sabato 23 maggio 2020

ADRIANA PEDICINI: "DIARIO SEMISERIO DI UNA QUARANTENA"


ADRIANA PEDICINI



DIARIO 
SEMISERIO DI UNA QUARANTENA


Adriana Pedicini,
collaboratrice di Lèucade

Nessuno immaginava che saremmo stati chiusi in casa per quaranta giorni, si fa per dire, perché i giorni sono stati molti di più da quando, per uno scherzo di Carnevale, il Carnevale non aveva potuto essere celebrato con i tradizionali riti e i carri allegorici, e le gigantesche maschere di cartapesta, avevano fatto mesto ritorno negli scantinati.
Noi almeno stavamo a casa. Altri, purtroppo, già nei letti d’ospedale a combattere una battaglia difficilissima e lunga. Né si immaginava quale esorbitante ondata di umani avrebbe invaso di lì a poco i luoghi deputati alle cure
Non sapevo come avrei affrontato il disagio di questa imprevedibile, ma rigorosa e necessaria prescrizione.
Ero un tipo a cui il tetto della casa sembrava gli piombasse addosso, o forse il fatto che il palazzo, pur distinto e signorile, era ubicato come nelle strettoie dei borghi medioevali, tra la strada, su cui insisteva di fronte un altro palazzo, e un campo di terra battuta su cui erano posizionate due tendostrutture per il tennis indoor e due campi per gli allenamenti outdoor, aumentava il senso di oppressione.
Naturale una sorta di claustrofobia che mi spingeva ad essere quanto più possibile fuori casa. Andavo in palestra, alla lezione di ballo, con molto piacere, un po’ meno a fare la spesa o a svolgere altre commissioni. E poi le passeggiate con mio marito per il Corso quando avevo voglia di incontrare gente, o lungo la pista ciclabile se ero in vena di praticare un vero e proprio allenamento.
E poi l’impegno associativo, che mi dava l’adrenalina giusta per impiegare con fervore le mie giornate a organizzare gli eventi culturali o ricreativi.
E lui, il mio compagno di vita, era contento di tutto ciò. Cioè, non avendo alcun motivo di dubitare di me, gioiva se io uscivo, non tanto per liberarsi di me sic et simpliciter, quanto perché il sapermi piacevolmente impegnata, gli consentiva di raggiungere quella sorta di atarassia che invece, avendo me tra i piedi, non gli sarebbe stata possibile, perché riluttante a essere coinvolto in conversazioni non di suo interesse.
Come avremmo fatto ora con la quarantena, costretti a stare in casa h. 24?
Prima della quarantena, la casa dove abitavamo con i figli, andati via essi, sembrava piccola per dare spazio ai nostri sguardi, per prendere fiato a pieni polmoni perché, ad ogni passo, ci ritrovavamo di fronte per entrare o uscire dall’uno all’altro ambiente, e non di rado si creava qualche ingorgo con l’inevitabile balletto dovuto all’incertezza dove si muovesse ciascuno di noi due, se a destra o a sinistra. Non erano rare le volte in cui ci dicevamo che la presenza dell’uno era ingombrante per l’altra e viceversa, ovviamente con una punta di ironia.
Ecco perché letteralmente fuggivo da casa appena potevo, sicura che, comunque, lui era in casa ad aspettarmi. Non sapeva stare senza di me. Ma neppure voleva seguirmi nei miei impegni, per così dire, sociali. Del resto non avevo bisogno, per mille motivi facilmente intuibili, di portare con me il marito come un trofeo alla cui luce illuminarmi, grazie al quale difendermi. Per l’una e l’altra cosa sapevo fare da sola, e non per sminuire lui, sia ben chiaro.
Tuttavia il problema esisteva e grande pure. Come avremmo fatto durante la quarantena a sopportarci in casa?
È vero, si dice che l’uomo è un animale di abitudine e gli bastano ventuno giorni per assumere nuove abitudini. Ok, ma si trattava pur sempre di quaranta giorni di rodaggio di convivenza in modalità “io resto a casa”.
Fu quasi istintivo far finta di nulla. E procedere come al solito.
Una volta svegli, io a letto ad attendere il caffè mentre mi aggiorno con i tg di tutte le reti affinché nessun particolare mi sfugga. E lui in cucina a preparare il caffè, doverosamente con la moka, perché le tanto acclamate moderne capsule di caffè per le macchine elettriche, a prescindere se sia vero o no che rilasciano plastica, non sono in grado di preparare un caffè buono e aromatico come fa la moka, soprattutto pensando che sono solita sorbirlo non zuccherato e allora, se non è buono. che gusto c’è a bere una tazzina di caffè?
Quindi relax ancora per un po’ a letto e poi via di corsa a fare qualche esercizio di ginnastica adattando sedie e tavoli a mo’ di attrezzi, niente di diverso, nello spirito immaginifico, dai fantastici cavallucci che da bambini eravamo soliti cavalcare con sedie e scope.
Lui, intanto, fatte le sue abluzioni, mi attende in cucina, dove, dopo aver fatto la doccia per non perdere l’abitudine alla cura della persona, mi reco a fare colazione con lui.
Mi vede ben pettinata, vestita, talvolta anche col rossetto sulle labbra, e mi chiede puntualmente: Ma vuoi uscire? sgranando gli occhi nel timore di ricevere una risposta affermativa.
“No, che dici, sono venuta a fare colazione con te, e voglio presentarmi decente”.
“Ah, ok…vuoi il tè, il succo di frutta, la spremuta d’arancia, la banana? E le fette biscottate le vuoi? Marmellata di mirtilli o di arancia amara?”.
Giuro, mi prende lo sgomento, perché lui è così, ti travolge con la sua generosità, ma mi toglie anche il respiro, anzi la possibilità di scelta perché se dico: “Ma ti sembra che io sia sciupata? Non ti sembra di esagerare?”, lascia tutto in asse e mi redarguisce: “Fa’ quello che ti pare”. Allora per non infrangere l’idillio…grazie di qua e grazie di là. E mangio, mangio, mangio fino al punto che dopo mi viene da piangere per essere stata debole e non aver scelto oculatamente una colazione sana per quantità e tipologia di alimenti.
Ma tant’è, siamo in quarantena e la psiche mia e sua cercano puntelli.
E sul cibo si trovano sempre quelli adatti e piacevoli.
Difatti dopo colazione il briefing: che mangiamo oggi?
Se dipendesse solo da lui stilerebbe un rigoroso piano settimanale di pietanze da cucinare, ma io sono solita rompergli le uova nel paniere, perché non mi piace il solito, voglio esperienze nuove da provare, perché non m’interessa il mangiare fine a se stesso, ma lo ritengo un mezzo per traghettare la noia e arrivare alla sponda della rilassatezza. Il cibo mette sempre d’accordo corpo e mente. I colori, le mescolanze, gli odori sono elementi essenziali del cibo e c’è bisogno, secondo me, anche delle lusinghe della scoperta, della novità. Dopo aver vagato nei campi elisi della fantasia con tanto di ricette di Giallo zafferano e simili reperite sullo smartphone, torniamo alla prosaica scelta di sempre: pasta o legumi? Legumi o verdura?
Quando ci riesco, cerco di sfuggire alle sue scelte per dissociarmi da pietanze troppo condite, con troppo sale per i miei gusti, ma se colgo sul suo viso la delusione per piatti separati, allora cedo e mi dichiaro felice della sua scelta. Anche perché tanto cucina lui.
Eh, sì, dopo quaranta anni di onorata carriera come multitasking, ho ceduto le armi, felice di un suo ritrovato interesse, una volta deposti quelli legati alla sua professione.
Gli è bastato poco per appassionarsi alla cucina, anche se mi chiama mille volte per chiedere consigli sui particolari che meglio arricchiscono le varie ricette, per poi disattenderli e fare di testa sua.
Dunque, tra la colazione e il pranzo, c’è un lasso di tempo che la quarantena ha preteso di colmare, pena il senso di frustrazione e di vuoto.
Cosa fare di meglio se non leggere e scrivere? Per la verità la lettura, almeno nei primi tempi è stata lettura di bollettini, articoli di giornali, riviste, pubblicazioni sui social di tutto ciò che fosse attinente all’epidemia prima, alla pandemia dopo, e ogni volta un ricevere lumi da questo o quello scienziato per poi rimanere delusa dalle lotte fratricide comminateci dalla tv tra gli stessi, un offendersi a vicenda, un accusarsi reciproco, chiamare in causa le Miss Italia alla cui anticamente comprovata incompetenza su qualsiasi argomento assimilare questo o quel luminare.
E va bene che ci sono i lavori domestici da svolgere. Ma di questo ci siamo occupati abbondantemente nei primi giorni della quarantena, pulendo, riordinando fin negli angoli più riposti. Abbiamo smontato cristalliere, tirato fuori i bicchieri notoriamente fragili e mai usati, svuotato cassetti, passato in rassegna gli abiti nell’armadio, occasione buona per smaltire quelli che “forse se dimagrisco, mi vanno bene”, conservandoli di anno in anno, di decennio in decennio ma mai più indossati.
Eh, sì perché la qualità di una volta non si trova più…per la verità neppure i modelli sono gli stessi.
Spalle strettissime o rialzate con le spalline doppissime, pantaloni senza garbo alcuno, magliette da scolarette in colori improbabili, benché marcate Fontana o Luisa Spagnoli, dichiaravano tutta l’età di chi le aveva indossate un tempo. Risultato: un enorme sacco di plastica nascosto dietro la porta, in attesa di depositarlo nei cassonetti gialli della raccolta quando sarà permesso. Ora non si può.
Dunque, la casa è stata sottoposta alle pulizie primaverili, poi a quelle pasquali e forse, anticipatamente, anche a quelle di piena estate.
Confesso che non sono stata attratta dalle foto poste sui social di pizze variopinte, di casatielli vari, di pastiere pasquali, di primi piatti tutti rigorosamente preparati con acqua e farina impastate né tanto meno ho preparato pane, panini, ciambelle e taralli. Un rifiuto totale di impasticciare. E dire che sono anche golosa ed estimatrice dell’handemade, ma sono troppo pigra per cimentarmi in tali prove. Però provo orgoglio legittimo per interposta persona, e cioè mia nipote di 10 anni, che, con caparbietà che ricorda la mia quando sono caparbia, ha prodotto baguette, cornetti e biscotti gocciole da sola, senza l’aiuta della mamma, e per di più alle dieci di sera mentre i suoi seguivano i programmi alla tv. Bravissima davvero. Ne hanno mangiato con soddisfazione.
Dunque, rientrata nella routine quotidiana la pulizia ordinaria della casa e della persona, presa la decisione circa il pranzo da preparare, mi aspetta la sedia nello studio di mio marito, dove mi sono rifugiata, non sostenendo più il senso di vuoto e di solitudine che avvertivo lavorando al pc nel mio studiolo. Vero, ho dovuto abbandonare le orchidee sistemate sul davanzale interno della finestra che accarezzavano il mio sguardo. Non si sono offese, visto che l’altro giorno una di esse ha prodotto una bellissima orchidea viola, il mio colore preferito.
Il pranzo è un rito, che poi proprio pranzo non lo si può chiamare, dato che consumiamo solo una pietanza. Il coprifuoco è tra le 12 e 12:30.
In ogni caso è un momento rilassante. Lui si bea delle sue paste e legumi o delle sue verdure variamente preparate, io della mia pasta, a giorni alterni, al pesto, al sugo, al burro oppure del mio riso in bianco con evo crudo e parmigiano.
Ciò che mi gusta di più, a conclusione del pasto, è una grossa arancia tagliata a pezzetti condita con olio che rimanda forse ai gusti mediterranei di cui condivido l’amore per l’agrodolce e per il miele.
Il pomeriggio è un lago, anzi un oceano in cui mi piace navigare con relax e con tanta voglia di creatività. Sarà per questioni bioritmiche ma il pomeriggio mi è parso sempre più rilassante che non le fervide ore mattutine.
Godo di più la casa, le mie attività di predilezione, le chiacchierate a telefono con mia sorella Tetta soprattutto.
Ogni giorno, dopo la siesta post prandiale, i nostri cellulari s’infervorano per gli aggiornamenti circa il covid 19, sui nostri figli e nipoti, ci soffermiamo sul “si stava meglio quando si stava peggio”, sui progetti che non potranno avere proiezioni superiori alle h.24, sui rischi e le possibilità per noi over di raggiungere la casa dei figli, sulle distanze da rispettare e sulla necessità forse di avere sempre un metro a portata di mano per effettuare le misure. Ovviamente è uno scherzo, perché anche l’occhio si abituerà a misurare. Rimane la delusione di non poter abbracciare figli e nipoti. Ma se farlo comporta il rischio per la salute, va bene, ce ne faremo una ragione.
 Dunque i pomeriggi di questa quarantena ha visto sorgere, su mio input, un gruppo di “scrivane”, tutte amiche e tutte appartenenti all’associazione di cui mi onoro di essere presidente, l’Università della terza età di Benevento.
L’invito, accolto con entusiasmo da tutte, è stato essenzialmente un invito a tener impegnata la mente, soprattutto per noi abituate al lavoro scolastico e quindi a essere concentrate nell’attività del leggere, scrivere, pensare, correggere, meditare, rettificare, ricostruire, valutare.
Insomma un’attività che, in questa quarantena, mirasse al migliorare i nostri giorni di clausura con quello che ci riesce meglio.
Chiaramente ci siamo inventate una storia che, a partire da un primo scritto, si è sviluppata con l’apporto indipendente di ciascuno di noi, salvo poi, come succede per ogni scrittura, tagliare, spostare, collegare, rifinire e soprattutto amalgamare dal punto di vista dello stile tutto il materiale prodotto. Operazione non semplice, per le caratteristiche stilistiche di ognuna di noi, che mi sono accollata con senso del dovere e con massimo scrupolo. Si è aggiunto poi al gruppo, per un fortuito caso, anche un giovane liceale che di buon grado ha accettato di ritagliarsi una sua porzione di scrittura.
A circa dieci giorni dal termine della quarantena, secondo le ultime dichiarazioni governative, il romanzo è terminato; si tratta ora di completare l’operazione di rifinitura e di amalgama. Ma ce la faremo.
Sicché l’angoscia, più che la noia, è stata fugata in modo creativo. Che poi il nostro romanzo non valga una cippa, non fa niente. Il fine giustifica i mezzi, o meglio la meta è nel viaggio.
A quest’ora del giorno, sono quasi le 14, aspetto che il sole arrivi sul balcone dello studio a illuminare i fiori che sono davvero splendidi, colorati delle tonalità che amo, il viola, l’arancione, il rosso, il giallo con le primule resistentissime, la camelia, le robuste rose e roselline, la dipladenia con la cascata di fiori, l’ibisco, il giacinto che da solo spande il profumo degno di quel che si dice che emani Padre Pio ai suoi protetti. L’animo si ricrea a guardare questo piccolo ma meraviglioso spettacolo della natura, e il mio corpo si crogiola ai caldi raggi del sole beneficiandosene la vitamina D, che alla mia età ogni tanto va giù. E il sole non è un bene solo per le ossa, ma, dicono, anche per l’umore. E sarà vero, perché alla luce io mi ricreo, sono un’altra, mi viene un entusiasmo incredibile.
A dir la verità, godo di un altro spicchio di natura incontaminata. Però mi arriva in foto, quella che il mio adorato figlio Nicola mi invia un giorno sì e uno no della Dormiente del Sannio, un gruppo montuoso che si staglia lontano nel cielo, in direzione del suo balcone di casa. Sa che io amo questi monti perché, nel paesino che si stende alle pendici come una roccaforte con caseggiati a terrazza, come appaiono da lontano, e l’immancabile campanile maiolicato della Chiesa madre, su imitazione dei tetti della chiesa amalfitane, è inscritta la mia nascita, lì sono coloro che mi hanno dato la vita e ora dormono il sonno eterno.
Non vedo l’ora che arrivi la fine del lockdown, la prima cosa che farò è recarmi, dopo la visita ai miei, in montagna, non a piedi certo, e inebriarmi del verde, dell’odore di mentuccia, di maggiorana, e, perché no, degli effluvi che da lontano si spandono delle deiezioni delle vacche. Tutte cose che sanno di vita, di buono, di umano.
Ora, invece, sono le 16. Nel torpore gradevole del pomeriggio, la tazzina del caffè ci fa compagnia nell’attesa del bollettino delle 18, appuntamento ormai fisso con i responsabili della protezione civile.
Ancora un paio d’ore di rilassatezza prima di immergersi nella complessità dei numeri dei contagiati, dei ricoverati, dei deceduti. Attendiamo con ansia che ci dicano che i morti sono scesi dal tetto incredibile di più di mille al giorno…Mille al giorno…e la maggior parte in Lombardia. Addirittura si vocifera che i morti abbiano già superato di 5 volte i caduti civili della seconda guerra mondiale. Assurdo!
Per risollevarmi, prendo il cellulare e cerco i video con il governatore della Campania, De Luca, grande imitatore di se stesso. Le sue colorite minacce a base di lanciafiamme, le sue similitudini a suon di cinghialoni desiderosi di fare jogging, fanno morire dal ridere. Al di là di ogni simpatia o antipatia politica, mi sembra il caso di concordare che i suoi interventi, un po’ troppo paternalistici per alcuni, hanno ottenuto l’effetto desiderato. Che poi è quello che conta. Sì, va bene, i cittadini sono stati responsabili per lo più, ma l’esortazione a comportamenti corretti andava fatta. Altrove sono stati assunti atteggiamenti diversi, stranamente disinvolti, consentiti aperitivi nelle strade principali delle città, in piena emergenza, e le conseguenze si sono viste.
Giunge il momento dell’informazione. Come coloro che si avvicinano con animo sospeso al giudice per ascoltare la sentenza, mio marito ed io avanziamo nel soggiorno. Io sdraiata sulla poltrona a dondolo, almeno lei mi distende, mio marito mezzo seduto su una sedia in stato di sicura compressione. Ancora le stesse cifre alte, ancora più alte, però si dice che il trend è cambiato, sta scendendo, ma ci vuole ancora tempo; in effetti si è fermi sul plateau, un po’ più del tempo previsto anzi, molto di più.
Mi ha fatto sempre sclerare questo fatto dei diagrammi, delle statistiche, delle previsioni fondate sugli andamenti algebrici. Sarà che sono un’umanista, e umanisti sono coloro che non capiscono un’acca di matematica, mi riesce assurdo pensare di poter entrare nel cervello di un virus, nella potenza di un’infiammazione, nelle capacità di resistenza di un corpo e trarre conclusioni apparentemente così certe. Preferisco non capire e credere che non sia vero nulla, altrimenti ci sarebbe da disperarsi.
Per fortuna talvolta anche le previsioni sballano, sicché la tanto attesa e temutissima epidemia al sud non si è verificata, e se non fosse stato per un focolaio d’infezione dovuto più alle scellerate decisioni o omissioni di un centro di riabilitazione, non avremmo avuto forse, nella mia città, nessun caso o pochissimi dei complessivi scarsi duecento contagi dichiarati finora. Concordo sul fatto che abbiamo evitato un disastro completo, un’ecatombe, date le scarse e inadeguate strutture ospedaliere, inadeguate anche nella routine sanitaria. Unica eccezione, a Napoli, il Cotugno, che ha riempito di livore gli sciocchi antagonisti, impegnati in una lurida e biasimevole denigrazione del sud, la parte d’Italia che, invece, in questa tragica vicenda, ha dato dei punti ai nordici. Lungi da me voler rinfocolare una squallida diatriba, che pure c’è stata, dappertutto nei programmi televisivi di varie reti, ma è una realtà che anche il New York Time e molti altre testate abbiano parlato del nosocomio napoletano, specializzato in malattie infettive, come il migliore al mondo.
Ancora una volta, sconfitti dalle notizie, ritorniamo nello studio, uno di fronte all’altro, io a continuare, per la mia parte, il romanzo a più mani, lui a leggere sul pc o a fare giochi di strategia. Per riposarmi di tanto in tanto ritorno al mio puzzle di 600 pezzi, dato che i programmi del caso sul pc non ne forniscono di più grandi.
Ci accompagna la musica classica di sottofondo che mio marito gusta attraverso le cuffie, non sapendo che, non so per quale marchingegno rotto, ascolto anch’io, mentre lui pensa di essere isolato. Non gli dico nulla, altrimenti mi priva dell’ascolto in contemporanea. Poi la musica classica mi piace, anche se talvolta riesce difficile alle mie orecchie, parendomi bella quella più nota o più orecchiabile.
“Per forza, sei ignorante in materia” mi ha sempre detto lui. Ma, dato che sono testarda, mi sono fatta piacere anche le musiche di Mahler, del resto è tutta una questione di abitudine. Certo, non vado oltre. Lui invece sa distinguere le partiture, gli strumenti, i suoni, le variazioni, la differenza di stile tra un maestro d’orchestra e un altro. Insomma un cultore, anche se è stonato come una campana.
Ironia della sorte questo pomeriggio stiamo ascoltando Il canto della terra di Mahler sottotitolato Symphonie fur eine tenor- und eine alt- (oder bariton-) Stimme und Orchester, su testi di poeti cinesi.
Cinesi? Di questi tempi parlare di cinesi è come gettare benzina sul fuoco. Eh, sì, la stupidaggine umana è grande, e, pur in mancanza di prove, tutti si esibiscono in elucubrazioni e scaricano i prodotti della loro mente sulle tastiere per riempirne i social. Tutti esperti di strategie politico-militari, di virologia, di laboratori, di contagi trasportati dai sedili di un areo o sulle onde del vento. Fatto sta che nella mia città, a parte qualche cinese canterino frequentante il locale Conservatorio, tutti gli altri sono scomparsi. Tanti negozi, dalle colorate lampade di carta colorata dai tipici disegni orientali, ondeggianti al vento, sono chiusi, mentre le lampade continuano ad ondeggiare solitarie. La caccia all’untore non è roba solo di manzoniana memoria, o, se vogliamo, delle narrazioni storiche di Tucidide. Un tentativo è stato fatto anche ora. Si è raccontato che le acque dei fiumi siano contagiate dal coronavirus, come si credeva che i pozzi di Atene fossero stati appositamente inquinati.
Che pena ascoltare in tv notizie controverse che ora avallano, ora contrastano le più incredibili invenzioni, di cui, addirittura, sembra siano artefici, consapevoli o no, persino gli scienziati, evidentemente di poca scienza, che fanno le veline in tv spesso e volentieri.
Però è diventata una vera e propria dipendenza fare zapping sui vari programmi la sera per cogliere l’ultimo dispaccio, l’ultima invenzione, l’ultimo collegamento dall’estero pe sapere cosa dica Trump o il rossiccio Johnson, gorgogliante come un donchisciotte, salvo poi ricredersi e proprio sulla sua pelle.
Il sole sta calando dietro i palazzi di fronte, il grigio tenue delle prime ombre s’insinua nell’animo, credo non solo a me. Lui si alza di scatto: “Che vogliamo cenare stasera?”.
“Io gradirei una pizza, non per la bontà, visto che sono quasi sempre poco digeribili e dichiaratamente frutto di impasti artificiali, ma per il senso di allegria che mi danno i colori mediterranei che poi sono quelli della bandiera italiana: bianco, rosso e verde, della mozzarella, del pomodoro e del basilico”.
Eh, no, non è possibile. Le pizzerie sono chiuse e di prepararla io non ho voglia, assolutamente. Potrei, forse, dare l’incarico a mia nipote di 10 anni, novella Cannavacciuolo. Meglio evitare lo sfruttamento minorile!
A proposito, mi ha inviato tramite suo padre, cioè mio figlio, i cornetti preparati ieri sera verso mezzanotte. Buonissimi, il sapore mi ha rimandato ai miei anni giovanili, quando non esisteva ancora il Mulino Bianco, ma avevamo a disposizione le brioche tonde o la treccia di pasta lievitata con lo zucchero sopra. Una delizia proustianamente gradita.
Per la seconda volta mio marito mi chiede cosa vogliamo mangiare a cena.
“Stasera mi va di andare in paninoteca”, gli rispondo sorridendo
Lui strabuzza gli occhi: “Ma ti senti bene?” mi fa
“Eh direi proprio di no. Mi sembra di soffocare. Concedimi almeno un po’ di felicità. Facciamo finta che accompagni Giovanni, Giorgia e Arianna in paninoteca a mangiare un hamburger con ketchup e patatine. Non sarà possibile nella realtà, e mi addolora non poterli vedere e abbracciare, ma almeno un po’ mi illudo di essere con loro mentre addento la polpetta di carne schiacciata”.
E difatti essere con loro, con i miei nipotini, anche mangiando, come usava dire una volta, solo pane e cipolla, darei in cambio un giorno della mia vita.
Non è bello vivere di illusioni, ma di sogni sì. E questo, stasera per me è l’unico sogno possibile.
Da ora in poi, quando ritorneremo alla vita di prima, li abituerò a stare in casa, magari con i nonni, a gustare insieme una cena frugale fatta di amore. Meglio di una cena artificiale ai fast food. Ma anch’essi, i locali della ristorazione, devono vivere. Chissà che non si riciclino e propongano alimenti mediterranei, dei nostri territori o come si dice a km zero, quelli delle nostre nonne. Sarebbe davvero un bel cambiamento, in nome della qualità e della salubrità degli alimenti.
Mi affaccio al balcone. È già sera inoltrata. Mi trattengo un bel po’, abbracciata da una coltre scura trapuntata di stelle. Mi piace ascoltare il silenzio. Quello notturno suggerisce tante cose. Una musica dolce soprattutto. Basta porgere orecchio.
Poi, vestita i panni di Rossella O’Hara, rientro, non prima di aver recitato con lei, come un mantra: domani è un altro giorno!








2 commenti:

  1. Adriana mia, amica antica e bella, ti ritrovo con questa lunga pagina di 'diario' di una pandemia, che immagino un pò reale e un pò romanzata, ma che senza ombra di dubbio rappresenta lo specchio dell'esistenza di milioni di italiani nel corso di quello che sono solita definire 'il fermo - vita'. Il tratto che appassiona è la levità, che stendi come balsamo sulla triste vicenda, pur mettendo in evidenza il dolore profondo per i lutti. Descrivi una vita casalinga che ruota intorno al cibo, allo zapping televisivo, ai rituali, che aiutano tutte le persone costrette alla clausura ad andare avanti. E aggiungi la scoperta di un nuovo fuoco creativo, che non tutti sono riusciti ad alimentare in quel tragico periodo. Si evince l'aspetto autobiografico del testo, Adriana mia, anche se da artista dotata di autentico nerbo narrativo, hai saputo dare connotati letterari al 'diario'. Nel tuo caso la coppia costretta a vivere insieme ventiquattro ore su ventiquattro si rafforza e sviluppa nuove forme di complicità. Purtroppo non per tutti è stato così... Leggerti è stato, come sempre, un'avventura coinvolgente; se il romanzo collettivo fosse stato realmente concepito, - come credo -, mi farebbe molto piacere gustarlo. Ti ringrazio e ti abbraccio con l'affetto che sai...

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  2. Carissima Maria, anima nobile e bella, che della letteratura fa pane quotidiano, scusami se solo oggi ho letto le tue dolcissime parole come sempre intrise di affetto e generoso giudizio. Certo, la narrazione è frutto anche di fantasia, non avendo per fortuna problemi tali che mi distogliessero dallo scrivere. Anche la creatura partorita da ben 6 persone é nata ed è in mano all'editore che ha definito il romanzo coinvolgente scritto molto bene e colto. Bontà sua. È stata un'avventura faticosa, un po' di più per me che ho dovuto amalgamare il tutto, però siamo siddisfatte. Appena sarà prono ti avviserò. Ci sarà nella versione ebook e cartacea. Ti abbraccio forte e grazie ancora. Adriana

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