Lucianna
Argentino, Il volo dell'allodola
Edizioni Segno, Tavagnacco (Udine), 2019
Come
altre volte avemmo modo di sottolineare, mai banale ma sempre attenta e
straordinariamente prossima la scrittura della cara Argentino che continua a
interrogarci nella lettura direttamente nelle corde e nei tendini di
un'esistenza che non si pronuncia mai sola ma che ha nella dimensione del noi
la piena della sacralità di ogni cosa e dell' io. Perché questa, ed è bene
sottolinearlo, che fa la differenza e dunque la sua bellezza a fronte degli
smarrimenti e delle negazioni di un'epoca in perdita. A questo ora più che mai
la riflessione è chiamata in cui ogni parola allora deve saper rispondere di
ciò che viene ad aggiungere o togliere al mondo. Infatti è a una questione di
custodia, di cura, di responsabilità che la poesia della Argentino invita; una
responsabilità ultima che ha nel dolore e nella solitudine di esistenze
bloccate il cuore di un percorso di consapevolezza e di guarigione che prende
corpo dall'aridità di uomini e donne in secca certo ma pur sempre ancora vive
nel dialogo con la propria ombra. La questione, affrontata alla radice, è così nella
preziosità e nella unicità cui ognuno, iscritto, è chiamato ad assolvere e
lontano dalla quale, dal nostro volto originario, si rischia come detto la
perdita nel buio di quei doni di cui ognuno è portatore. La nostra vita, il
nostro percorso è all'interno di una educazione all'ascolto (e a cui va dato
nutrimento) di quel sé profondo, non egoistico, della persona che vive con il
mondo, come Lucianna ricorda da Martin Buber e di cui il mondo stesso, per la
sua armonia, ha bisogno. Il libro allora muove nella direzione di una coscienza
che nel confronto con la Sacra Scrittura (cui la Argentino nella tensione
profondamente cristiana che la contraddistingue non può non rivolgersi) cerca
di distendere nel pieno di un'attualità riferita nell'eternità dei suoi
passaggi e delle sue chiamate, dei suoi stordimenti e delle sue cancellazioni. Così nel riferimento alla Genesi il la è dato
da due verbi e due domande a fondamento della nostra vita. E cioè, per quanto
riguarda le domande, "Dove sei?" rivolta ad Adamo ed Eva dopo aver
mangiato del frutto della conoscenza, e "Dov'è tuo fratello?" rivolta
a Caino dopo l'uccisione di Abele. Ad essi sono strettamente collegati i due
verbi coltivare e custodire (i primi che Dio non a caso affida
all'umanità posto l'uomo nel giardino dell'Eden) come forma di edificazione dell'essere su cui poggia e passa l'azione
di Bene del mondo (e di cui la stessa poesia non ne è che una continua
espressione). La struttura del testo allora si incentra su tre figure bibliche:
Abele, la samaritana, l'emorroissa. Un uomo dell'Antico Testamento e due donne
del Nuovo. Il primo dopo l'uccisione patita dal fratello in dialogo con la
madre, le altre due nel racconto monologico della propria ferita ed in
cui, come bene ci rammenta Gianni
Maritati nell'introduzione, il primo "ci riporta al big bang del peccato
originale, mentre le due donne ci ricordano l'acqua e il sangue, il battesimo e
il martirio". Ognuno nel trauma per cui son senza respiro, senza guida:
"l'omicidio, la solitudine, l'esclusione sociale, la disperazione" ed
il cui rinnovamento spirituale deve passare per l'incontro personale con
l'Altro nella ricomposizione delle proprie fratture.
Venendo
più approfonditamente nel dettaglio, partendo allora dal primo omonimo testo,
dedicato alla figura di Abele, singolare appare come nella rilettura la vicinanza
di questi alla madre, nel farsi carico
del suo dolore anche di fronte alle oscurità del fratello, finisce coll'
avvicinare proprio lui in qualche modo
(anche nel morire e Cristicamente rinascere della conclusione in voce di vinti-
e mai in odio al persecutore) alla figura della nuova Eva che ascolta, tiene
nel cuore, custodisce nella misura di una fragilità fortissima. Ciò ad avverare
dunque in sé quell'auspicio materno di essere plasmati di nuovo "così da
poterne fare un dono/e non un vincolo o un destino". Apertura di occhi
questa- a fronte di ogni chiusura- che non può non avvenire che per un
tirocinio oscuro, basso, tra le pieghe anche del Caino che ci appartiene
(ovviamente evitando facili manicheismi, Caino e Abele entrambi racchiusi in
noi) per determinarsi finalmente a quel luogo imprescindibile dell'io e
dell'altro dove Dio ha rimesso così "la possibilità della sua
presenza" che sta a noi portare sulla terra, "dargli dimora e farne
un pozzo" (rappresentando così la nostra magnificenza nel
"mandato" di testimonianza della difficile transitività"). Di
più , tra l'altro, intenso e interessante è in lui anche quel sentore insieme
di oscurità (di quella "accelerazione di corpi in caduta" che
ingoierà poi per sempre il fratello) e di bene immenso perso. Un'oscurità
intrecciata alla paura che, ricorda
l'autrice, ci fa piccoli e indifesi e quindi aggressivi e reprobi alla luce e
che, nella dinamica di Caino, si
intreccia nella scelta
quotidiana di un
male che può sovrastarci se
non nella vigilanza di un'attenzione e di un interrogarsi sempre:
questo balbettio "di chi sa dare un nome alle cose ma non sa fare
dialogo" che è in fondo la storia di tutti noi "dentro un silenzio
ostruito, colpevoli di disamore" a cui Abele contrappone al pieno della
cesta un cuore basso perché nessun fratello a nessun fratello sia di intralcio.
Così, nel primo insegnamento, riesce a mantener salva la sua innocenza,
preservando e dando direzione alla nostra per chi può intendere, giacchè- come ha
avuto modo di rilevare Alessandro Zaccuri in una lettura del testo- accogliendo
il colpo di Caino fa sì che il dolore come la speranza non sia vano.
Nel
seguente " È questa
l'ora", la storia della samaritana raccontata dalla protagonista in età
anziana, l'attenzione si incentra invece sul paradigma di una guarigione che
parte dal riconoscimento di una identità e di una dignità negata e per questo
ferita, bloccata nella radice di un anima e di un corpo ferme al momento di una
violazione che viene da lontano e accresciuta nella ripetizione di errori e
copioni che hanno poi finito col dare disappartenenza e perdita.
L'acqua nuova che viene a togliere la sete per sempre è allora quell'acqua,
quella parola che sa riportare e innalzare la donna agli occhi di se stessa,
creatura d'amore nata per il canto e per la danza, per la gioia di una vita
prossima perché condivisa entro una medesima storia, di luoghi di nuovo anche grazie
a lei partoriti (donna sterile, donna di tanti mariti, passata alla storia
senza nome) nell'annuncio dell'incontro con l'uomo del pozzo. Uomo la cui
guarigione ha la rivelazione di un annuncio e di un effetto di salvezza che
parte dagli ultimi, come nel suo caso, e dunque per questo profeta, Messia
nella beatitudine di un percorso e di una esclusione riattraversata e ascoltata
a partire dalla sua propria offesa. A risalire allora dalla donna dell'ora
sesta è lo sguardo risanato di una vita che raccontandosi comprende (rimemorando
e avanzando, retrocedendo e nonostante tutto conservando nel canto di nostalgia
poi liberato) "quel luogo
intatto" annunciato nella sua risonanza sacra, come da Scrittura, dalla
grazia del sogno. Perché è appunto questo il crinale in cui il dialogo tra
l'uomo e il divino può sciogliersi o meno, nella custodia di "una nudità
necessaria" (il sapere anche oscuramente dove si è e da chi si é) toccati
e illuminati entro una innocenza che più non si copre e si nasconde, restituiti
al giardino non sopraffatti, non ripudiati, non vinti ma finalmente nuovi nella
consapevolezza di un destino di figli eternamente desiderati e amati.
Infine
nell'ultimo testo, "Di nuovo io, ancora più me stessa" nella sua vicenda
l'emorroissa rimemora la ricomposizione di un anima e di un corpo bloccate da
una perdita di sangue, "da una diga rotta", che per dodici anni l'ha
resa nella sua condizione di impura, una reietta e una ripudiata prima dal
marito e dalla famiglia, dai figli e poi dalla comunità senza nessun medico capace di darle cura. Anche in
questo caso come in quello della samaritana la Argentino ci dà coscienza,
tramite tappe interiori scandite poi nelle dinamiche d'azione, del processo di
guarigione e consapevolezza di una creatura riportata a se stessa ancora grazie
alla capacità di aver saputo mantenere nella solitudine il dialogo colla parte
di luce, la parte ancora fremente, la
parte di creazione, il filo non sciolto ma pazientemente, sapientemente sempre annodato
al suo Signore. Così è che di nuovo nel canto si risolve uno dei momenti più
intensi e significativi del libro, l'intonazione della donna levata a dare al
dolore e alla solitudine il suo risvolto di risonanza entro
una natura che sa mischiare nelle sue voci il ritorno stesso di Dio nel
controcanto di un desiderio di creazione che non cessa mai di alimentarci
alimentandosi. Di qui, a rompere l'argine, dal mercante (non giudeo ma greco e
forse non a caso in una parola che abbraccia tutti) la conoscenza della
predicazione e delle guarigioni di Cristo, la sequela e il coraggio di provare
solo a toccarlo per essere guarita. E ancora come nel caso precedente
l'incontro col Salvatore riportato per brevi, essenziali, lapidali tratti: il
tocco, il senso di combustione e di rinascita immediata dalle ceneri. E poi,
come in un'onda, l'ammissione a Cristo del contatto, il suo riconoscerla figlia
e di benedizione e trasmissione nel segno dell'amore (il solo tesoro che qui
abbiamo e sul quale saremo giudicati). Che è la consegna del Figlio sulla terra
riguadagnati come lei nel corpo e nell'anima alla identità sana, e libera del nostro essere donne ed uomini cui
dobbiamo pertanto reciprocità e custodia nell'educazione ad uno sguardo che ci
viene dall'interno di un progetto appunto d'amore e di continua e comune rinascita.
Con questa consegna chiudiamo qui la nostra lettura aggiungendo soltanto della
forza di una scrittura mai doma giacché femmina e dunque sapientemente
incardinata alla luce di una fertilità avanzante, circolante e reclamante dal
buio delle sue sconnessioni, di una umanità mai del tutto arresa e riportata
con maestria nell'eco di una parola da cui tutto ha origine.
Nota
bio-bibliografica del recensore
Gian
Piero Stefanoni è nato a Roma nel 1967,
laureato in Lettere moderne, ha esordito nel 1999 con la raccolta In suo
corpo vivo (Arlem edizioni, Roma) vincendo nello stesso anno, per la sezione
poesia in lingua italiana, il premio internazionale di Thionville
(Francia) e nel 2001, per l’opera prima,
il “Vincenzo Maria Rippo” del Comune di Spoleto. Nel 2008 ha pubblicato Geografia del mattino e altre poesie
(Gazebo , Firenze) a cui son seguiti nel
2011 Roma delle distanze (Joker, Novi
Ligure) e gli ebooks La stortura della ragione (Clepsydra, Milano) e Quaderno di Grecia (Larecherche.it, Roma). Nel 2014 ancora per i
tipi della Gazebo è uscito Da questo mare
(includente l’omonimo poemetto già nel 2013 in ebook per LaRecherche.it ed il canto
pasquale L'amore che ti manca edito
nella sua prima versione per la cura delle Edizioni d'arte Musidora di Nina
Maroccolo- fuori commercio, ed ora presso la biblioteca della Galleria
Nazionale di Arte Moderna di Roma). Ancora in ebook è La tua
destra (LaRecherche.it, 2015), come il saggio sulla poesia in dialetto
della provincia di Chieti La terra che
snida ai perdoni (LaRecherche.it,2017). Nel 2019 per la collana aperilibri
della Cofine edizioni (Roma) ha pubblicato Lunamajella
e in ebook la raccolta Il calciatore
è n fingitore (LaRecherche.it.)
Presente
in volumi antologici, tra i quali La
poesia dell’esilio (Arlem, Roma 1998), Dai
parchi letterari ai poeti contemporanei (Edizioni Arte Scrittura, Roma
2009), S’impalpiti materia-Omaggio a
Manzù (Edizioni d’arte Musidora, Roma, 2011- fuori commercio, copia presso
la Raccolta Manzù di Ardea), e L’evoluzione
delle ultime forme poetiche (Kairòs, Napoli, 2013) suoi testi sono apparsi
su diversi periodici specializzati e sono stati pubblicati in Argentina,
Spagna, Malta, Grecia e Francia.
Già
collaboratore con “Pietraserena” e “Viaggiando in autostrada” è stato redattore
della rivista di letteratura multiculturale “Caffè” e, per la poesia, della rivista teatrale
“Tempi moderni”. Dal 2013 sempre per la poesia è recensore di poesia per
LaRecherche.it e dal 2014 giurato del
Premio "Il giardino di Babuk- Proust en Italie".
Tra
i riconoscimenti ama ricordare i premi per l'inedito “Via di Ripetta” e “Dario
Bellezza” entrambi nel 1997.
Grazie dolce Nazario per la tua affinità e prossimità che ci affratella sempre. È sempre un piacere, una gioia per me condividere qui i nostri percorsi. Ti abbraccio, Gian Piero
RispondiEliminaGian Piero Stefanoni con la sua capacità di penetrare nella scrittura altrui ha arricchito con questa sua puntuale analisi "Il volo dell'allodola" andando a centrare per ognuno dei tre testi il suo precipuo senso. Grazie. E un grazie a Nazario Pardini sempre generoso ospite.
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