ORAZIO
ANTONIO BOLOGNA
BREVI
RFLESSIONI SU ALCUNE LIRICHE
DI
GIOVANNI MARTONE
Analizzare la produzione
poetica di Giovanni Martone a prima vista potrebbe sembrare facile, perché la
sua scrittura, a differenza della stragrande maggioranza dei poeti odierni, non
si abbandona, se non raramente, a strani e incomprensibili equilibrismi
verbali, nonostante presenti ampi squarci lirici e profonde riflessioni, che
sfiorano tanto la filosofia quanto la coscienza religiosa e sociale. Ogni
lirica di Martone, perché possa rivelare l’insondabile afflato lirico, la
profondità di pensiero e i motivi, che l’hanno posta in essere e ne
costituiscono l’essenza, deve essere letta più volte, e con molta attenzione,
per assaporare prima e comprendere poi il significato di ogni singolo lessema,
di ogni singolo sintagma, di ogni singola strofa, per giungere, alla fine, dove
l’autore vuole condurre il lettore. A prima vista potrebbe sembrare che il
poeta si interessi solo di problemi sociali. La lettura dell’opera, però, offre
una vasta e articolata gamma di problemi e riflessioni, che difficilmente, si
possono condensare in poche paginette. Per cui, in questa breve riflessione
sull’opera, fermerò l’attenzione solo su un paio di liriche, per evidenziare
l’impegno morale e sociale, oltre che poetico, dell’autore.
Il contenuto del libro, non a caso intitolato Il
Comunista, per essere compreso ha bisogno, innanzitutto di molta attenzione
e di una solida cultura fondata su ampie basi filosofiche, letterarie e
sociologiche, perché l’autore parla tanto all’uomo della strada, delle fabbriche
e delle aziende quanto all’acuto ricercatore sui problemi sociali e religiosi
dell’uomo contemporaneo. Non esita, infatti, a denunciare e puntare i riflettori
sulla spietata logica di una politica dissennata, che ha inflitto contraccolpi
letali, ha stroncato sogni, ha reciso speranze in molte coscienze. È, per certi
aspetti e almeno in apparenza, la poesia degli umili, dei diseredati, dei
vinti, per usare un’espressione della critica verghiana. Ma non è sempre così,
anche se pone il lettore davanti a evidenti soprusi lesivi della dignità umana.
Il poeta leva la sua voce, punta il dito contro la disonestà di abili e
insensibili ciurmatori, ma si piega anche a riflettere sulla caducità e brevità
dell’esistenza umana.
In ogni lirica, invece, si
sente vivo il battito di un cuore che lotta, l’animo forte di un uomo abituato
al violento scontro contro la durezza e la miseria della vita, per procurarsi e
procurare alla famiglia il pane quotidiano. In più di una pericope sembra
riecheggiare il sempre attuale anelito evangelico: dacci oggi il nostro pane
quotidiano. Martone, però, oltre a chiederlo a Dio, sulla bontà del quale
non nutre dubbio alcuno, lo pretende da coloro che amministrano la Res
publica, lo Stato, perché il primo, e più importante, impegno di ogni
politico è mettere tutti gli uomini nelle condizioni di fruire della tranquillità
economica mediante la promulgazione di leggi atte a favorire in modo armonico
lo sviluppo della società.
Dalla lettura, anche
superficiale, delle brevi, ma intense e vibranti, liriche emerge una viva
contestazione, uno sdegnato grido di protesta contro coloro, e sono tanti, i
quali, una vota giunti al potere e sistemati i propri interessi, dimenticano
gli elettori, i cittadini che li hanno eletti; dimenticano lo Stato, che sin
dall’inizio della nuova vita considerano un ente astratto, fonte solo del
proprio benessere e dei propri privilegi. Questi signori, e non sono pochi, durante
la campagna elettorale ingannano in maniera disonesta e capziosa gli elettori
con promesse per lo più inattuabili; ma, appena raggiunta la meta, adoprano
tutti i mezzi, per badare al proprio particolare, al proprio tornaconto, a
consolidare la propria base economica, e trascurano l’aspetto sociale del loro
mandato.
Attanagliati
da questa logica aberrante, anche il Partito Comunista, che, come programma di
fondo, aveva la difesa e l’interesse dei lavoratori, col passar del tempo e
davanti all’inarrestabile evoluzione, verificatasi nel suo interno, è venuto
meno all’aspetto sociale che lo caratterizzava fin dalle origini. Non è,
infatti, un caso fortuito, se il libro si apre con un’amara, ma significativa,
asseverazione:
ho giorni e anni da raccontare
nella tua Casa, Comunista.
In questa breve, ma intensa
pericope emerge tutta l’amarezza di un militante illuso, avvilito, umiliato. In
nome dell’uguaglianza, di un ideale di società fondata sul benessere comune si
è lottato per giorni, per mesi, per anni con la segreta speranza che, col
passar del tempo e la presenza di uomini nuovi, la società sarebbe andata
incontro a vistosi cambiamenti, tanto decantati e strillati.
Se, però, si pone maggiore
attenzione al sintomatico verso nella tua Casa, Comunista, ponendo
maggiore attenzione sullo stacco di due lessemi di particolare pregnanza semiologica,
casa e Comunista, separati da virgola, la riflessione porta a
un’altra realtà, che, con la sua temporalità, conduce alla soglia metatemporale
della realtà celeste. Diviene evidente, a questo punto, il discorso sulla dottrina
sociale e sulla missione della Chiesa, la quale, da due millenni, nonostante
spessa patina di temporalità e di attaccamento ai beni temporali, ha predicato ininterrottamente
la pace e l’uguaglianza sociale. E le sue porte, nonostante le tempeste e le avversità,
sono state sempre spalancate per tutti, indistintamente.
Densa e pregna di afflato
lirico, di pietà umana e fede in Dio è la toccante lirica Il Nazareno ti
bacia le labbra. La morte di un vigile urbano offre al poeta l’amara occasione
per riflettere sulla morte voluta di un fedele servitore dello Stato
all’amorevole accoglienza del Nazareno, che gli spalanca con amore le braccia
inchiodate sulla croce e lo accoglie nella gioia dei giusti, segue lo sdegnoso
rimprovero a quanti avrebbero dovuto tutelare a sua incolumità. Il vigile,
purtroppo, era una persona scomoda, perché denunciava le numerose e plateali
illegalità, che devastano e distruggono la Terra dei Fuochi.
Dopo
aver passato in rassegna i variegati aspetti della società e gli inganni e le
illusioni alimentati dall’egoismo e dalle miserie umane, Martone apre il cuore
alla speranza alimentata dalla fede e pone sulla bocca della Chiesa una
risposta, che non ha bisogno di commenti:
sono qui a parlarti,
a
parlarti da 2000 anni.
Lascio
da parte ulteriori riflessioni, che il lettore ricava da sé a mano a mano che
procede nella lettura del libro: riprendo, a questo punto, il discorso
interrotto sull’impegno umano e sociale dell’uomo, desideroso di rendere
partecipi tutti dell’intimo travaglio che lo turba. Ritorno ai politici di
turno, i quali dopo anni e anni di promesse, non hanno cambiato niente; anzi
hanno peggiorato la già precaria condizione degli operai e del ceto medio. Consapevole
di tanto squilibrio, Martone con amarezza osserva:
ho nello sguardo
la povertà incontrata per strade
sporche senza fanciulli.
Un’approfondita
analisi di questi pochi versi insieme con una lettura più attenta delle poche
parole, che compongono l’amara pericope, permette di gettare uno sguardo sulle
realtà della società e dello Stato attuale, nel quale viviamo: emergono palesi
tanto l’abbandono quanto, e soprattutto, la povertà, che non permette alle
giovani generazioni di formarsi una famiglia, avere bambini. E questo,
nonostante le roboanti promesse, determina la morte della società, dello Stato,
come il poeta amaramente osserva nella stessa lirica, che apre il corposo
volume:
ho il pianto di culle vuote
e riformatori di bambini adulti
senza più giocattoli.
Alle
promesse di una società edenica, l’autore pone davanti agli occhi del lettore
la sconcertante realtà, nata dal fallimento di ideali irraggiungibili. E ciò è
dato dalla vistosa, e insanabile, sperequazione, che ha permesso ai ricchi di
essere più ricchi e ai poveri di vedersi ridotti sul lastrico per la mancanza
dei beni di prima necessità. In questa spietata e disumana lotta, che è solo
corsa all’arricchimento, sembra echeggiare l’amara costatazione plautina: homo
homini lupus, l’uomo nei confronti del prossimo si comporta come un lupo. E
il Martone non esita ad affermare che, in questa logica aberrante, l’uomo non
esita a diventare lupo, a schiacciare il proprio simile:
ho nella testa il tarlo
dell’uomo padrone dell’uomo
con catene di povertà.
Ritorna, e con insistenza, il
drammatico tema della povertà, presente anche in altre liriche. È, questa, una
piaga che, col tempo, se non si adottano gli opportuni provvedimenti, rischia
di incancrenirsi e ridurre la società alla dura schiavitù di quanti posseggono
di più. Incredibili e, a volte, insanabili sono i drammatici effetti prodotti
dalla povertà, alla quale tutti i governi hanno cercato, per altro, senza
riuscirci, di porre seri rimedi. Il riverbero di insane misure, tendenti a
risollevare la miseria d’una consistente fascia di popolazione è stato così
dannoso da mettere in mezzo alla strada innumerevoli famiglie. Di recente nella
nostra società è entrato in modo drammatico il termine esodato, che ha
provocato ferite difficilmente rimarginabili, perché migliaia di padri e madri
di famiglia si sono trovati all’improvviso senza lavoro, senza un cespite, che
permettesse loro di vivere con dignità.
Per
rendersi pienamente conto della drammatica, e irreversibile, situazione, è
sufficiente leggere la seguente riflessione di Martone:
Antonio sessantadue anni
seduto in prima fila
attore e spettatore
da mesi recita,
fuori un cancello chiuso,
una replica al giorno.
“Disoccupato”.
Atto unico con finale a sorpresa
impreca la Fornero, improvvisa.
Penso e sono sincero
l’ho vista piangere
io spettatore e attore
lavoro da vecchio e invecchio.
Il poeta entra nel vivo di uno
spaccato sociale gravido di tragiche conseguenze: tocca i temi vivi e scottanti
di un tremendo periodo di crisi abbattutosi sull’Italia con tutte le
drammatiche conseguenze. La densa pericope richiama alla mente il promettente
governo presieduto dal Sen. Mario Monti, il quale, con i suoi ambiziosi
programmi, si presentava alla Nazione come il salvatore della sua economia e il
restauratore d’uno status mai attuato. Si ebbe una drastica diminuzione
dei posti di lavoro e un inesorabile taglio alle pensioni. Non toccò, però, né
le prebende dei parlamentari né intaccò i proventi, piuttosto lauti, di certe
classi privilegiate. La soluzione della crisi, che stava portando l’Italia al
tracollo. Come tutti i suoi predecessori, anche l’on. Monti preferì intervenire
sulle categorie più deboli. Molti ricordano, come evoca il testo citato, il
ministro Elsa Fornero, che, mentre annunciava le draconiane soluzioni da adottare,
scoppiò in un pianto improvviso e liberatorio davanti alle telecamere.
In realtà tutti sappiamo bene
quale atteggiamento, in quelle giornate concitate, assunse tanto il governo
quanto il parlamento: nessuno osò diminuire i propri appannaggi o limitare i
propri privilegi. Anche in questo caso assurdo, come l’operaio che spera
nell’apertura della fabbrica, per i signori parlamentari e la serqua del loro
apparato era un pietoso atto unico, ma con finale senza sorpresa: percepire
quanto le leggi stabiliscono a danno dei cittadini, che li hanno eletti fiduciosi
nelle loro accattivanti promesse. È, questo, un atto unico che si ripete giorno
dopo giorno, anno dopo anno, legislazione dopo legislazione. Intanto gli
inganni continuano.
La riflessione di Giovanni
Martone diviene cruda e violenta, si piega con amarezza su incontrovertibili
eventi storici e denuncia le disuguaglianze sociali e i farisaici raggiri perpetrati
ai danni di gente indifesa, messa dalla vita stessa nell’impossibilità di
difendere la propria dignità umana. Non credo che la stessa Fornero, dopo la
plateale scenata davanti alle telecamere, insieme con il Presidente del
Consiglio e gli altri ministri abbia rinunciato a qualche beneficio, limitato
qualche, seppur minimo, privilegio.
Martone con la semplicità del
linguaggio, tenuto insieme da una struttura narrativa semplice, e la naturale
scorrevolezza del verso diviene portavoce di una larga fascia di esseri umani
precipitati da un giorno all’altro nel baratro della miseria più nera e nel bisogno
più urgente: mettere un piatto caldo davanti ai figli, avere un pasto
assicurato tutti i giorni.
Questo per un uomo e per una
donna è l’umiliazione più grave, l’offesa più vergognosa perpetrata senza
vergogna da chi, proprio per gli impegni assunti davanti al Popolo, è moralmente
tenuto a procurare ai cittadini almeno lo stretto necessario per vivere. Per
questo motivo Giovanni Martone conclude con amarezza la lirica: l’ho vista
piangere. Sulla platealità del gesto e sulla sua sincerità, per dirla col
Manzoni, ai posteri la sentenza. E noi, i posteri, paghiamo ancora sulla nostra
pelle il tanto assurdo quanto inquietante demagogismo di tanti spudorati
cialtroni. Manzoni, davanti all’impotenza di un povero popolano, non senza
ironia osserva: così va il mondo.
Quanto
ciò sia vero, Martone non esita a scrivere:
l’orto coltivato con promesse e parole
nel nome del bene comune
lascia le tante Marie
tra i cassonetti in preghiera,
mentre porci dalla pelle umana
calpestano Croci e nuovi Cristi
colorando il cielo di rosso.
Alla luce di quanto accennato
in precedenza. la breve e densa pericope, amara costatazione e conclusione di
vane attese e speranze frustrate, si commenta da sé: quando si arriva alla minestra,
la sinistra è con la destra e le promesse e i giuramenti vanno inesorabilmente
a finire tra le ortiche. L’insieme offre il lato a un tetro pessimismo, che
serpeggia inquieto nell’animo sia del poeta che in quello dei tanti cittadini,
i quali nelle tante promesse e nelle parole del bene comune hanno
trovato la fonte della loro miseria, della loro povertà. Crolla inesorabilmente
su sé stesso un castello che, almeno in apparenza, ostentava solide fondamenta,
alimentate da promesse di uguaglianza e di benessere.
Non posso, a questo punto, non
riservare un cenno al sottofondo culturale costituto dalla cultura cristiana,
che informa serena e pacata l’esistenza stessa dell’uomo. Questa, unita alla
retta interpretazione e valorizzazione del comunismo, intesa come equa
distribuzione dei beni e del lavoro, conferisce alla lirica un lacerante e
lancinante grido di dolore, quando l’uomo, il cittadino, il cristiano prende coscienza
e si trova davanti a promesse e giuramenti traditi proprio da quelle persone,
nelle quali avevano riposto la propria fiducia.
Questa lirica, È un
imbrunire, diviene un giusto e violento atto di contestazione e di accusa e
il poeta si presenta come portavoce delle masse operaie tradite nelle loro
giuste aspettative. Di questa densa e pregnante pericope è, a questo punto,
impossibile qualsiasi analisi, qualsiasi parola, perché ogni lessema parla da
solo, invia messaggi inequivocabili, segnali luminosi di coscienze tradite e
strumentalizzate da loschi arrivisti, che vivono sugli inganni e su promesse
mai mantenute. Per cui questi onorevoli signori, porci dalla pelle umana,
senza scrupolo alcuno calpestano Croci e Cristi. In questa meravigliosa
e pregnante endiadi finale si legge la dolorosa presa di coscienza che ogni
giorno vengono impunemente calpestati tanti poveri, letteralmente crocifissi
dalla miseria e dall’umiliazione più obbrobriosa. E questo, oltre a non essere
cristiano, non è neppure umano.
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