lunedì 1 luglio 2019

NAZARIO P. LEGGE: "PENELOPE" DI ROSSELLA CERNIGLIA

Rossella Cerniglia,
collaboratrice di Lèucade


Rossella Cerniglia. Penelope e altre poesie. Campanotto Editore, 2009

PREAMBOLO

(…)
Conta i suoi giorni Penelope lentamente,
lentamente fumigare come incenso,
tra le mura di casa, fiamma vana,
sterile fuoco che si consuma solo


Poesia onesta, schietta, vibrante, intensa, che, con tutti i suoi scarti sinestetico-allusivi, accompagna e vivacizza i processi ontologici del testo. Un modo di fare poesia scavando e ricercando; è qui il focus della poetica di Rossella Cerniglia. La sua visione del poièin è chiara e coinvolgente: ella tesse una trama tutto attorno ad un mondo unito e compatto; non intende frammentare, dividere, segmentare, ma unire in un unico afflato partecipativo. Si sfronta con il modernismo o post-modernismo teso alla frammentazione.   Sta qui la sua intelligenza critica, il suo pensiero etico-filosofico, emotivo-creativo. I suoi versi sono vòlti a concretizzare un animo zeppo di motivazioni umane; di cose da dire; di concetti da esternare. Ella ama, studia, scompone e ricompone i tasselli di un puzzle  a ché tutti riprendano il loro posto in un quadro di forte impatto simbolico. Totale. E’ il percorso che si rivela arduo e razionale, filosofico e poetico insieme. Eccola  l’organicità del suo mondo. Non è di certo una poesia sperimentale, la sua; ma attiva e fattiva, ha le idee ben chiare: ama fare del passato la soglia del futuro. Direi con  T. S. Eliot: “Il tempo presente e il tempo passato sono forse presenti nel tempo futuro”. Spiritualità, sentimento, storia personale, vicissitudini memoriali, mito e attualizzazione sono il substrato del suo canto; la miccia del fuoco. La poesia deve emozionare coi suoi ritmi sinfonici, deve parlare di noi, del nostro esser-ci, delle ferite, e delle gioie che la vita ci propone continuamente. Non è concepibile una poesia amorfa, disgiunta dalle epigrammatiche vicende. Ma quello che la Nostra fa va ben oltre: riesce coi fremiti del suo  poema a tramutare i personali tragitti  in universali sentieri. La sua è una confessione sincera e spontanea di palpiti ontici che riguardano tutti noi; tutti noi umani che, disuniti, dobbiamo compattarci verso mete di improbabili soluzioni.  Sta qui l’essenza del suo poema. E’ cosciente della esiguità della sua vicenda, della nostra, e non si apparta, ma si aggiunge compatta ad un tutto che soffre e si inquieta di fronte all’idea del sempre e del mai. Questo libro della Cerniglia è un dono di preziosa valenza per penetrare nei suoi giochi esistenziali: la prosodia dà segno di padronanza lessicale e connessione col mondo della poesia. I versi si alternano da più brevi a più ampi per stare dietro al dettato dell’animo. Una successione altalenante di un  grafico consono al sentire: “E nel mutamento le cose si riposano” afferma Eraclito. Una penetrazione psicanalitico-naturalistica che ritratta con icasticità la sorte umana senza cadere mai nella palude dello psicologismo; dello sfogo deteriore e decadente, dacché sono gli argini ben strutturati a evitare le esondazioni del sentimento.   Sta qui il leitmotiv che lega tra loro gli intenti poetici della Cerniglia: riflessione, memoriale, storia, sentimento, senso del tempus fugit, fuga verso ambiti edenici per sopperire alle aporie del quotidiano; e ricerca continua di se stessa e di un verbo capace di contenere tanta energia speculativa. Osserva, sorveglia,  con scrupolo analitico, tutto l’ensemble che fa da cornice alla vita degli umani; e lo fa con un realismo lirico che tanto l’avvicina allo stile capassiano, affidandosi, anche, a riflessi panici che si umanizzano, quasi dannunzianamente,  nel loro apporto figurativo. Questi sono i punti cardinali del suo percorso, pur mantenendo ogni sua opera l’unicità che contraddistingue il carattere inequivocabile di ogni creazione: la ricerca di un unum che riporti all’origine della grandezza divina “Un’attesa di vivere la vita, un’attesa che il suo destino, quello di incontrare la sua metà, si adempia.”, come scrive l’Autrice.

NOTA CRITICA

Rossella Cerniglia, novella Penelope, affida la sua mitopoietica ricerca a versi di classica architettura che niente hanno a che vedere con le vane sperimentazioni di positura prosastica che tanto si allontanano dalla vera poesia; da quella che la Poetessa ama e alla quale affida ogni su ontologico pensiero: emozioni, inquietudini, coscienza della precarietà del tempo, fuga verso isole irraggiungibili, sogni, attesa, nostoi, unione, verticalità e orizzontalità; un Ulisse che naviga in acque turbolente e nemiche, di un navigante che, idealizzato nella struttura epigrammatica del poema, si fa uomo indefinito,  attuale, presente, moderno con tutti gli scarti emotivi che comporta; “… un amore  incondizionato… trasferito su una figura maschile, quella d’un amante ideale, mentre la situazione che si profilava sullo sfondo sembrava richiamarsi all’eterna vicenda dell’uomo e della donna di tutti i tempi” (da  uno scritto dell’Autrice).   E’ così che  la novella Penelope si fa moderna e attuale; più pronta, spiritualmente, ad una navigazione che ferma in un’Itaca ad attendere. Non è questo il ruolo dell’odisseica itacense; non  è quello di stare a combattere tra Proci invasori, aspiranti alla sua mano; non è staticità la sua; immobilità; attesa passiva; ma aspirazione attiva; fattiva circolazione di emozioni che si incuneano nel suo animo rendendolo proteiforme; insoddisfatto di una narrazione  che chiude l’ultimo capitolo con abbracci ed incontri. Tutto è da definire; tutto è in fieri; tutto è proseguimento come richiede la poesia; e la Nostra si imbarca, con la mente e l’animo, sul vascello delle sue memorie in cerca dell’isola che niente ha a che vedere con Itaca; con approdi di quietezza e soluzione. Soluzione sì, ma vista come: “Una Penelope votata ad una vita tutta interiore, contemplativa, una vita che è dell’anima, che appare, all’esterno, passiva e immobile, o la cui mobilità è di vivere la vita, un’attesa il cui destino si adempia… Una Penelope in cui il vivere non è, in realtà, un’autentica vita, ma un’attesa di vivere la vita, un’attesa il cui destino- quello di incontrare la sua metà- si adempia… Ma la vicenda di Penelope non stigmatizza solo una visione unilaterale, solo mia. Le due metà…. Uomo e donna congiunti, rappresentano il corrispettivo umano dell’Unità e  perfezione divina…” (scrive la Poetessa).    D’altronde la voce del suo  canto è chiara e lampante: anche se il molo  le è consono, è là, imperterrita e pronta alla fuga mentale, davanti all’orizzonte della pura immensità. Tanta motivazione esistenziale, tanto volo oltre, comportano versi dove troneggia, non di rado, il maestoso endecasillabo a richiamare il passato in una connessione diacronica con il presente:

 “Ho dentro il cuore lo spento/ focolare, la casa lontana/come le cose spente del passato,/ anche se in essa vivo, vegetando/ come pianta di un giardino/ abbandonato…”.  

In quarta si legge una struttura poematica con tanto di interpunzione a centro verso, con    emistichi a maiore e a minore, e endecasillabi in tutte le salse, quasi a mettere in evidenza il rapporto che la Cerniglia ha con la poesia: equilibrio, compattezza statuaria, epicità della forma, a fare da argine a tanta effusione esistenziale; a tanto sentire vicissitudinale che ci dice della vita, del suo correre, “dell’umana necessità  fatta persona”:

Io, Penelope, qui, da sempre, attendo:
da secoli senza nome, tanto che
alcuno dice che io sono l’attesa,
il concreto atto, l’umana necessità
fatta persona. E così via. Ma  non v’è
attesa in chi voracemente inghiotte
e rigurgita la vita. Io resisto
ai suoi margini. Io, solamente,
attendo. Il molo mi è consono,
lo stare di vedetta e lo scrutare
l’orizzonte della pura immensità.

Scrutare l’orizzonte è come intravedere la sagoma di un porto a cui ognuno di noi intende approdare. Si sa che l’uomo per natura, essendo insoddisfatto della sua precarietà, vorrebbe ovviare a questo stato di disagio, intraprendendo un nostos tanto improbabile quanto impossibile. E la Poetessa scruta l’orizzonte per captare quell’immensità di cui si sente parte; infinitesima parte. E’ là che vorrebbe portare la sua soma, il bagaglio delle memorie, l’entità del suo esistere; in quell’isola che esiste solo nella sua ricerca, nella sua immaginazione di Poetessa; un’immaginazione che nutre il serbatoio del suo canto: l’inerzia velenosa, eterne odissee cerebrali, la vela lontana, ignote parole, lo spento focolare, la pura immensità, la misera Penelope, greggia materia, sogno naufragato,  mio lontano cuore, irraggiungibile allo sguardo, sarà solo la morte, lunga notte, trasparente morte il  mare, l’oscuro andare, una fievole luce, mistero eterna luce, odorosi sentieri, scontento senza nome, in pura gioia la bellezza?. Tre le sezioni della silloge editata per i caratteri di Campanotto Editore: Penelope, la prima; Ulisse, la seconda; Altre poesie la terza, tenute insieme da un leitmotiv che nel substrato della versificazione si fa tema conduttore da opera lirica. Un filo rosso che si offre come visione filosofica dell’Autrice:

(…)
Così Penelope va per la pianura
osservando le cime dei bei colli,
i santuari spenti, non più            
santi, con le luci defunte
d’un vecchio teatro ormai disarmo,
celato nella quiete polverosa
  
Una staticità innaturale quella della Nostra, tutta volta ad una luce che la chiama; che la invita a superare i limiti del suo esistere, il nulla, l’assenza. Tutto finisce in questo mondo, tanto vale consumarci o rinnovarci nel  viaggio vero la Bellezza, pur cosciente, la Nostra, della insufficienza delle proprie ali per un così arduo volo:

(…)
E le ali mi mancano per potere
volare e il labirinto infecondo resiste
e una fievole luce lontana mi chiama…

Questa la Cerniglia, il suo dilemma esistenziale, la simbiotica fusione dei contrappesi, l’equilibrio classico delle forme: questa la filosofia del suo poema; sta qui, nella ricerca continua del bello, in tutti gli interrogativi irrisolvibili che la vita ci pone davanti, e che lei cerca di risolvere avventurando lo sguardo oltre il limite della sua venuta;  ove “… la vita rimane, come in una mia poesia Il vascello, l’immagine di   questo maestoso veliero che scivola via, lentamente, davanti allo sguardo interiore, mentre la brama di partire, di vivere la vita, diviene rinuncia e rimpianto… (… E già rimpianto è  la brama di partire)”.

Quando camminerai insieme agli uomini, compagno
o compagna dell’ebbrezza, quando la dirompente
tua fermezza frantumerà i cuori di carne
trasformando in pura la bellezza?      

Dove Ulisse scontento va, visitando le terre e il nero mare, dove gli preme tornare, là dove si attende; ma sempre pronto a ripartire con quella voglia umana di scoprire, a costo della vita; dove tutto è diviso, scisso il dolore come vollero gli dèi. Sarà solo la morte la fine dell’attesa e del cammino, a riunire “quanto è disperso nell’oceano vasto”:

(…)
Ma altra è la  mia natura. Sempre scontento
vado, visitando le terre e il nero mare,
sempre il tornare mi preme là dove so
si attende. Tutto è diviso. Scisso è,
o Penelope, il mio dal tuo dolore.
Così per gli uomini vollero gli dèi
gelosi d’una diversa sorte. Sarà solo
la morte, la fine dell’attesa e del cammino,
che finalmente porterà vicino
quanto è disperso nell’oceano vasto (Il cammino, pg. 43).
     
Quell’unum  di cui la scrittrice è in cerca, dove morte e vita si completano per l’unità divina: un maestoso veliero che scivola via, davanti allo sguardo interiore, mentre la  brama di partire – di vivere la vita – diviene rinuncia e rimpianto:

Davanti a me, sul mio occhio interiore
passa il vascello silenzioso, immenso.
Con la bellezza enigmatica
delle cose superbe, indifferenti,
così leggero scivola sullo stupore muto.
Passa e mi sfiora il suo ricurvo fianco.
La vita? Solo visione, visione silenziosa.
E già rimpianto è la brama di partire. (Il vascello).

Nazario Pardini   

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