mercoledì 23 giugno 2021

FRANCESCO CASUSCELLI LEGGE: "L'ARATRO" DI N. PARDINI

 

Francesco Casuscelli,
collaboratore di Lèucade

Amico mio carissimo, eccomi nel tuo solco poetico. Oggi ho sentito tutta l'armonia della tua poesia e mi sono lasciato guidare dal tuo fervore ispirativo per bere i tuoi versi. Ho letto e amato la poesia L'aratro inserita nella raccolta Idintorni della Solitudine, ho sentito i rumori i profumi tutti i richiami della tua terra e dei tuoi ricordi. Che bello rivivere l'infanzia! lo sò che è molto doloroso ma quando si pensa con il cuore sgorga il sangue della nostalgia e la poesia è diviene medicamento che sutura la ferita e l'aiuta a farla cicatrizzare. Il vino della nostalgia poi quando diventa poesia viene condiviso con gli amici, i quali sanno portare temi di conversazione e compagnia per disperdere l'amaro e far trionfare l'amore.

Nei tuoi versi ho trovato tanto amore e spero che la mia lettura riesca a dare un degno tributo alla tua immensità.

 

L’ARATRO

 

Non gli è rimasto che il vomere. I legni,

rosicchiati dai topi e dalle tarme,

sono ormai consumati. È lì che adocchia

lo spiraglio di luce nella stalla

con la speranza che il vecchio padrone

lo tolga da quell’angolo nascosto;

gli rifaccia le membra e lo riporti

alla vita dei campi: “Che profumi

respiravo quando la mia lama

solcava la terra a primavera!

Ho sempre dentro l’anima l’afrore,

accompagnato dal canto dei merli,

e dalle serenate dei fringuelli.

Quando uscivo fuori a riposare,

i miei occhi allungavano lo sguardo

a un orizzonte vasto a dismisura.

Ora son qui che vivo di ricordi,

e mi fa male questa solitudine.

E se qualcuno viene ad annaspare

in questo luogo lasciato all’abbandono,

nemmeno mi rivolge la parola.

Sono un aratro stanco, malandato,

ma più delle ferite corporali

mi dolgono i risvolti della vita:

questa fine fra aggeggi logorati,

fra attrezzi arrugginiti dall’età.

Vorrei che qualcuno ricordasse

l’aratro che un giorno sorrideva

nel preparare il campo per le semine;

nel lucidare il vomere all’attrito

col solco affratellato con il sole.

Sono l’aratro. Anzi fui l’aratro.

Vorrei la mano calda di qualcuno.

Vorrei tanto il ventre di mia madre.”.

 

DA “I DINTORNI DELLA SOLITUDINE”, GUIDO MIANO EDITORE, 2019


Il mistero della parola che sgorga nel silenzio della carta, una pagina che si apre come la terra che lo stilo solca e il gesto della scrizione diventa aratura del terreno rinvenendo i reperti della memoria. Ecco che la parola acquista un significato che sfidando l’oblio porta in luce i tesori nascosti nei sedimenti dell’anima del poeta, per donarli alla corrosione del tempo. Ma nella poesia la parola è un metallo prezioso che resiste alla corrosione e vince il rintocco dell’ora. L’aratro diviene metafora dell’uomo che vittima del progresso ha rivolto lo sguardo verso altre luci accantonando le origini rurali e le ataviche fatiche dei campi.   Ci troviamo in una trasposizione dell’uomo nell’oggetto, un cuore che si trasforma in vomere e le braccia che cercano appigli ai fili della memoria. Un canto poetico che ci restituisce il TEMPO quello di un padre che affida alla terra il suo destino e quello della famiglia, che vede nella figura curva sotto il sole il custode della sua vita. Semi di rispetto e d’amore una benedizione divina che ripaga dal sudore. Gli arnesi abbandonati riacquistano una vita emotiva, si fanno materia dei sogni in cerca di un riscatto. Come le navi arrugginite agli ormeggi ormai dismesse e preda di ferraglia per riparare altre navi, perdendo quel ruolo di centralità svolto nel servizio. È come l’uomo che avendo svolto il suo ruolo nella società del produrre perde l’ossequio del mondo che lo circonda e quindi la scrittura diviene denuncia. “Vorrei che qualcuno ricordasse/l’aratro che un giorno sorrideva/nel preparare il campo per le semine;/nel lucidare il vomere all’attrito/col solco affratellato con il sole”. Qui l’espressività dei versi si innalza per tendere ad una curvatura del limite della parola che congiunge il vomere e il solco, come la freccia e la ferita uniti nella complementarietà, quando la freccia si estrae la ferita si dissangua.     Il tema del male di vivere montaliano è ampiamente presente nella poetica pardiniana, lo ritroviamo ad esempio nella poesia La Barca “Sono una barca che s’inarca al mare,/sono un fuscello in balìa del vento/che cerca un porto dove rifugiare/le mie malinconie. A volte ho visto/una pallida luce di conforto/a indirizzare la prua. I remi stenti/ […]“ . In questa poesia l’uomo si identifica con una barca che si inarca sulle onde per far fronte alle difficoltà, nella poesia L’Aratro invece si immedesima nell’oggetto abbandonato. Il messaggio che ci vuole trasmettere Pardini è di carattere ecologico di guardare alla Terra e all’ambiente con animo sensibile e con atti sostenibili per mantenere il suolo fertile e avere nutrimento sano dai frutti del lavoro. Ma è anche il messaggio della lotta dell’uomo nel fronteggiare le difficoltà della vita e di cercare sempre di comunicare lo stato d’animo attraverso la parola per riuscire a tramutare i disagi in condivisione e bellezza poetica. Il lavoro, l’operosità, il sudore che caratterizzavano le famiglie nell’infanzia del poeta si fanno vibranti di preziosa emozionalità e il canto nostalgico si esalta nei versi fino a toccare le corde più sensibili dell’uomo. L’opera poetica di Pardini è alimentata dal significato della condivisione e sul senso della cultura non solo dei libri ma anche della terra, senso che essa attiva e ispira nella meditazione più profonda, più ampia. La poesia, in quest’ottica, è il fondamento della condivisione e Pardini lo fa con grande generosità. L’uomo vive quindi, un senso di abbandono, di perdita del suo ruolo sociale e ancora di più vive la perdita dei suoi cari che custodivano l’amore dell’appartenenza alla terra, al casolare, a tutto quel chiamare e urlare per i pochi momenti frugali di condivisione del poco che si moltiplicava e benediva con la mano del Padre sul cuore della Madre e della Famiglia.

Francesco Casuscelli


2 commenti:

  1. Francesco, stai dimostrando in tutte le tue letture una volontà di aprirti al dono a dir poco rara! Si vive tra gli egoismi individuali, che per fortuna non superano gli altruismi e la tua volontà di spalancare le ali per posarti sulle magie dei Poeti è degna di grande ammirazione. Ricordo perfettamente questa lirica, incantevole affresco di un mondo che non ho l'ardire di definire passato. Nazario è legato al territorio dei ricordi perché consapevole che senza di essi non esisteremmo. Traiamo linfa vitale dal pozzo della memoria. Sei disperatamente vero quando asserisci che sopraggiunge la nostalgia del perduto, dei miracoli dell'infanzia, ma sei altrettanto autentico quando sottolinei che 'la poesia diviene medicamento che sutura la ferita e l'aiuta a farla cicatrizzare'. I versi svolgono molti compiti, amico mio, il nostro Maestro ne è consapevole e mantiene il cuore fanciullo anche grazie al lirismo meraviglioso e travolgente che sa concepire. In questa Poesia il Vate si sente l'Aratro, attua una metonimia, diviene l'oggetto e nella chiusa, a dir poco struggente, invoca il ventre materno, quel grembo dal quale nasciamo e al quale torniamo... Grazie Francesco per questo tributo e grazie al Poeta che stordisce e incanta! Vi abbraccio entrambi.

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  2. Cara Maria, ti sono infinitamente grato per la condivisione delle mie percezioni e del mio emozionarmi davanti alla poesia maiuscola. Ti ringrazio anche per le parole gentili sulla mia scrittura.
    Un caro saluto

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