lunedì 20 gennaio 2020

NAZARIO PARDINI LEGGE: "LA POESIA" DI ENZO CONCARDI




IL GIOCO DELLE ANTITESI NELLA POETICA DI ENZO CONCARDI
(...)
Sincopata e soave la voce del pendolo
ora mi ricorda creature gentili
che allora furono per me fate sapienti
a vegliare sui miei sogni innocenti (Pendolo a muro, da Naif, 2019).

Iniziare da questa citazione testuale significa penetrare da subito nel cuore della poetica dell’autore. Ricordi sfumati, volti di un tempo a vegliare su sogni innocenti, sprazzi di luce, empatici tempi volati nel nulla; la storia di Concardi si staglia con energia  visiva in versi lampanti di saudade.
Mi sono arrivate oggi 6 sue opere per bontà dello stesso scrittore: Carovane di sabbia, Sentinelle del nulla, Foglie e clessidre, Strade, Chiara fontana, e Cristalli. Un percorso filologicamente costruttivo, empaticamente vicino, una vera ascensione sintagmatico-contenutistica che ci offre una chiara  visione dell’autore a livello linguistico e speculativo. Riportiamo dei lacerti introduttivi dei grandi critici che si sono interessati della sua poesia. “Concardi non dà tregua al lettore, avvalendosi di un  ritmo idiomatico incalzante e moderno: la speranza è reminiscenza, rigurgito indiretto che si fa strada faticosamente dalle esperienze interiori, attraverso un paesaggio urbano allucinato carico di simboli….”, scrive Guido Miano nella prefazione a Carovane di sabbia, 1981; 
mentre Giorgio Berti nella prefazione a Sentinelle del nulla (1984): “… Soprattutto c’è nelle poesie di Concardi il ritorno in vita della strofa e del verso, finalmente nobilitati e non più umiliati dall’essere “versi liberi”… i suoi versi contengono vere immagini, ed hanno la misura naturale del gusto e del cuore”; e Vincenzo Bendinelli nella prefazione a Foglie e cressidre (1989): “… Il suo è un testamento spirituale ed umano, la testimonianza di un’anima sincera dell’onestà traboccante e pura”; e fra gli stralci critici di Strade (1999), leggiamo a firma di Licia Colmar: “… Questo poeta, così ricco umanamente, così denso nei suoi versi spesso di sapore lorchiano, nei suoi scorci a volte d’impatto teatrale”; mentre Marilena Salvarezza, nella prefazione a Chiara fontana (2017): “… Attraverso l’opera l’autore racconta il percorso, lungo e accidentato, disseminato di falsi miti che abitavano la sua mente e il suo cuore, fino ad una meta non ingannevole, fonte di vita, appunto…”; e per chiudere riportiamo uno stralcio di Guido Miano dalla prefazione a Cristalli (2012): “… 

Un linguaggio modulato coerentemente al proprio stile e all’autenticità, originale, come è accaduto ai maggiori poeti delle patrie lettere, da Pascoli a Saba a Luzi”. Insomma una carrellata di voci critiche di grande portata  che ci fanno da prodromico innesto, da antiporta per introdurci nella varia e articolata  poetica di Concardi: vita, amore, memorie, realismo lirico, coscienza del tempo che fugge, inquietudine esistenziale, saudade, poesia dell’home, simbolismo, e naturismo oggettivante.  Queste, tutte queste sono le caratteristiche ispirative del suo mondo, che, poi, sono contenute in un’unica voce: la vita. Il poeta non fa altro che narrarci le tappe del suo percorso, intingendole di un  velo di ontologico tremore che si è evoluto negli anni. Le cose di ogni giorno cadono sotto l’attenzione emotivo-descrittiva dell’autore. Ma restano a riposare per un tragitto sufficiente a farsi nuove, ricche di pathos, o di quella giusta malinconia che fa bene all’azione creativa. Il linguismo segue con acuta intelligenza riproduttiva l’epigrammatico percorso vicissitudinale. Si fa ora ampio ora contenuto, ora ipertrofico, ora ipotrofico, a seconda della carica emotiva. Di sicuro l’insieme non  ha molto a che vedere con il correlativo oggettivo di stampo eliotiano, o con la corrente minimalista di memoria anceschiana; sì, ci sono alcuni spunti che fanno pensare ad una poesia fatta di minime intrusioni, di oggettivi riferimenti, ma il tutto torna ad un mondo poetico di positura tradizionale, pur con tutta la novità lessico-fonica, di cui l’autore si fa portatore. Sì, anche se si raggiungono  momenti di maggiore estensione verbale, mai, comunque, il poeta fa pensare ad una poesia di sperimentale positura prosastica. Il verso è morbido, fluente, sa quando deve andare a capo, lo suggerisce la stessa parola, legata saldamente in iuncturae che raggiungono non di rado vertici di pura liricità, di euritmica sonorità eufonica: 

“Verrà sempre la bella estate nelle Langhe/ con l’aquilone rosso sopra la collina/ a fendere la tazza azzurra del cielo./Duri volti serrano pugni nodosi/  con quell’ira secolare negli occhi/ per la perdita inconsulta di se stessi…” (La bella estate, da Chiara Fontana), dove sinestetici allunghi di metaforica creatività confermano una posizione chiara della poetica del Nostro, con il ritorno alla suddivisione in strofe,  cara alla architettura metrica della nostra tradizione.  Tra  l’altro la natura ha sempre un ruolo determinante nell’oggettivare stati d’animo, nel concretizzare emozioni. Un particolare non da poco nello stile di Concardi, visto che ricorre spesso a cromatici rimandi per delineare le sue pulsioni emotive: “L’anima degli alberi/vaga notti di nebbia/ e svanisce nel nulla/ che sovrasta città deserte./ Un pesco fiorito/ rallegra di rosa/ le impalcature del dubbio…” 

(Pescheto da Cristalli), dove le meditazioni sul vivere e morire creano nel poeta quello stato di inquietudine sereniana, tipica dell’uomo sperso nei tanti quesiti dell’esistere; nei tanti perché di improbabile soluzione: “… Anfore di corallo in coro urlando da spiagge selvagge/ ma se qui non è impegno sarà tedio supremo,/ se ora non è coscienza – della morte il pallor muto” (Anfore di corallo da Foglie e clessidre).    Un autore di prolifica produzione letteraria, collaboratore di Guido Miano Editore: scrittore polivalente, versatile e proteiforme, la cui anima si diluisce come acqua piovana nel terreno di una società distante dai fondamentali che la nutrivano in altre primavere. I suoi messaggi ontologici si concretizzano in immagini paniche di alto valore simbolico, dove la vita la fa da padrona, col ricorso al patrimonio del memoriale: “… La folla dei ricordi intensa m’assale/ aggrovigliata e tumultuante nella mente/ e sa d’improvvisa bufera che scuote.” ( Meridiane da Strade).  
Una vita ricca di vicissitudini, di impatti emotivi, di rievocazioni memoriali che riportano a galla momenti di arcaico sapore, dove trebbie, vigne, focolari, feste paesane, amicizie e legami, illuminavano l’umanità della loro substantia. Poesia dell’home, delle radici, dei veri sentimenti familiari, delle ubertose reminiscenze focolari: “... Una strana nostalgia crepuscolare/mi scuote tese fibre dell’essere/se penso a chi se n’è andato:/ma ognuno siede al desco familiare/col suo sorriso ad abitare ore serali./ E germogliano granelli d’infinito/nei miei occhi ancora di fanciullo” (Angoli crepuscolari, ibidem). Le memorie sono il fulcro della poetica di   Concardi, ma non è che si pianga addosso con melici rimandi o con decadenti piagnistei, tutt’altro: il suo vigoroso linguismo, la sua attenta e rielaborata ricerca lessicologica, fanno da argine  a impennate emotive di valenza lirica e di epigrammatica consonanza strutturale. La vita, sì; si legge in lui una continua trasfusione di cuore e mente in una versificazione musicale. Ma non è che nelle sue opere si affidi a endecasillabi o settenari per facilitare l’emissione di note musicali di timbro wagneriano; o di spartiti di sapore chopiniano tipo tristezza. La musicalità della sua prosodia è tutta nella parola, nelle iuncturae, nei collegamenti sinestetico-allegorici; la sua poesia sa la misura del verso; ed il verso sa quando deve andare a capo, non si prolunga più di tanto col rischio di sfociare in un discorso prosimetrico di memoria anceschiana  o minimalista, niente di tutto questo;  il suo dettato contenutistico-formale si tiene ben distante da sperimentalismi di positura prosastica che tanto danno hanno fatto alla poesia come tutte le avventure zanzottiane degli anni ’60. Diceva, e l’ho udito direttamente con le mie orecchie, il mio corregionale Mario Luzi: “noi siamo memoria”. Vale a dire che tutto quello che viene filtrato dalla storia è degno di restare, di farsi parte dell’antologia universale.  D’altronde la poesia sta sempre nel mezzo tra il passato e il futuro. E deve fare da trait d’union tra questi due mondi: da una parte eredità di una storia, dall’altra prosieguo di uno  sguardo verso il  futuro. E tutto, ogni cosa degna di antologizzarsi, richiede di essere filtrata dall’animo in stato di grazia. Un carretto in una strada, un aratro in un campo, un panorama, o altro non possono rientrare di per sé nell’àmbito dell’arte: ogni visione deve restare a macerare nelle latebre dell’intimità, a riposare per riemergere, in seguito, arricchita di un pathos che chiede di essere trasferito sulla pagina coi subbugli vitali, dove spicca la generosità   di un  animo di fronte al “dolore muto e dignitoso degli abbandonati”: “... Lungo i sentieri del vivere o del morire/dell’amare un destino o del farsi vittime/ ho condiviso il tacito pianto dei poveri/ il dolore muto e dignitoso degli abbandonati/ ed ho chiesto a loro perdono per la mia viltà” (Borghi di pietra, da Naif). Questo fa Concardi con la sua azione creativa: lascia a riposare i frammenti di una vita, li accarezza, li custodisce, li rielabora, dando loro nuova linfa. Nasce così la creazione,   contornata da forti invenzioni stilistiche, dove tutto è attivo, presente, partecipativo, esplosivo; nessuna nota  della creazione può essere passiva, impersonale, asettica, senza storia, amorfa, oggettiva, solo e solamente oggettiva, come la vorrebbe gran parte della critica attuale che pretenderebbe un’arte senza apporti personali, memoriali. Leggere le opere di Concardi significa trovarsi, incontrare buona parte di noi, del nostro  epigrammatico viaggio esistenziale. Sono le sue parole a fare breccia nel  mondo degli esseri terreni, con tutte le aporie del quotidiano e i perché della vicenda toccataci in sorte; le inquietudini del fatto di esistere che ci turbano in quanto esseri viventi. Da qui la coscienza della nostra esilità, del nostro imperfetto esistere, del malum vitae che alimenta, anche, l’azione poetica; il climax delle nostre esigenze scritturali. Dacché è nell’imperfezione che l’uomo si muove e cerca; la perfezione è staticità, dove tutto è quieto e fermo.  Una confessione rotonda, varia e articolata quella del Nostro, che con i suoi campi semantico-empatici ricostruisce un  pensiero filosofico sull’essere e l’esistere; sui motivi portanti della nostra vicissitudine densa di bene e di male, di ombre e di luce, insomma di quella dialettica dei contrari, di quel gioco delle antitesi, la cui simbiotica fusione determina il sale del canto:
“...Ad ogni tramonto un sole beve nelle risaie/e trampolieri danzano in lezioni di eleganza.//Noi passiamo distratti e spettinati/ ormai analfabeti del linguaggio del vento”. Iperboli e slanci verso l’oltre; dalla realtà, e dai suoi elementi portanti Concardi crea una scala nel tentativo di oltrepassare i limiti entro cui si sente vincolato. 

Nazario Pardini

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