sabato 1 febbraio 2020

NAZARIO PARDINI LEGGE: "IL MARE NELL'ANIMA" DI EMANUELE ALOISI



Emanuele Aloisi,
collaboratore di Lèucade

Emanuele Aloisi. Il mare nell’anima. Gnasso Editore. 2019

E se fermandomi sulla riva, lo ascoltassi
il mare, ascolterei le nuvole mentre s’incarnano
nel volo bianco dei gabbiani,
nel pianto rosso all’orizzonte che mi ostino
a non vedere, oppure illudermi che sia lontano
quando pian piano si avvicina ai piedi
toccando asciutta la mia pelle, un altro battito di ciglia.

Questo è Aloisi, e di questo è capace; per lui sperdersi e ritrovarsi in un mare di poesia, dare l’anima ad un quadro che lo reifichi, significa sfogare il suo pathos in un  lirismo che ti prende e ti avvolge per la sua fluidità emotiva.  Scrivere sulla sua poesia è come penetrare in quelli che sono gli angoli più nascosti del suo essere. Per lui la vita è poesia e la poesia è vita. Mi viene in mente una affermazione di Leone D’Ambrosio: “Dire che il mare sia parte integrante della vita di un poeta è come rimandare il nostro pensiero ad Alfredo Panzini che definisce i Poeti (quelli veri e Aloisi lo è) simili al faro del mare”. E quale potrebbe essere simbolo più vicino alla vita dell’uomo, al suo eterno  viaggiare in cerca di una verità che gli è negata. Affacciarsi all’immensità del mare significa proprio cercare quella apertura che va al di là della nostra staticità: “L’invisibile si materializza/nell’espressione di una percezione/al di là delle parole/ come fa il sangue nella pietra,/quando respira dalle vene/ e tumultuoso scorre/nella paralisi di eterno” (Al di là).   D’altronde noi umani siamo destinati ad ambire a quella totalità, a sorpassare i limiti che ci circondano, il fatto è che la nostra misura mortale non ci permette di estendere lo sguardo oltre il nostro orizzonte, il faro che illumina una parte del mare rappresenta un po’ l’àmbito ristretto della nostra perlustrazione emotiva e razionale. Oltre quel fascio di luce c’è il buio, l’ombra, il chiarore lunare  limitato dai gorghi della tenebra.
Eccolo il nostro viaggio, il nostro peregrinare in cerca di un riposo irraggiungibile. Da lì la nostra inquietudine, il nostro disagio di fronte alla grandezza dei cieli, o alla profondità del mare, o alla imperscrutabilità della morte. Quella inquietudine che ci fa umani, che ci fa veri, con tutte le nostre insofferenze del fatto di esistere: “… Dimmi che sei tu/a consolare il giorno/la notte di una lampada stellata/ il mare di una barca alla deriva/ il tempo di un abisso senza fondo/ il cielo di una nuvola smarrita./ Dimmi che sei tu/ a conficcarmi nella carne/ salsedini di chiodi e di germogli” (Dimmi che sei tu). Tanti dubbi, altrettanti interrogativi infiocchettano pacchi di insoluzioni terrene. Il linguismo si fa aperto, apodittico, più esteso e meno per seguire le impennare emotive. Ma la parola non sempre è sufficiente a reificare gli stadi emotivi: la parola è un frutto terreno, l’animo tende ad andare alle sue origini, alle sue dimensioni celesti. Per questo il poeta ricorre a stratagemmi stilistici per dare all’animo una carica superlativa, iperbolico- sinestetica. Si ricorre a congegni prosodici, a figure significanti per scavalcare i limiti del linguaggio. E il poeta ci riesce con tutta la sua forza creativa: inventa, si sorprende, si illude, si disillude, insomma si fa umanamente insofferente, umanamente labile,  umanamente dubbioso per rendersi vero.  Ci chiediamo spesso chi siamo, dove andiamo, quale sarà il nostro destino: tanti perché irrisolvibili a cui non possiamo dare risposta. Forse è l’amore, la cosa più vicina al cielo, che ci permette di sfiorare l’impossibile, forse è l’immaginazione che ci permette con tutta la riserva onirica di andare oltre le vele che spariscono all’orizzonte. Amare e sognare non è poi tanto difficile soprattutto di fronte alla estensione dei gorghi che si rompono sugli scogli: “… Non  mi capacito potessi farlo,/ potessimo, tuoi figli, dimenticare il lutto/ -nel muro del silenzio seppellirlo-/ lasciando liberi i capelli, gli ulivi liberi di piangere,/ all’ombra mettere una madre vera/ e sulla testa un fazzoletto nero” (Un fazzoletto).   A meno che il poeta non sia distratto da una visione paradisiaca che assume una funzione medicatrix: “Quando s’inchinano/ la terra e il mare/ germoglia un‘ostia/ nel calice dell’orizzonte” (Calice). E’ lì, in tali occasioni che Aloisi si perde, si annulla; la bellezza dell’universo gli gioca  scherzi riparatori, e, per un attimo, la contemplazione lo rapina facendogli dimenticare il fatto di esistere. Come d’altronde per il poeta non è normale vivere senza credere: “Credere che sia normale vivere/ senza sperare, senza credere,/è sopravvivere senz’anima:/ sarebbe inutile pensare eterna/ la carne che marcisce senza terra,/senza una pietra accanto/ un rivolo di pianto, e di orgoglioso canto” (Credere). Ma è il mare, alfine, quell’immenso piano azzurro che lo sovrasta, a dargli un input simbolico: vita, fede, amore, quiete, e sperdimento: “… Parlami d’amore/ tu che sei il legno dell’amore/tu che sei un velo senza pianto/ all’occorrenza mare/e levami l’arpione dal mio collo. (Parlami d’amore, dal Cristo velato). 

Nazario Pardini
       


3 commenti:

  1. Meravigliosa analisi del libro di Aloisi e della sua anima

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  2. Grazie professore Pardini per le parole, per la lettura dell'anima, come ha osservato l'amica Claudia, e ringrazio anche lei. Ma soprattutto grazie, e lei non può immaginarlo, perché ho letto queste parole, oggi, in un momento particolare, difficile. Quanto è straordinariamente bello l'effetto della poesia. Emanuele

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  3. Nazario mette in evidenza con la sua nota, magistrale capacità esegetica le capacità di Emanuele, che sembra fatto della materia stessa della poesia. Un lirismo il suo che avvolge, incanta, incatena e convince che si può nascere con il Dono nel DNA. Un Autore superbo presentato da chi naviga tra i flutti poetici e ha deciso di abitare l'isola dai flutti magici. Un abbraccio a entrambi.
    Maria Rizzi

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