco. Nella corrispondenza dall’America non sono rare le circostanze in
cui Lorca parla in termini economici, di cosa deve comprare, di quanti soldi
gli sono rimasti, dei soldi che chiede che gli vengano mandati, etc. I primi
libri che aveva pubblicato, come rivelato anche dalla sorella Isabel García
Lorca in una video-intervista del 1988 in un documentario di Canal Sur presente
su YouTube, erano stati pagati dal genitore paterno e, pur avendo permesso di
far conoscere l’autore a Granada e non solo, non avevano avuto un ritorno
economico concreto. Tale situazione cambierà solo qualche anno dopo, negli anni
1933-1935, quando la sua opera teatrale, grazie alla ricezione esaltante in Sud
America e al sodalizio artistico con attrici quali Eva Franco, Margarita Xirgu
e Lola Membrives, che gli consentirono di calcare alcuni dei maggiori teatri,
gli permetterà di guadagnare lautamente e di vivere di tali proventi.
[2] María
Dolores Cano Menéndez, “Las predicciones de Federico García
Lorca”, La Vanguardia, 5 marzo 2020. https://www.lavanguardia.com/participacion/cartas/20200505/48954228696/predicciones-federico-garcia-lorca-poeta-nueva-york-pandemia-covid-19.html In uno dei titoletti a margine del
presente articolo, in grassetto, si legge: “Lorca si serve di termini negativi
per descrivere elementi in origine belli: acqua (infetta), natura (torturata),
albero (senza gli uccelli che cinguettano), bambini (morti), piccoli animali
(mutilati), farfalla (affogata)”.
[3] Tutte le citazioni alla sua opera
vengono riportate in italiano utilizzando la traduzione effettuata da Claudio
Rendina ed Elena Clementelli per l’Opera
omnia di Federico García Lorca edita da Newton & Compton.
[4]
Questa poesia ha come sottotitolo “Nocturno de Brooklyn Bridge”.
Complimenti a Lorenzo Spurio per questo contributo critico, incrementato da una fitta trama composta da assi di pertinenza incrociati nello status attuale e nel recente passato, nutriti da ampie, dettagliate riflessioni sulla poetica, sulla vita di Garcia Lorca, attinenti l’ambito generale dove essa scaturiva.
RispondiEliminaSe posso suggerire una breve nota su “L’aurora”, brano conosciuto sin da ragazza, da allora in poi ho avvertito il segnale di quanto l’aberrazione, il dolore elaborati dai versi lorchiani nascondessero (come in ogni messaggio artistico-polisenso accade che si articoli un livello semantico, ulteriore, magari imprevedibile) il lacerante sentimento di doversi rivolgere proprio a contesti in realtà amati pur nell’inconscio profondo: affascinanti, imponenti nel loro divenire metropolitano, tali da essere condivisi con angoscia mortale, perché attaccati da forze maligne, concrete e potentissime.
Le vittime del coronavirus a New York, al pari di quelli del resto del mondo, suppongo Lorca le piangerebbe con tragico sconforto esente da limitative condanne spazio-temporali: le quali sono d’altra parte sempre state assenti nella ricca umanità e nell’eccellenza della poësis del nostro Federico, anche quando rischiava di essere colpito a morte. Ridotto pure lui in una fossa comune.
Ringrazio di cuore il critico e cara amica Cinzia Baldazzi per questo ricco commento al mio intervento qui sopra gentilmente pubblicato dal prof. Pardini. Trovo, come sempre, e forse in maggior misura in tale contesto, le considerazioni di Cinzia perfettamente pertinenti e utili, oltre che quanto mai concrete e attuali, alla luce della circostanza amara che ormai da troppe settimane stiamo vivendo. Credo - anzi posso dirmi abbastanza certo di questo - che il giornalista che ha dedicato il tale articolo su "La Vanguardia" e da me proposto in traduzione abbia in qualche modo voluto far risaltare alcuni dei tanti elementi presenti nella magmatica opera di Lorca in questione - che meriterebbe uno studio di centinaia di pagine e di capitoli ben strutturati - alla luce di un suo desiderio di paragone all'emergenza sociale del momento. Con l'intento, forse, di rimarcare l'attualità di un'opera (scritta ottanta anni fa) ancora così concreta e vivida, purtroppo spesso strumentalizzata e considerata inferiore ad altre della produzione del poeta spagnolo, sebbene in essa sia contenuto un mondo - di denuncia, ma anche di svelamento dell'interiorità - che non è seconda a niente e a nessuno. Ciao Grazie ancora. Lorenzo Spurio
RispondiEliminaLorenzo Spurio ha descritto e delineato alla perfezione il quadro apocalittico che Federico Garcìa Lorca ha tratteggiato con i suoi versi profetici (la poesia - quando è davvero grande poesia è sempre profetica).
RispondiEliminaUn quadro apocalittico - dicevo - si, certo. E questo non vuol dire pessimistico, ma neppure ottimistico: etimologicamente Apocalisse significa Rivelazione. Questa è l'unica certezza. Sul futuro nessuno è in grado di dire.
Scrive 'visionariamente' Lorca: "I cavalli vivranno nelle taverne e le formiche curiose andranno all’assalto dei cieli gialli che si rifugiano negli occhi delle vacche. Un altro giorno vedremo la resurrezione delle farfalle disseccate e procedendo ancora in un paesaggio di spugne grigie e barche mute vedremo brillare il nostro anello e nascere rose dalla nostra lingua”.
E, sinceramente, mi piace che Spurio concluda il pregevole intervento con il ritorno all'attualità e con un punto di domanda, che denota una visione chiara e onesta delle cose: "Dopo il confinamento [a causa del Corona Virus] ci saranno ancora aria inquinata, irrespirabile, il rumore assordante, la massificazione? È questo il “progresso” che ci aspetta per il domani?
La poesia non è chiamata a rispondere ma a fare; intanto a fare, senza preoccuparsi del domani.
Complimenti vivissimi,
Sandro Angelucci
Gentile Sandro, ti sono profondamente grato per la pazienza e la stima dimostrata verso di me nel leggere il mio non breve contributo. Trovo nelle tue riflessioni a commento un sentimento di viva partecipazione nei confronti di quanto da me scritto, alla luce della non facile situazione nella quale ci troviamo in questo periodo. La letteratura non e´ solo insegnamento ma monito per andare avanti. Elemento di denuncia. Pausa per riflettere. Ti ringrazio, dunque, per aver ravvisato nel mio testo, questa volonta´ di dipingere uno scenario mesto e preoccupante, ma non in chiave pessimistica, quale punto di partenza per un cammino di rinascita, nuova consapevolezza, forza ritrovata e la costruzione di una nuova umanita´. Buona giornata. Lorenzo Spurio
RispondiElimina