Emanuele Aloisi, collaboratore di Lèucade |
Giorno 4 aprile
a Tropea ho presentato la mia silloge. E’ stata l'occasione per affrontare, con
la poesia, tematiche scottanti, ma soprattutto per smuovere e sensibilizzare le
coscienze davanti a recenti fatti/crimini di mafia. Ho invitato tre
meravigliose donne, tre madri, i cui figli sono stati vittime di azioni
criminali (e mafiose). Una è la mamma di Francesco Vangelo, scomparso da
diversi mesi (vittima di lupara bianca, così è emerso dalle indagini del
procuratore antimafia Gratteri) un'altra è la mamma di Francesco Presta, il
giovane quindicenne ucciso da un coetaneo e sui cui fatti ancora indaga
l'antimafia, ho dedicato loro delle liriche, e un racconto alla mamma di Matteo
Vinci, presente anche lei, ucciso a Limbadi il 9 aprile 2018, per un fazzoletto
di terra.
Emanuele Aloisi
Il
fazzoletto di Matteo
(a
Matteo Vinci)
Sara
era seduta davanti al feretro del figlio, quel giorno (era il 14 luglio)
dopo novantasei giorni dall’esame
autoptico...
come
se dei bisturi potessero ricucire una vita, potessero scoprire una verità così
scontata, trasparente quanto un lembo di pelle ustionata, un misero brandello
d’organo! Rimasero, in molti, sparpagliati sotto gli alberi d’ulivo, quasi
fossero delle trincee guardinghe, davanti agli occhi di tutti, anche di chi non
c’era, o non vedeva, quel giorno, al sole cocente del nove aprile, nel cielo
freddo del silenzio.
Era
la madre adottiva di Matteo, Sara, e Francesco era suo padre.
Due
contadini calabresi, due genitori che hanno cresciuto un figlio. Non basta un
seme a generare un fiore, e un pugno di terra a fargli da grembo.
Una
madre conosce bene le sponde, conosce il legno della culla, la notte dove
spargere lenzuola, e l’alba buona di sudore.
Sara ne conosceva ogni goccia, quando bianca la
distillava dal cuore, dai solchi delle mani ruvide.
Ogni carezza sapeva di placenta, nelle pieghe
di un grembiule: un fazzoletto ereditato all’ombra.
L’aveva
tramandato al figlio, con gli alberi di ulivi sempreverdi. Matteo se ne
prendeva cura, cullando le foglie di ogni ramo, ad una ad una, come i grappoli
dei pampini: erano buoni vicini!
Le spine non lo intimorivano: a ripagarlo di
ferite era il profumo delle olive, e il nettare divino dell’autunno.
Da biologo Matteo conosceva bene il valore di
quei frutti, e da musicista ne impreziosiva l’oro col fiato armonico di uno strumento:
era il cimelio di quand’era nell’esercito.
Sara
e Francesco non immaginavano che un fazzoletto, l’amore per un lembo di terra potesse,
un giorno, generare un’esplosione d’odio, le note lugubri di una canzone al
vento.
Qualcun
altro lo voleva, come un trapianto eterologo, un pezzo di grembiule ad
ornamento, vessillo di un comando indiscutibile.
La morte può servire a questo: a dimostrare
chi comanda, a incutere timore ai miscredenti. È una questione di credo, e il
lutto è il marchio da lasciare: un nero fazzoletto sulla testa, quando non bastano
le ortiche, il prurito degli avvertimenti, l’anafilassi di percosse.
Aveva
i lividi cuciti addosso -il fazzoletto- ricami di petecchie di minacce, il
sangue rammollito nelle tasche, e grumi di bottoni giornalieri. Ma aveva fertili radici di coraggio.
Un trapianto eterologo non riesce bene, se le
radici del lembo non credono; non temono, le vene dei cordoni.
Sara
piangeva, quel giorno, accanto all’ombra del marito immobile: il bastone ne
sorreggeva la sagoma, a tratti sfogliata, era così ustionato…il DNA dell’anima.
Sul ventre teneva unite le mani, lasciando i grani di un rosario trapelare
dalle dita, una preghiera che volasse in cielo, non prima di arrivare a tutti,
presenti e assenti, sotto i cocenti raggi del sole di luglio, nel cielo freddo
del silenzio, le note lugubri dei fiati: << qui dentro c’è un agnello,
che sgorga petali di fiori bianchi; metteteli alle vostre porte, come un batacchio
di speranza, che bussi onore, e fate entrare la giustizia, tenete fuori la
paura; metteteli nei vostri cuori, lasciate che profumino di ulivi, o piangerete,
voi, il feretro di questa terra>>.
Quando la Poesia non ha bisogno di "rinnovamento"!
RispondiEliminaQuando un dettato , scaturito da una realtà viva e parlante, non ha bisogno di innovazioni ontologiche per farsi poesia...e Poesia della vita!
Personalmente non ho letto le liriche a cui fa riferimento l'Autore, ma conoscere il Poeta è già sufficiente garanzia...
Quanto al racconto "Il fazzoletto di Matteo" non occorrono parole per tratteggiarne il valore critico-estetico. La pagina di Aloisi, così netta e realistica, mette in evidenza una cruda realtà, con tutta la appassionata partecipazione umana di chi sente anche il bisogno di operare una denuncia.
Complimenti, amico!
Edda Conte.
Grazie, come sempre, al prof. Pardini, per l'ospitalità sull'Isola, e grazie all'amica Edda. Sono onorato della tua stima e profondamente emozionato per la tua, come sempre, attenta e umana chiave di lettura. "Innovazioni ontologiche"...me ne chiedo il senso se poi sorvolano la vita, non odono una voce della cui eco si fa bandiera al vento. Scrisse qualcuno tempo addietro che la poesia non deve essere piagnisteo, scrittura di sentimentalismi personalistici. Credo che la poesia sia l'una e l'altra cosa, fondamentalmente riflette un tempo e un luogo dove vive l'uomo,che osserva e ascolta e non si risparmia di metterne a nudo le visioni,le emozioni, a cominciare dal tempo e dallo spazio della propria intimità. Grazie. Emanuele Aloisi.
EliminaUn racconto che si veste di Poesia per narrare la drammaticità di un crudele omicidio, si fa denuncia e grido d'orrore. Con mano pietosa diventa carezza e consolazione verso quella madre, quelle madri, che piangono gli scarni resti di un figlio perduto in modo ignobile. La vera Poesia è nel racconto di queste mani che tormentano un rosario, come a cercare una risposta a tanto dolore e orrore. Ancora i miei complimenti Emanuele, e la mia rinnovata stima come Poeta e Uomo. Franca Donà
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