Sonia Giovannetti legge: “La
parola detta” di Stefania Di Lino.
Poesie. La Vita Felice.
Sonia Giovannetti, collaboratrice di Lèucade |
Per
quanto io ami la parola, per quanto la rispetti e per quanto m’impegni a
collocarla nel luogo che le compete, sono anche consapevole che non sempre si
riesce a dare espressione verbale all’emozione che si prova davanti ad un bel
libro di poesie, come nel caso della “Parola detta”.
Inizio
dalla forma. Originalissima. L’opera appare come un poema, le poesie non hanno
titolo, i versi non sono separati da un “a capo” ma fatti scorrere,
accompagnando il lettore, per le pause di lettura, da barre singole o doppie.
Ogni poesia termina con una virgola e quella successiva, di conseguenza, non ha
la maiuscola e spesso inizia con una congiunzione proprio ad indicare un non termine,
un “continuum”. Talvolta si aggiungono tra parentesi dei versi ulteriori,
pensieri, commenti. In questo viaggio nella parola ci si perde per ritrovarsi.
In questo “movimento” c’è l’origine della poesia. Parlo di poesia vera, di
quella che non è un mero esercizio di scrittura, un puro accostamento di
sillabe, uno sfoggio compiaciuto della propria conoscenza; parlo di
quell’“ascia che rompe il mare di ghiaccio che è dentro di noi”, citando Kafka.
Parlo di quel dolore sommerso dentro l’uomo e che il poeta - proprio perché
poeta - fa suo, condividendolo con chi ha il dono dell’attenzione, del sentire
la vita che freme, con chi vuole Essere, non solo esistere, e che agogna a
sentirsi vivo. Parlo di quelle parole che ci svegliano “come un pugno che ci martella sul cranio”, sempre riprendendo
Kafka e quel suo libro “ascia” che restituisce la giusta dignità alla parola;
la parola detta, finalmente, come una cosa “di senso” che ci definisce e ci
disorienta perché chiede la responsabilità dell’essere umani. Leggendo
quest’opera mi sono imbattuta in questa “responsabilità”, entrando in un mondo
poetico autentico e onesto. Ci tengo a precisarlo, perché è proprio
l’autenticità - e quindi la libertà di rivelarsi per come si è - a definire un
poeta.
Stefania
Di Lino scrive versi autentici, liberi e anche sovversivi. I poeti si rivelano
sovente spiriti sovversivi perché, incuranti degli effetti spesso dirompenti
del loro dire, ascoltano la parte più vera del loro essere e ne fanno dono.
“La
parola detta” è un’opera densa di pathos e, al tempo stesso, di ragione; per
questo oso definirla un’opera di coscienza e di conoscenza. Un tributo alla
parola.
“Le
parole sono tenere cose, da trattare con cura” scriveva Pavese nel suo
bell’articolo apparso sull’Unità nel ’45: “Ritorno all’uomo”.
Ecco,
nella poesia di Stefania, oltre alla cura per la parola, per la “conoscenza” a
cui accennavo, c’è la “coscienza” del ritorno all’uomo, alla sua umanità e ai
suoi sentimenti. La cura della parola detta/scritta, appare cura dell’uomo, avvertita
anche come un bisogno di protezione. E la poetessa lo afferma come madre che
scrive ai figli con poesie dedicate, lo dichiara la figlia che scrive alla
madre, lo asserisce la poetessa che scrive ai poeti. Tutto questo è tenuto
insieme dalla convinzione che “i
versi non sono sentimenti, che si acquistano precocemente, sono esperienze”,
come ci ricorda Rilke.
La
parola detta è tenuta in vita e vive, con “quel
suono di continua allerta”, anche nei confronti di chi non è più vicino;
equivale ad un compito, quello di mantenere consapevolmente un contatto con il
mondo che è sotto e sopra di noi, da sostenere anche in solitudine, come
testimoniato a p. 84: “l’esercizio
transitorio di chi rimane/ è parlare con i morti/ e allora escono dalle labbra
appena mosse/ sillabe sfiorate/ bisbigli fruscii/ alfabeti contrari e ritorti/
e nidi d’api a ronzare nelle orecchie/ quel suono di continua allerta/ e allora
girano gli occhi bianchi rivolti dentro/ stridio acuto/ stiramento/ è l’urlo
abnorme di un legamento lento/ che lascia rotolare/ in ordine di apparizione le
ossa/ e allora chiami a raccolta/ i nomi precedi/ chiedi a voce alta se c’è
qualcuno,”
I
veri poeti, infatti, sanno leggere ciò che per gli altri è indecifrabile, hanno
confidenza e sovente dialogano con ciò che è oltre il visibile. Una verticalità che tende ad unire la terra al cielo,
il corpo allo spirito che diviene così il maturo, prevalente soggetto di questa
silloge. Un viaggio dal sensibile al trascendente, il cui esito è
tuttavia il ritorno alle radici e a quella sua particolare, potente metafora
dell’esistenza. Testimoniato anche dal legame con la natura, descritta con
infinita bellezza anche per la varietà degli
elementi che ne dipingono il molteplice affresco e la nostra appartenenza ad
essa.
Afferma, infatti, con accenti lirici la poetessa: “si nasce tutti dal bosco, sapete, e là si torna perché è la terra a
chiamare” (p. 83) che trascrivo per intero:
“ là c’erano/ e si udivano/ tra i rami
colmi di notte/ attraverso foglie che tremavano/ antichi passi guerrieri/ e
rumori di ossa/ - si nasce tutti dal bosco, sapete, e là si torna/ perché è la
terra a chiamare/ - una foglia al vento il suono modulava -/ e poi il sole tra
i rami/ epifanie abbaglianti/ dal becco in volo gli uccelli/ è nudo il percorso
- diceva -/ è asperità che abrade il ventre delle serpi/ e radici sotterranee/
rabdomanti della salvezza/ cercano/ stringono forte/ legano,”.
Una
parola salvifica, di speranza, che la terra, nel suo apparente mutismo, dona a
chi la ascolta e la osserva con attenzione.
Una
parola che sa anche essere ‘farmacon’ (p. 22): “se fosse contenere il tuo parlare/ esperienza le parole spese/ se solo
tu scrivessi col tuo sangue/ che sgorga da un dolore che non passa/ sarebbe
altro parlare/ certo/ altro scrivere sarebbe//
se le parole fossero surrogato/
medicamento elaborato/ di ferite leccate lenite/ - come fa un cane con le sue
ferite - / se scrivere fosse sempre prelevare/ cellule dal nerbo osseo
centrale/ lembi sanguinolenti/ dalla propria spina dorsale/ i versi sarebbero
salvezza, unguento/ diventerebbero certezza, medicamento,”.
La
stessa parola, anche sotto forma d’invocazione, Stefania di Lino rivolge alla
divinità, ancorché immaginata e non identificata, che osserva i “poeti spoetati”. La poetessa chiede pietà
per loro (p. 66):
“abbi pietà di loro/ mi dico abbi pietà/ sono
scoperti/ non sempre sanno perché lo fanno/ non sempre sanno quel che dicono o
scrivono/ e perché lo dicono/ e perché lo scrivono/ ma si contentano/ i poeti
spoetati/ a loro basta essere bagnati/ dalla lusinga di una finta luna/ per
dimenticare la gamma di odiati scuri/ e il nero corvino/ il forte contrasto che
unisce da sempre/ l’ombra alla luce, “.
Stefania
Di Lino, invece, si tuffa nel mistero che ruota intorno alla poesia e si lascia
incantare dalla “voce della pazza
raccoglitrice di stelle cadenti…”, a testimonianza di qualcosa di sacro e
musicale che la ammalia (p.30):
“questa notte echeggia un canto/
dall’oscuro profilo di questi monti giganti/ che si parano silenziosi/ vicini
davanti eppure/distanti (son tanti) la senti?/ È la voce della pazza/
raccoglitrice di stelle cadenti/ che intreccia reti di spini/ con aghi di pini
con rami/ di abeti e di salici piangenti/ dimmi la senti?/ Ha piccole mani
grandi/ adatte al grande gioco/ e la bocca di fuoco generosa in cui dal Nord/
si scaldano i venti/ dimmi la senti?/ C’è un cane che passa e abbaia alla
luna,”.
Metafora
intelligente per ricordarci, in qualche modo, la “Follia” ispiratrice
dell’arte, la stessa decantata da Erasmo da Rotterdam, più di 500 anni fa, nel
suo celebre “Elogio”, quel ‘fuoco sacro’ della creatività, della curiosità,
dell’esplorazione di noi stessi, che ci permette di toglierci la maschera che
ci imponiamo tutti i giorni, per poter volare liberamente, come ogni vero
poeta, come ogni artista, nel cielo dell’ autenticità.
Poesia
autentica dunque, matura, pensata, scritta da una poetessa che non si lascia
semplicemente attrarre dal mistero, principio genetico della poesia, ma anche
lo penetra intuitivamente fino a svelarlo nel divenire, con la consapevolezza
del legame tra il mistero stesso e la scrittura (p. 88): “si scrive / fino all’esaurimento del mistero: / per questo / e per
altro ancora / si scriverà per sempre”.
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Stefania Di Lino vive a Roma, è poetessa e
artista visiva. Allieva dello scultore Pericle Fazzini, e del poeta, critico
d’arte Cesare Vivaldi, presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, si specializza
alla Calcografia Nazionale del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, e si
abilita all’Insegnamento per i Licei, occupandosi anche di formazione. Espone i
suoi lavori dal 1989, in gallerie private e luoghi istituzionali, con mostre
personali e collettive. È promotrice culturale, ideatrice e curatrice di
esposizioni e incontri poetico/letterari. È presente
in numerose antologie e riviste letterarie. Ha pubblicato: Percorsi di vetro (2012)
De-Comporre Edizioni; La parola
detta (2017) La
Vita Felice.
Estremamente grata a Sonia Giovannetti per questa nota di lettura così sapiente, attenta e profonda, in grado di eviscerare con delicatezza ed eleganza, il nucleo dei miei versi, e raccontarli.
RispondiEliminaUn ringraziamento sentito anche al prof. Nazario Pardini per la sua gentile ospitalità. Stefania Di Lino
E' un po' che sono assente dal blog, per difficoltà inerenti il mio lavoro, e spero di poter recuperare quanto prima il tempo perduto. Leggo con compiacimento e ammirazione questa sapiente nota di Sonia, rapito dal modo in cui lei parla dell'autenticità e della sacralità della poesia. Mio malgrado, non conosco la produzione di Stefania, ma i versi riportati mi trascinano in un flusso di poesia che la dicono lunga sul modo di concepire la stessa come ispirazione e mistero, senza nulla togliere all'enorme rilevanza del lavoro sul linguaggio che ogni atto creativo impone. Mi complimento vivamente con le due amiche, nella speranza di poter approfondire la poetica di Stefania in futuro.
RispondiEliminaFranco Campegiani