Rossella Cerniglia, collaboratrice di Lèucade |
Nazario
Pardini “I dintorni della vita
Conversazione con Thanatos” Ed. G. Miano
La
nuova opera di Nazario Pardini, I dintorni della vita, conversazione con
Thanatos, viene a comporre, insieme alle precedenti I dintorni della
solitudine e I dintorni dell'amore, ricordando Catullo, una trilogia
in cui trovano espressione temi di importanza capitale nella vita dell'uomo: la
Solitudine, riferibile alla nostra monadicità o assoluta singolarità di
uomini; l'Amore che è il fulcro della nostra esistenza e il motore che
innesca ogni divenire nelle cose e in noi; infine il rapporto dialettico Vita-morte,
così intimo alla natura di tutte le cose da essere lo stigma ineludibile della
loro finitudine, e per l'uomo il senso più profondo del nostro stesso esistere,
secondo la lezione heideggeriana di Essere e Tempo.
Se l'Amore
è motore di vita e suo stesso sinonimo, anche la morte gli è essenziale,
necessaria: essendo il divenire null'altro che il morire perché si adempia la
possibilità di nuova vita, la quale, appunto, è creazione che continuamente si
rinnova nell'alternanza delle due polarità.
Il tema della solitudine
è anch'esso strutturato nell'esistenza, in una forma direi solipsistica che
l'uomo cerca tuttavia di superare attraverso l'amore in senso lato, ovvero
attraverso il rapporto positivo e corale con gli esseri - tutti interdipendenti
- della nostra terra.
Questi tre
diversi modi di sentire sono dunque profondamente umani ed anzi così intimi da
essere parte integrante di noi, del nostro essere al mondo. In tal senso, sono costitutivi della nostra stessa essenza di uomini. E come
essi attraversano interamente la nostra esistenza, allo stesso modo non possono
non trovare spazio ed espressione nell'opera di un poeta, e Pardini ne offre un
gagliardo esempio dell'intersecarsi di essi nelle sue opere e nelle sue parole.
Già nelle due
precedenti opere di questa trilogia, l'esistenza appariva spesso nel confronto
col suo destino di morte. La morte delle cose, infatti, l'avvertimento della
finitudine che le abita è già una nostra morte, è un patire, nella morte di
esse, anche la nostra morte, poiché il nostro mondo è fatto di tutte le cose
che lo abitano, e che ci abitano come costituenti della nostra stessa anima.
Mi riferisco a
quel senso di solitudine e abbandono, che presenta la realtà a volte: certi
inquieti paesaggi che respirano
tristezza in un'atmosfera malata, destinata allo sfinimento e alla morte. A
volte è la moritura bellezza che ci trafigge l'anima.
In alcuni versi
delle due precedenti raccolte, abbiamo incontrato il medesimo senso di
solitudine e di abbandono, lo stesso sfinimento che sembra vestire le cose, ed
anzi le veste in essenza: qualcosa che si identifica col senso del loro finire,
della loro morte, e col senso della morte di tutte le cose, col sentimento
dell'universale finitudine che veste le cose tutte di questa terra.
Nella presente
opera, la morte ci appare personificata in Thanatos. E mentre nei versi delle
due precedenti raccolte della trilogia, questo sfinimento e questo abbandono,
il lento sfiorire della bellezza, erano la malattia dell'essere e
un'anticipazione della morte stessa, qui la morte è presenza diretta, fulminea,
rapace. È la falce mietitrice, l'enigma che non si annuncia, ma viene a
prenderci per i capelli ovunque siamo diretti e ci riporta indietro, al luogo
da dove siamo venuti: come vorrebbe
Platone, al luogo che più non ricordiamo e che perciò ci appare misterioso e
oscuro e inquietante.
Il testo ha al suo
interno un carattere marcatamente argomentativo: dibatte tesi fatte di antiche
angosce, speranze e desideri. C'è la mente dell'uomo investita dai dubbi, dalle
tante domande che non avranno risposta su questa terra, su cui tuttavia l'uomo
indagatore non smetterà mai di interrogarsi, come non smette di porsi le
domande sull'Essere e sulla trascendenza e l'immanenza del divino nella terra e
in noi. C'è la conversazione con Thanatos, appunto, che a volte assume i toni
di un contraddittorio in cui ognuna delle due parti parla in propria difesa.
Thanatos, non è
benevolo né ostile. Thanatos è la necessità, è elemento dell'ordine
divino, immutabile ed eterno, almeno fintantoché la vita rimarrà la stessa di
quella che ci è stata consegnata, e non sarà sovvertito il principio che la
regge.
Potremo dolerci,
ma inutilmente, della sua falce: nell'ordine di tutte le cose è l'incessante
divenire che è vita e morte al contempo: vita che annulla la morte, e morte che
annulla la vita, in un continuo incontro di queste due polarità, in una
continua sintesi di esse che è trasformazione.
E l'unica cosa che potrà confortarci è solo il pensare che il divenire,
nell'universo, è eterno, e perciò nulla mai muore definitivamente, ma solo si
trasforma. Potrà così il credente pensare che dalla sua vita terrena nascerà
un'altra vita, una vita che finalmente ci tolga dal necessario soffrire di
questa terra, ivi compresa la sua caducità. E che il desiderio di vita, che
sempre alberga in noi, altro non sia che desiderio e speranza dell'eterno; non
sia che questa continua silente chiamata del divino a ciò cui tutte le cose
sono destinate, e per forza maggiore, convergono. E dunque, anche noi, alla
nostra Unità col tutto e alla nostra divinità. E l'adempimento di questa
chiamata, che tiene in sé questa grande promessa, è la speranza che sostiene la
nostra vita mortale, quella della nostra salvezza nella nuova dimensione
dell'eterno.
In questa
prospettiva, al di là dei momenti di angoscia che abbuiano la nostra anima, si
apriranno allora le Porte dell'Immenso, e per noi, forse, la vita non avrà più
fine. Così concludono i versi di Pardini, in una visione grandiosa, effusa in
sublime chiarità e bellezza e gioia, affresco
di una Parusia, in cui appaiono ampiamente
elargiti i doni di purezza, di saggezza e di grazia del nostro Creatore: “ Si
aprirono i cieli,/ la luce incoronò valli ed abissi,/ e tutto fu chiarore./
Caddero a pioggia gli angeli dall'alto,/ schioccarono le ali/ sugli spazi
mortali./ Si aprirono le tombe,/ la morte si redense in cherubino./ Dovunque fu
un abbraccio/ di fratelli, madri, padri;/ sugli avelli dei tanti cimiteri/
nacquero fiori; danzarono le anime/ rinate a nuova vita (...)” (Si aprirono
i cieli)
Rossella Cerniglia
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