domenica 5 gennaio 2020

FRANCO DONATINI LEGGE: "I DINTORNI DELLA VITA" DI NAZARIO P.



Franco Donatini legge I DINTORNI DELLA VITA, di Nazario Pardini


Franco Donatini,

collaboratore di Lèucade

Una profonda riflessione sulla vita e sulla morte caratterizza questa raccolta di Nazario Pardini, I dintorni della vita. Una riflessione che si estende al tema epocale, alla base dell’esistenza umana, come è quello del rapporto tra la vita e la morte.
Accanto alle liriche tradizionali, Nazario Pardini introduce forme poetiche basate sullo schema del dialogo che risulta particolarmente efficace nell’approfondimento di questo tema, in cui gioca un ruolo fondamentale il rapporto dialettico tra l’uomo e la morte. Da sottolineare come la morte assuma i connotati di una persona, Thanatos, figlio della notte, in un confronto in cui compaiono allo stesso tempo toni drammatici di scontro e toni pacati e ragionativi di reciproca comprensione. Il rapporto dialettico tra la vita e la morte si esprime nel mito e poi a livello letterario come il rapporto tra Eros e Thanatos. L’amore infatti, sinonimo di energia e vitalità riproduttiva, si oppone alla morte come assenza di vita, di luce, come sonno eterno. La contrapposizione di queste due figure mitologiche conduce ad una sorta di umanizzazione di queste due categorie, che è propria del mito nella cultura classica, materializzando le due pulsioni interiori della natura che muovono l’intera esistenza, come ci insegna la psicologia freudiana. 
Il panorama letterario ci offre esempi di dialogo in questo ambito. Mi viene in mente il testo di Pavese, Dialoghi con Leucò, in cui l’autore si trova a fare il punto sulla profonda diversificazione tra l’immortalità della vita degli dei e la precarietà di quella degli uomini. Ma su ambedue domina incontrastabile il ruolo del destino a cui soggiace la stessa morte, presenza costante nella sensibilità e della vita dell’uomo, come nel caso della poesia di Pardini.
Già ne abbiamo conferma nelle prime liriche della raccolta, di quanto il senso della morte accompagni l’esistenza umana:
“Doloroso il viaggio che facemmo: / attraversammo mari, piane e monti, / attraversammo fiumi con daccanto / la sagoma di Thanatos protesa / come l’ombra di sera; assieme a noi, / nelle vie che facemmo, / diceva della vita, / della fragilità, / della futilità di tutto quello / che vivevamo.”
E poi, per dare un senso alla vita, il ritrovarsi dopo con le persone care:
“Spero che la fortuna mi sia amica / e mi faccia avere il tuo sorriso / quando verrò a trovarti, ad abbracciarti, / caro fratello mio.”
Nelle liriche successive si supera il pessimismo attraverso la ricerca degli elementi in grado di sfidare e contrapporsi alla morte.
Tra questi la poesia, che vola oltre la fine terrena del poeta, poiché “la vera poesia è sentimento, / memoriale, euritmica scansione; / è unicità del verbo dentro il verso / è storia di una storia, di un mistero, / è narrazione intima che torna / a farsi viva dopo gestazioni / per mutarsi così in connessioni / d’immagini feconde.”  Guai “infangare Calliope”, privare l’anima dell’uomo di “quel succo / nato per trasformarsi in poesia…”
E poi è la natura ad opporsi, con il suo continuo e ciclico rinascere, alla condizione temporanea che è tipica dell’essere umano. La vitalità della natura, anche se talvolta distruttiva, esprime la volontà di vivere e la trasferisce all’uomo che, proprio attraverso essa, assapora il senso di una, seppur momentanea, immortalità.
“Questa è la danza / al ritmo di natura; / danziamo la ballata delle gialle gramaglie; / invidiosa sarai, morte, / dinnanzi ai nostri salti.”.
E le stagioni evocano la voglia di rinascere di vivere ancora nuove emozioni. “Racconteranno con le loro storie/ i luoghi dove io conobbi amore, / per contraddire con la loro forza / il nero vuoto della tua esistenza. Riemerge il conflitto dialettico tra Eros e Thanatos, dove Eros rappresenta non solo l’amore sessuale, ma l’amore esteso al complesso della natura, che eternamente ciclica e si riproduce, che rappresenta la vita in sé, la luce contrapposta all’oscurità dell’aldilà. Preferisco parlare di aldilà, percepito come regno delle tenebre e non la fine di tutto dal poeta che possiede un forte senso religioso che lo protegge dalla sensazione del nulla eterno.
Tuttavia questo senso religioso non lo preserva dal senso di precarietà, strutturale alla condizione umana. Emerge, in queste ultime liriche, la consapevolezza che non la morte ma il tempo sia il vero responsabile di questa precarietà. Una consapevolezza che è il tema dominante dei successivi dialoghi.
Nei dialoghi l’uomo non è supino rispetto alla morte anzi stabilisce un contatto paritetico, ci convive, quasi la sconfigge seppur momentaneamente, attraverso l’amore, il ricordo dei giorni felici, le passioni, la cultura, le immagini quotidiane che ne evocano la presenza, ma ne leniscono il dolore. Emerge un ossimoro profondo alla base dell’esistenza umana, la vita e la morte sono due facce opposte che danno un senso l’una all’altra, un ossimoro senza il quale non sarebbe possibile la vita.
E allora il colloquio non è più sdegnoso e diviene pacato. La morte sembra scusarsi per questa intromissione nell’esistenza dell’uomo, di cui ne diviene una sorta di permanente compagna e l’uomo accetta questa condizione.
“Vieni un po’ qua da me. Restami accanto. / Non essermi nemica” a cui la morte risponde, scusandosi “Chi volle la mia falce è la Natura / ed io non faccio altro che obbedire. / Forse tu pensi che io non mi tormenti / di questo mio esistere”
Il tono di questi colloqui richiama quello delle Operette morali leopardiane Infatti il tono lirico delle poesie iniziali della raccolta, assurge nei dialoghi a una dimensione filosofica, mentre il linguaggio poetico da evocativo diviene più analitico e argomentativo. Una dimensione che rasenta un pessimismo cosmico quando la morte confessa la sua debolezza e servitù ad una entità superiore incontrollabile e imprevedibile rappresentata dal destino, nel senso del Fato, la legge ineluttabile degli antichi che domina l’universo.
Potrebbe sembrare che non ci siano vie di uscita a questo stato, se non quella proposta dal grande poeta recanatese, cioè di un rapporto solidale per sopportare benignamente l’amaro destino. Ma qui interviene il forte senso religioso del uomo Pardini, in cui la luce divina scaccia l’oscurità della morte, come nella lirica che conclude la raccolta.
“Si aprirono i cieli, / la luce incoronò valli ed abissi, / e tutto fu chiarore”.
E infine l’intervento divino a ristabilire su tutto il valore e il ruolo vivificatore dell’amore universale.
“Vinse l’amore, e nella notte / si accese la lampada divina, / grande, enormemente forte, / più che d’agosto la calura estiva. / Più che di giorno la gloria del Signore”

Franco Donatini





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