venerdì 23 ottobre 2020

GIAN PIERO STEFANONI LEGGE: "LU SILENZIE DI LA SERE" DI CAMILLO COCCIONE

                       


Camillo Coccione, 

                          Lu silenzie di la sere.                              S.i.p., Poggio Fiorito (Te), 2020

Gian Piero Stefanoni
collaboratore di Lèucade


Resto sempre più convinto che in un'epoca desacralizzata come la nostra, e di separazione della parola fra racconto del mondo e mondo nell'opera di cancellazione- da sé e dal suo interrogarsi- cui va intrappolandosi, abbia sempre più da noi in poesia nella sua espressione in dialetto la forma più autentica del suo smarrimento. Ne è esempio quest'ultimo lavoro, splendido, di Camillo Coccione nel parlare d'area teatina di Poggiofiorito, Lanciano. Autore robusto per vigore e scorza di lingua, addestrato alla scuola del padre Tommaso fisarmonicista tra i più validi d'Abruzzo, e così dunque insieme musicalissimo (e musicista anch'esso) si restituisce in questo suo quinto volume alla prova di un tempo finale; non solo evidentemente per una realtà anagrafica accorciata dagli anni ma per una discrepanza- soprattutto- sempre più evidente tra farsi della coscienza e spazio della resa nell'interpretazione reciproca delle identità, l'uomo da una parte e la sua aspirazione alla vita e terra dalla cui vita l'uomo prende valore e dà movimento che se al disfacimento antropologico culturale e sociale di questo rapporto non può che seguire  un misconoscimento e dunque il rischio concreto di una rottura con la terra stessa- da cui nasce e a cui anche la terra con noi rinasce- pure ovviamente ne consegue la stessa incapacità simbolica di perseguirla, celebrarla, nominarla. Di qui come accennavamo l'impossibilità di riconoscersi e di cantare cui perviene tanto dolorosamente e coraggiosamente Coccione ha in realtà il segno di una universale disaderenza, di inospitalità se vogliamo se la capacità del ricordo ha mutato linguaggio rotto lo specchio coi propri luoghi del credere. Un poema della memoria allora , certo, come con la consueta sapienza Nicola Fiorentino l'ha definita nella prefazione ma della memoria fondante diremmo, o rifondante, negli stessi riferimenti cui Fiorentino rinvia nella sua proposta di futuro da un passato forse "più umano e più giusto", senz'altro fattivo nella costruzione comunitaria della vita e del lavoro. Ed è allora anche sì il resoconto di una crisi evidentemente (ancora Fiorentino) del mondo che abbiamo conosciuto- e del mondo in sé- ma anche del nostro modo di viverlo nelle parole di un addestramento reciproco. Bene ripeterlo perché il dissidio raccontato da Coccione ha nello sforzo di ritrovarne l'immagine a partire dalle sue infinite pronunce la chiave di una risonanza a cui rifondarsi nel ritrovamento di un senso ora confuso ma soprattutto, forse non più investigato, come non necessario. La ricostruzione della terra allora dalla sua desolata solitudine, dal buio di un mistero che non dà più suggestioni, senza più volti se non quelle di una fatica sovente senza fatica, le braccia ferme, il lavoro fermo nella piaga di una socialità chiusa, spenta nelle corde delle proprie disattese mancanze, la ricostruzione, dicevamo, parte dalla tensione salda di un ascolto cercato e condiviso delle aree di luce che pure risalgono nell'aderenza di presente e memoria. Qui nella risposta lirica Coccione affondando dallo spazio di luoghi, interni, anime care (l'amatissima madre su tutte, la bellezza di una natura espansa dal sudore, la scansione partecipata dei tempi tra liturgie feriali  e della festa dove si viveva di ulivi e tavole apparecchiate d'amore) tenta nel ritaglio di luce di una infanzia ancora piena nella deriva adulta dell'uomo motivi e sacralità di un quotidiano avverarsi che non si spegne richiamato al suo divino splendore ( e per cui "ugne vvache è la storie di lu munne"- "ogni bocca è la storia del mondo" nella sorte che nessuno può cambiare) . Questa è infatti la voce della cui fonte non si stanca, che gli danza negli occhi "a ffa' capì lu bbene che ci-à rimaste" ("a far capire il bene che  è rimasto") nella nudità del silenzio e delle ombre dove appunto pure resistono "ancore arpuste, forse annascunnate/dentr'a li sunne antiche di zappunne/ch'aspette, arruzzinite,/tarlite e stajndite,/arrete a nu spurtelle di pajare" ("ancora custodie, forze nascoste/dentro i sogni antichi di zappe/che attendono arrugginite,/tarlate e senza più il taglio delle lame/dietro un portello di pagliaio"). Ed allora ciò a cui volge e si rivolge nel suo esser strenuamente poeta sempre è a quest'alleanza, a questa creaturalità di luce su cui la stessa parola si fonda e fonda da lui a trar fuori e a rammentarci uno stato di bisogno che ha la sua misura nella compassione e nella compassione condivisa prima di tutto come meravigliosamente cantato in quell'abecedario della vita e del canto celebrato nella lode di un tutto che si chiama amore in cui (come da omonima poesia) nel nome di ogni cosa- come in noi stessi-  è il frutto di quel processo di riconoscimento prima e di aderenza poi necessario alla nascita. Questo spiega la sacralità dello sforzo di un versificare che dall'oscurità di un sentire che pare più non rispondere pure là nella fede in ciò che eternamente torna e resta al corrispondere chiama alla veglia, non si smarrisce indicando proprio nella cruna di un buio che tutto pare inghiottire (come la montagna il cielo nella bellissima similitudine) la sola via per continuare ad esserci dal cui interno proprio come un bambino ricavando le orme di un ritorno fatto di piccoli e significativi richiami, esatte ed antiche corrispondenze. In questo senso è esemplificativo tra gli altri testi "Arriva da lu funne" ("Arriva dal fondo") in cui l'aria di canto in risposta tra due figure dal fondo della vallata assume all'orecchio e al cuore del terzo che l'ascolta la conferma di un mondo che ancora, nel tremore e nella gioia, nel gusto dell'incontro si rilancia. Così il libro nella lotta tra scoramento e perseveranza, spogliato del peso di illusioni che più non reggono, assume anche il valore di una riflessione sulla poesia stessa, facendosi autore modernissimo nel restituire alla parola il senso classico del suo intuire, il verso legato allo spazio di rivelazione che dell'uomo ha bisogno per poter ancora dar vita e prender vita. Incarnazione restituita al dire della terra dallo spazio di una ferita non arida ma nella "ffede di n'arcute bone" ("credenza di buon raccolto) e della gioia, allora, la storia come la campagna accudita e ripulita dalla pietra, rivestita dei suoi tralci.

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