IL
GIOCO DELLE ANTITESI NELLA POETICA DI ENZO CONCARDI
(...)
Sincopata
e soave la voce del pendolo
ora
mi ricorda creature gentili
che
allora furono per me fate sapienti
a
vegliare sui miei sogni innocenti (Pendolo
a muro, da Naif, 2019).
Iniziare
da questa citazione testuale significa penetrare da subito nel cuore della
poetica dell’autore. Ricordi sfumati, volti di un tempo a vegliare su sogni
innocenti, sprazzi di luce, empatici tempi volati nel nulla; la storia di
Concardi si staglia con energia visiva
in versi lampanti di saudade.
Mi sono arrivate oggi 6 sue opere per bontà
dello stesso scrittore: Carovane di
sabbia, Sentinelle del nulla, Foglie e clessidre, Strade, Chiara fontana, e
Cristalli. Un percorso filologicamente costruttivo, empaticamente vicino,
una vera ascensione sintagmatico-contenutistica che ci offre una chiara visione dell’autore a livello linguistico e
speculativo. Riportiamo dei lacerti introduttivi dei grandi critici che si sono
interessati della sua poesia. “Concardi non dà tregua al lettore, avvalendosi
di un ritmo idiomatico incalzante e
moderno: la speranza è reminiscenza, rigurgito indiretto che si fa strada
faticosamente dalle esperienze interiori, attraverso un paesaggio urbano
allucinato carico di simboli….”, scrive Guido Miano nella prefazione a Carovane di sabbia, 1981;
mentre Giorgio
Berti nella prefazione a Sentinelle del
nulla (1984): “… Soprattutto c’è nelle poesie di Concardi il ritorno in
vita della strofa e del verso, finalmente nobilitati e non più umiliati
dall’essere “versi liberi”… i suoi versi contengono vere immagini, ed hanno la
misura naturale del gusto e del cuore”; e Vincenzo Bendinelli nella prefazione
a Foglie e cressidre (1989): “… Il
suo è un testamento spirituale ed umano, la testimonianza di un’anima sincera
dell’onestà traboccante e pura”; e fra gli stralci critici di Strade (1999), leggiamo a firma di Licia
Colmar: “… Questo poeta, così ricco umanamente, così denso nei suoi versi
spesso di sapore lorchiano, nei suoi scorci a volte d’impatto teatrale”; mentre
Marilena Salvarezza, nella prefazione a Chiara
fontana (2017): “… Attraverso l’opera l’autore racconta il percorso, lungo
e accidentato, disseminato di falsi miti che abitavano la sua mente e il suo
cuore, fino ad una meta non ingannevole, fonte di vita, appunto…”; e per
chiudere riportiamo uno stralcio di Guido Miano dalla prefazione a Cristalli (2012): “…
Un linguaggio
modulato coerentemente al proprio stile e all’autenticità, originale, come è
accaduto ai maggiori poeti delle patrie lettere, da Pascoli a Saba a Luzi”.
Insomma una carrellata di voci critiche di grande portata che ci fanno da prodromico innesto, da
antiporta per introdurci nella varia e articolata poetica di Concardi: vita, amore, memorie,
realismo lirico, coscienza del tempo che fugge, inquietudine esistenziale,
saudade, poesia dell’home, simbolismo, e naturismo oggettivante. Queste, tutte queste sono le caratteristiche
ispirative del suo mondo, che, poi, sono contenute in un’unica voce: la vita.
Il poeta non fa altro che narrarci le tappe del suo percorso, intingendole di un velo di ontologico tremore che si è evoluto
negli anni. Le cose di ogni giorno cadono sotto l’attenzione
emotivo-descrittiva dell’autore. Ma restano a riposare per un tragitto
sufficiente a farsi nuove, ricche di pathos, o di quella giusta malinconia che
fa bene all’azione creativa. Il linguismo segue con acuta intelligenza
riproduttiva l’epigrammatico percorso vicissitudinale. Si fa ora ampio ora
contenuto, ora ipertrofico, ora ipotrofico, a seconda della carica emotiva. Di
sicuro l’insieme non ha molto a che
vedere con il correlativo oggettivo di stampo eliotiano, o con la corrente
minimalista di memoria anceschiana; sì, ci sono alcuni spunti che fanno pensare
ad una poesia fatta di minime intrusioni, di oggettivi riferimenti, ma il tutto
torna ad un mondo poetico di positura tradizionale, pur con tutta la novità
lessico-fonica, di cui l’autore si fa portatore. Sì, anche se si raggiungono momenti di maggiore estensione verbale, mai,
comunque, il poeta fa pensare ad una poesia di sperimentale positura prosastica.
Il verso è morbido, fluente, sa quando deve andare a capo, lo suggerisce la
stessa parola, legata saldamente in iuncturae che raggiungono non di rado
vertici di pura liricità, di euritmica sonorità eufonica:
“Verrà sempre la
bella estate nelle Langhe/ con l’aquilone rosso sopra la collina/ a fendere la
tazza azzurra del cielo./Duri volti serrano pugni nodosi/ con quell’ira secolare negli occhi/ per
la perdita inconsulta di se stessi…” (La
bella estate, da Chiara Fontana),
dove sinestetici allunghi di metaforica creatività confermano una posizione
chiara della poetica del Nostro, con il ritorno alla suddivisione in
strofe, cara alla architettura metrica
della nostra tradizione. Tra l’altro la natura ha sempre un ruolo
determinante nell’oggettivare stati d’animo, nel concretizzare emozioni. Un
particolare non da poco nello stile di Concardi, visto che ricorre spesso a
cromatici rimandi per delineare le sue pulsioni emotive: “L’anima degli
alberi/vaga notti di nebbia/ e svanisce nel nulla/ che sovrasta città deserte./
Un pesco fiorito/ rallegra di rosa/ le impalcature del dubbio…”
(Pescheto da Cristalli), dove le meditazioni sul vivere e morire creano nel
poeta quello stato di inquietudine sereniana, tipica dell’uomo sperso nei tanti
quesiti dell’esistere; nei tanti perché di improbabile soluzione: “… Anfore di
corallo in coro urlando da spiagge selvagge/ ma se qui non è impegno sarà tedio
supremo,/ se ora non è coscienza – della morte il pallor muto” (Anfore di corallo da Foglie e clessidre). Un
autore di prolifica produzione letteraria, collaboratore di Guido Miano Editore:
scrittore polivalente, versatile e proteiforme, la cui anima si diluisce come
acqua piovana nel terreno di una società distante dai fondamentali che la
nutrivano in altre primavere. I suoi messaggi ontologici si concretizzano in
immagini paniche di alto valore simbolico, dove la vita la fa da padrona, col
ricorso al patrimonio del memoriale: “… La folla dei ricordi intensa m’assale/
aggrovigliata e tumultuante nella mente/ e sa d’improvvisa bufera che scuote.”
( Meridiane da Strade).
Una vita ricca di
vicissitudini, di impatti emotivi, di rievocazioni memoriali che riportano a
galla momenti di arcaico sapore, dove trebbie, vigne, focolari, feste paesane,
amicizie e legami, illuminavano l’umanità della loro substantia. Poesia
dell’home, delle radici, dei veri sentimenti familiari, delle ubertose
reminiscenze focolari: “... Una strana nostalgia crepuscolare/mi scuote tese
fibre dell’essere/se penso a chi se n’è andato:/ma ognuno siede al desco
familiare/col suo sorriso ad abitare ore serali./ E germogliano granelli
d’infinito/nei miei occhi ancora di fanciullo” (Angoli crepuscolari, ibidem). Le memorie sono il fulcro della
poetica di Concardi, ma non è che si
pianga addosso con melici rimandi o con decadenti piagnistei, tutt’altro: il
suo vigoroso linguismo, la sua attenta e rielaborata ricerca lessicologica, fanno
da argine a impennate emotive di valenza
lirica e di epigrammatica consonanza strutturale. La vita, sì; si legge in lui
una continua trasfusione di cuore e mente in una versificazione musicale. Ma non
è che nelle sue opere si affidi a endecasillabi o settenari per facilitare
l’emissione di note musicali di timbro wagneriano; o di spartiti di sapore chopiniano
tipo tristezza. La musicalità della sua prosodia è tutta nella parola, nelle
iuncturae, nei collegamenti sinestetico-allegorici; la sua poesia sa la misura
del verso; ed il verso sa quando deve andare a capo, non si prolunga più di
tanto col rischio di sfociare in un discorso prosimetrico di memoria anceschiana
o minimalista, niente di tutto questo; il suo dettato contenutistico-formale si tiene
ben distante da sperimentalismi di positura prosastica che tanto danno hanno
fatto alla poesia come tutte le avventure zanzottiane degli anni ’60. Diceva, e
l’ho udito direttamente con le mie orecchie, il mio corregionale Mario Luzi:
“noi siamo memoria”. Vale a dire che tutto quello che viene filtrato dalla
storia è degno di restare, di farsi parte dell’antologia universale. D’altronde la poesia sta sempre nel mezzo tra
il passato e il futuro. E deve fare da trait d’union tra questi due mondi: da
una parte eredità di una storia, dall’altra prosieguo di uno sguardo verso il futuro. E tutto, ogni cosa degna di antologizzarsi,
richiede di essere filtrata dall’animo in stato di grazia. Un carretto in una strada,
un aratro in un campo, un panorama, o altro non possono rientrare di per sé nell’àmbito
dell’arte: ogni visione deve restare a macerare nelle latebre dell’intimità, a
riposare per riemergere, in seguito, arricchita di un pathos che chiede di
essere trasferito sulla pagina coi subbugli vitali, dove spicca la
generosità di un animo di fronte al “dolore muto e dignitoso
degli abbandonati”: “... Lungo i sentieri del vivere o del morire/dell’amare un
destino o del farsi vittime/ ho condiviso il tacito pianto dei poveri/ il
dolore muto e dignitoso degli abbandonati/ ed ho chiesto a loro perdono per la
mia viltà” (Borghi di pietra, da Naif). Questo fa Concardi con la sua
azione creativa: lascia a riposare i frammenti di una vita, li accarezza, li custodisce,
li rielabora, dando loro nuova linfa. Nasce così la creazione, contornata da forti invenzioni stilistiche,
dove tutto è attivo, presente, partecipativo, esplosivo; nessuna nota della creazione può essere passiva,
impersonale, asettica, senza storia, amorfa, oggettiva, solo e solamente
oggettiva, come la vorrebbe gran parte della critica attuale che pretenderebbe un’arte
senza apporti personali, memoriali. Leggere le opere di Concardi significa
trovarsi, incontrare buona parte di noi, del nostro epigrammatico viaggio esistenziale. Sono le
sue parole a fare breccia nel mondo degli
esseri terreni, con tutte le aporie del quotidiano e i perché della vicenda
toccataci in sorte; le inquietudini del fatto di esistere che ci turbano in
quanto esseri viventi. Da qui la coscienza della nostra esilità, del nostro imperfetto
esistere, del malum vitae che alimenta, anche, l’azione poetica; il climax
delle nostre esigenze scritturali. Dacché è nell’imperfezione che l’uomo si
muove e cerca; la perfezione è staticità, dove tutto è quieto e fermo. Una confessione rotonda, varia e articolata
quella del Nostro, che con i suoi campi semantico-empatici ricostruisce un pensiero filosofico sull’essere e l’esistere;
sui motivi portanti della nostra vicissitudine densa di bene e di male, di
ombre e di luce, insomma di quella dialettica dei contrari, di quel gioco delle
antitesi, la cui simbiotica fusione determina il sale del canto:
“...Ad
ogni tramonto un sole beve nelle risaie/e trampolieri danzano in lezioni di
eleganza.//Noi passiamo distratti e spettinati/ ormai analfabeti del linguaggio
del vento”. Iperboli e slanci verso l’oltre; dalla realtà, e dai suoi elementi
portanti Concardi crea una scala nel tentativo di oltrepassare i limiti entro
cui si sente vincolato.
Nazario
Pardini
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