sabato 4 gennaio 2020

NAZARIO PARDINI LEGGE: "ANATOMIA DEL VUOTO" DI MARCO ONOFRIO



Marco Onofrio. Anatomia del vuoto. La vita felice Edizioni. 2019

Ogni tramonto
è solo la metà della sua alba.

Per questo siamo a pezzi ma
non è mai finita.

La vita è in questo lacerto della poesia testuale: tramonto, alba, pezzi, finita. Tanti elementi che la caratterizzano; che la definiscono  nel suo  tragitto essenziale. Il fatto di non essere mai finita è una affermazione che lo scrittore inserisce nell’esemplificativo titolo della plaquette: Anatomia del vuoto.
Un vuoto che fa rumore; una dualità perenne fra luce e ombra: “C’è il soffio di una vita superiore/ nell’alleanza mistica  e profonda/ che unisce le sorgenti della vita”.
Il vuoto, il nulla, l’assenza; il tutto, il pieno, l’amore, il senso; si riportano in esergo alcune massime tra cui quella di Pascal: Che cosa è un uomo nell’infinito?  Un milieu entre rien e tout. Fra niente e tutto. Il niente in cui l’uomo stesso si perde e  il tutto in quanto l’uomo è nella sua monadicità di essere. Il niente dell’uomo di fronte al tutto e il tutto eterno e irraggiungibile dalla miseria umana. D’altronde questa è la dicotomia più invadente che perseguita il fatto di esistere creando quella splenetica emozione che alimenta il canto. È  questo protendersi en haut che fa dell’uomo un essere insoddisfatto ed inquieto.  In questo testo trovi ogni input vitale, ogni dilemma del vivere, dell’esistere: l’inquietudine, l’antitesi vita-morte, morte-vita, il senso della precarietà, il non senso dell’inconoscibile, del fatto che la vita appaia come un frammento prestato dalla morte. Come riempire questo vuoto che attorno ci perseguita? Si può solo riempire con quelli che sono i motivi focali dell’esserci: la poesia, l’amore, il memoriale; un viaggio il nostro tramite cui siamo diretti verso un’isola che forse non c’è. Il fatto sta che viaggiamo remando con virulenza attraverso scogli e trabucchi, tempeste e bonacce, rischiando di sfasciate la nostra imbarcazione. Onofrio ha remi solidi, legni forti, che possono superare le difficoltà della navigazione. Metaforicamente è il suo linguismo, la sua significanza metrica asciutta e apodittica che si identificano coi legni ed i remi. La bussola e la ricerca di un faro, invece, col nostro ambire a soluzioni improbabili. Noi esseri umani, imperfetti e caduchi, destinati al naufragio, abbiamo come meta questa luce che illumina il porto, il fatto sta che attorno vi è un grande  buio: quale rappresentazione migliore della nostra esistenza? Una piccola luce nel mezzo ad una notte che ci sommerge. Navigare è importante, non piegare la testa di fronte alla nebbia o al mistero, sta tutta qui la grandezza della poesia; pur sapendo della impossibilità di raggiungere quel porto continuiamo imperterriti a viaggiare. Questo è il sistema migliore per riempire quel vuoto in cui siamo destinati a essere risucchiati. Riportare a galla memorie di antiche primavere, avere accanto paesaggi pieni di luce, mari estesi quanto i nostri desideri, visioni di volti che ci vollero bene, e che hanno giocato ruoli importanti nel nostro viaggio: tutto ciò che riempirà le rien pascaliano, il giorno vuoto della luce che brilla. La nostalgia dell’assoluto ci spinge ad azzardare voli oltre le soglie: “E’ deciso, parto per il cielo: ho la nostalgia dell’assoluto”. Nostalgia dell’assoluto, il dilemma fortemente umano: quello di guardare in alto con piedi ben piantati per terra; la spinta a sorpassare gli orizzonti che limitano il nostro stare; a scavalcare il vuoto che ci assedia. Ma c’è l’amore a salvaci dal baratro, dalle verità nascoste di questa spaventosa immensità. “ Ma dipende dall’amore con cui la guardiamo,/ la  bellezza pura della vita”. D’altronde è di fronte al buio della  notte, o all’immensità imperscrutabile del cielo che l’uomo si sente a disagio, data  la sua pochezza misurata col tutto.  Cotidie morimur, afferma Seneca, questa visione di una morte che ci sta addosso quotidianamente senza mollare, rende l’idea  del nostro galleggiare in una marea ondivaga.  Questo è il nulla, il vuoto che ci circuisce; ma la poesia psicologicamente attiva e riflessiva di Onofrio, basata su sinestetici richiami,   su simbolismi di panico sostegno, guarda avanti, con la sua andatura asciutta, apodittica, zeppa di interrogativi esistenziali, e di un’attiva presenza personale. La sua è presenza, non assenza. Un poema che gioca su una personalità incisiva e partecipativa; con tutte le magagne del quotidiano vivere; un percorso che trae linfa dal passato e che allunga gli occhi verso l’imponderabile peso del visionario. Qui si sente e si vive l’arco meditativo di un uomo: presenza e non assenza: poesia nuova, sì, per un verbo nuovo e concretizzante un animo in bilico tra verbalismo sabiano e conflittualità sereniana. Ma di sicuro non di sperimentalismo di positura prosastica, spersonalizzata, amorfa, dove l’io non trova posto, e dove non trovano posto gli abbrivi emotivi di una storia che ci vede in campo giorno dopo giorno:

Ho il terrore calmo dello spazio
internamente vuoto
senza fondo.

L’occhio fulvo degli astri.
Il caos oltre le parole.
L’errore sterminato senza senso
il nulla immenso.

Perdo la mia vita
per abbracciare il mondo
e dico addio.

Nazario Pardini

 

1 commento:

  1. Ringrazio di cuore il Prof. Nazario Pardini per la profonda e sensibile analisi critica del mio libro. Marco Onofrio

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