Guido Zavanone: Lo sciame delle parole. Poesia
di una vita. Interlinea Edizioni. Novara. 2015. Una vita di poesia.
Mi è giunto
stamani 31 gennaio 2019 il libro FOTO RICORDO di Guido Zavanone. Emozioni,
memorie, tempo che fugge, anima inquieta; mi tornano in mente, inevitabilmente,
i tempi dei premi di Guerrieri a Spezia, dove, con il poeta giudice, ero in
commissione. Un grande amico, con un animo nobile, intenso, votato alla poesia.
Quante discussioni sull’arte di Apollo, di Orfeo, quante osservazioni ricche di
humanitas, di prosodici commenti; di ontologici intendimenti. Ho letto, da
subito, la prima poesia del testo Cercano
la luce, e i ricordi si sono impossessati del mio fragile stato
emotivo: “Ammiro quelli che discendono/ sul fondo della loro anima, speleologi/
coraggiosi e prudenti,/ con torce elettriche e corde/ e determinazione metodica
visitando/ le tenebrose caverne/ illuminano/ le reliquie degli avi e le molte/
ricchezze nascoste. Quando/con eguale circospezione risaliti/ alla plaudente
chiarità gli amici in attesa raccontano/ e sorridendo ai fotografi…/ / Però amo
gli altri/ che giacciono sul fondo dell’anima/ non per volontà ma sospinti/ da
una loro frana improvvisa/ senza torce non scorgono che fantasmi/ temono e
desiderano di risalire./ E amano la luce quanto/ definitivo ne avvertono
l’abbandono:/ in questi pozzi di dolore si riflette/ inconsapevole, una
generazione”. Questo è Zavanone: il suo campo di ricerca, la sua dolce e
mansueta metafora, lo scavo, l’abbandono interiore a una verità difficilmente
perseguibile, la vita, l’amicizia, la coscienza del tempo che fugge, la
famiglia, le memorie, la POESIA. Ho ritenuto, a questo punto, di riportare per
intero una mia perlustrazione esegetica sul suo LO SCIAME DELLE PAROLE che si
può slargare, volendo, a tutto il percorso artistico frutto di una continua
ricerca interiore: “In altra
occasione ebbi a scrivere su Guido Zavanone: “Fenollosa Ernest Francisco affermava
che la poesia è l’arte del tempo. Perché riportare tale affermazione. Perché il
tema del tempo ha una funzione determinante nella poesia di Zavanone. Non solo
da un punto di vista del memoriale, ma soprattutto da quello della realtà
contingente: hic et nunc. In lui l’ieri, l’oggi e il domani si
embricano indissolubilmente per dare energia espansiva al suo poema. È
cosciente del tepus fugit Zavanone. E la realtà costante la vive
come frammento del suo essere mortale e degradante. Ma dall’altra parte sente
l’urgenza di farne un accadimento perpetuo, di vincerne quel sapore di
caducità, ricorrendo all’idea di arte/poesia; per proiettarsi oltre il breve
tratto della vicenda umana. Oltre lo sfacimento degli autunni; per
accostare le chant d’un chardonneret che sa tanto d’azzurro…”.
Iniziare da questo frammento testuale significa avvicinarci il più possibile
allo spirito poetico di Guido Zavanone di cui il libro in questione segna, in
maniera diacronica, le tappe fondamentali. Un testo corposo, di ben 350 pagine,
che, dato alle stampe nel 2015 coi caratteri di Interlinea Edizioni, si
presenta come tomo di grande fascino per la sua essenzialità editoriale ma
soprattutto per il fatto che riporta a memoria volumi di grande pregio e di
invitante livello contenutistico; consuntivo, nostos; il viaggio di una vita
che ci pone di fronte alla valenza del poeta genovese, allo spessore del suo
linguismo, alla polivalenza del suo verso e al proficuo entusiasmo per la
scrittura. Sì, proprio così, una vita, un redde rationem, con tutto il suo
rocambolesco andirivieni di sogni, di aspirazioni, di illusioni, delusioni,
saudade, amore, memoriale e ignoto: “Vorrei cavalcare l’ignoto/ e come un
cavallo alato/ allungare il collo nel vuoto/ nel mai esplorato/…”. Ma
quello che più di ogni altra cosa incide sulla sua poetica è la coscienza della
fragilità del vivere; dell’esistere in questo mondo che lascia infiniti perché
irrisolti e irrisolvibili. Tutte le questioni dell’esser-ci vi sono
contemplate: abbrivi edenici, sobbalzi esistenziali, riflessioni ontologiche,
scottature emotivo-vicissitudinali; e fughe verso l’oltre, verso una vetta da
cui il Poeta possa abbracciare “… la (tua) sua croce nera/ che affonda nella
terra riarsa/ e nel limpido cielo”. Una vera spinta verso l’alto per sottrarsi
alle deficienze della condizione umana: “Tu cercavi soltanto/ un sorriso e lo
trovi/ nella foto sbiadita/ della lapide accanto”. Ed è proprio così: il fatto
che più inquieta è il rapporto fra l’uomo e l’infinito; fra l’uomo e la
scadenza di una storia; fra l’uomo e le aporie del viaggio: “…/ Perché
fratello,/ non è una montagna felice/ da salire cantando tenendosi per
mano,/ una montagna di rocce, d’abissi, d’agguati,/ dove l’aria ti manca/
nessuna corda che ti possa aiutare/ e sulla vetta ad attendere forse/
null’altro/ che un cielo chiaro”; dacché non sempre la religione può sopperire
a tale travaglio, per cui, spesso, si ricorre alle memorie per costruire un
mondo virtuale, vero, più vero del reale nel tentativo di prolungare magari il
fatto di esistere o di trovare un rifugio alle sottrazioni della quotidianità:
“L’anima (se esiste)/ l’immergerei nella fontana della/ ritrovata
giovinezza/…”. D’altronde la poesia non è mai solo realtà fenomenica; non è mai
solo il prato, il mare, il colle, l’arancio di un tramonto, o l’oro di un’alba.
È essenziale che queste configurazioni si traducano in immagini, occorre che
restino in animo a decantare per ri-farsi vere, vogliose di ri-vivere. Tutto
deve passare dal serbatoio dell’anima; tutto deve essere intinto nel calamaio
del nostro esistere: “Lungo i sentieri squallidi del tempo/ già si spengono i
fuochi e s’allontana il canto/ delle dolci fanciulle./ La grande notte passa e
nel suo volo/ l’ombre dei morti”; quei sentieri, quei fuochi o
quelle ombre devono farsi corpo dei nostri frammenti di vita; devono essere
commisurati al tempo che fugge irrimediabilmente; un repêchage continuo a corpo
a corpo con la voracità della clessidra. Questo, tutto questo è nella poesia di
Zavanone che, pur partendo dalle piccole cose, dai piccoli accidents o
dagli odeporici messaggi, sa elevarsi all’universale; sa oggettivare ogni
sensazione che si fa parte di un tutto in cui ognuno di noi si ritrova,
ricorrendo, anche, in maniera estremamente simbolica, al mito dei miti, sempre
e estremamente attuale: “…/ Alla soglia della luce/ Orfeo si volterà, perderà
per sempre/ l’amata Euridice./ Serberà il canto”, quello che, nell’animo dell’Autore,
può farsi eterno. Opera vasta in diacronico movimento: Lo sciame
delle parole. Poesia di una vita, il titolo. Un titolo emblematico e
risolutivo; un’opera di grande forza comunicativa, dove il verbo, trattato con
tutti i crismi epigrammatici e euritmici, diviene corpo indissolubile della
storia del Poeta; elemento portante, fiore profumato in piena fioritura dopo
una lunga fecondazione su terricci sapidi di vita: la cultura, il senso
dell’estetica, la profondità psicologica, il culto della parola, l’amore per il
poièin, lo studio, la riflessione, l’inquietudine, la ricerca della luce, del
bello, del verso compatto e plastico sono gli ingredienti di un excursus
antologico che, partendo da LA TERRA SPENTA, si protrae fino all’ultima silloge
inedita ULTIME. Ed anche se i tasselli dell’esistere sono tante stazioni di una
via crucis; anche se alla fin fine permangono dubbi e insoluzioni, quello che
sembra primeggiare in questo percorso è una dolce illusione di memoria
foscoliana: affidare tutto noi stessi al canto nella speranza che vinca le
ristrettezze del giorno, la futilità del nostro soggiorno, per prolungare una
storia oltre i limiti dei nostri orizzonti:
Come ti ha cambiato il tempo,
mio piccolo usignolo!
Di te è rimasto soltanto
il canto
che accompagna il tuo volo (Il tempo e il canto).
Sì, il canto e il volo.”.
Nazario
Pardini
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