Sandro Angelucci, collaboratore di Lèucade |
Leggere i versi di Nazario Pardini è
come assaporare una calda e fumante zuppa toscana. Non sembri strano
l’accostamento culinario ma è proprio così: gli effluvi e i sapori suscitano
delle vere e proprie sensazioni
gustative. La ciotola contiene i prodotti della sua terra, di un orto irrigato
con l’acqua del suo mare; e sono terra e mare sia concreti che metaforici.
La genuinità è dunque assicurata: la
purezza è il derivato che scaturisce dall’incontro di una materia vergine con
un’anima integra, pura e anch’essa naturale.
Si obietterà: perché proporre un titolo
come I dintorni della solitudine,
allora, per la nuova silloge (pubblicata per i tipi di Guido Miano Editore
nella prestigiosa collana Alcyone 2000)?
Può tornare utile per comprenderlo un
riferimento testuale che esplica, più di tante parole, il motivo della scelta.
Mi rifaccio, dunque, alla lirica di pag. 57, L’incendio dei papaveri, che l’autore suddivide in una prima ed una
seconda parte. Ne citerò stralci da entrambe, chiedendo venia fin d’ora per il
mio forse eccessivo dilungarmi, ma reputo i rimandi necessari oltreché
preponderanti.
Dalla prima l’incipit che, però, desidero
protrarre ben oltre i suoi limiti: “Non è che l’incendio dei papaveri / o il
policromo assedio sopra i cigli / dei molteplici fiori, o il variare / della
vista dei colli o del lontano / prolungarsi dei mari, sia bastante /…. / Ci
sono cose molto più feconde / a riempire il fondo della sacca: / il dolore di
un figlio che ti lascia, / l’inquietudine che provi nella vita, / la gioia per
un mondo ritrovato, / il senso di una noia che t’assedia, / lo smarrimento in
cieli senza fine. /…. / Certamente / uno squarcio di natura ti soccorre / nel
dare concretezza al tuo sentire; / una sera che langue oltre i confini / è
tanto simile a ciò che porti dentro / senza saperne il perché; l’annullarsi /
in un mare di verde che circonda / la tua desolazione è un po’ / il modo di
disperdersi in quei germogli larghi, / e smarrire per poco il nostro stato /
che ci vuole precari. […]”.
Dalla seconda (sarò meno prolisso ma non
meno intensi i significati ed i significanti) la pensosa e penetrantissima
chiusa: “Di avere amato te ne accorgi dopo / se quegli incantamenti naturali /
ti dicono di assenze che violentano / il tuo essere umano; tutto al più / puoi
tramandare i brividi di un canto / da dedicare a chi non ha più il mare.”.
“Di avere amato te ne accorgi dopo”.
Partiamo da qui: partiamo dal più enigmatico dei versi riportati. Cosa
significa? Cosa vuole dirci il Nostro?
Difficile rispondere; pur tuttavia
ineludibile farlo per trovare la chiave che apra un universo poetico che troppo
semplicistico e riduttivo sarebbe considerare dai toni crepuscolari o
decadentisti.
L’amore per le piccole cose, per gli
ambienti naturali non è motivo di disperazione (anche se, dagli esempi
proposti, potrebbe sembrare). Lo spleen pardiniano, assimilabile - perché no -
a quello baudelairiano, ne prende le distanze in quanto non fugge
nell’isolamento né, per contrapposizione, si adagia in un realismo di comodo,
com’è avvenuto e tuttora avviene in alcuni scrittori.
Allo stesso modo - a mio parere - non è
corretto neppure parlare di una poetica di stampo romantico: il romanticismo,
troppo spesso identificato con la letteratura variamente patetica,
vaporosa e sentimentale, che ne costituisce solo uno degli aspetti, rientra
solo parzialmente nel sentire del poeta pisano.
Certo, la memoria gioca un ruolo
fondamentale; lì si depositano, come in un granaio, i raccolti dell’animo ed a
quelli la poesia attingerà quando e come vorrà. Ebbene, è sufficiente questo
per etichettare un versificare includendolo nelle usanze e negli orientamenti
dei ceti borghesi e piccolo borghesi? D’altronde la stessa sorte toccò al
Pascoli e, nel secolo scorso, perfino ad un Montale o ad Ungaretti.
Cosa c’è che scade, che regredisce, che
perde vitalità nella poesia di autori che hanno fatto la storia della nostra
letteratura? Cosa c’è di decadente in Pardini quando si leggono testi come Il fiore, a pag. 44 della raccolta?
“ -Ti donerò una rosa / in questa
primavera maculata. / Perché non farti dono dei suoi petali? / dei suoi gentili
intarsi, porporini, / che ne fanno il colore e la stagione? - / Le toglierai la
vita - mi dicesti - / Lasciala al sole a brillare spavalda. / Cogli la mia
delle bellezze, / e tienila alla luce. Arriverà / profumo d’erba nuova / a
riportarci al fiore, / a respirarne l’odore selvaggio, / il capriccio d’amore.
E sia motivo / per scoprirci di nuovo e non ricordo, / solo ricordo di una primavera.
- ”.
“Motivo per scoprirci di nuovo”: eccolo
il magazzino che custodisce. La vita è dentro, pronta ad essere raccolta non ad
essere rimembrata. Chi rammenta non è disposto a gridare “al mondo, agli
uomini, ai mercanti” il proprio amore.
Così, il Nostro non si lascia abbindolare
dai richiami di sirene ammaliatrici - siano esse portatrici di grati o sgraditi
pensieri - restando fedele unicamente alla voce che sente provenire dalle più
insondabili e riposte cavità del soffio vitale.
È libero, come i Piccioni che “svolano sulle foglie delle viti”, che
“hanno
solo l’istinto” a guidarli quando “accorrono in picchiata” o cercano “spazi
aperti”, quando “anche la pioggia / …li battezza”. E “sono lì / …trepidanti,
nell’attesa / di nuove corse da donare al cielo.”
“E poi la morte. Dove andranno a morire
/…. / …Sarà forse il destino / a riservare loro un angolino?”. Il “forse” non è
eliso soltanto per mancanza di prove e, se permane, non è certo per intenzioni
dubitative.
I
dintorni della solitudine sono i luoghi, le cose, le persone, gli animali
che il poeta visita lungo il viaggio esistenziale; un viaggio compiuto da solo
(ciascuno di noi cammina con le proprie gambe) ed esclusivamente per questo
motivo, solitario. Tutto attorno c’è un mondo intero.
“Ma ero vivo? / o dentro me costruivo
una coscienza / che non aveva a che fare col reale?” - si domanda nel poemetto
conclusivo (di dantesca memoria) - e la sua Virgilio è una dea, Silva, che gli
dice: “Quello che vedi è fumo, / è solamente parte di un tuo sogno…”. Poi,
Silva si dissolve ed è soppiantata da una voce che indica un’altra via:
“Ripartendo da lì, / dalla vita concreta, dai dolori del mondo, / potrai
incontrare Silva, la bellezza, /…. / per ora godi il tempo di un traguardo /
che ti rivede a casa, a casa tua…”.
Vi sembra un viaggio destinato a
perdersi? Niente di tutto questo: non è un addentrarsi negli inferi (come per
Orfeo), è un ritorno ad Itaca (come per Ulisse); non un viaggio verso le
tenebre ma verso la luce.
Sandro
Angelucci
Nazario
Pardini. I dintorni della solitudine. Guido Miano Editore. Milano. 2019. €
10,00
Mnemosyne, la fonte della Memoria, deve purificarsi nel Lete, il fiume della Dimenticanza, per poter diventare Poesia. E' grazie a quell'oblio che il ricordo si decanta e smarrisce la sua mestizia, i suoi artigli che imprigionano nel passato, trasformandosi in linfa fresca e vitale per l'oggi e il domani. E' questo il miracolo della vera poesia, appesa all'unità dei contrari, capace di estrarre il nero dal bianco, la gioia dal pianto e dalla morte la vita. Concordo pienamente con l'esegesi di Sandro, tesa a mostrare come il canto pardiniano non abbia alcunché di antiquario o di superato. E' il dolore lenito della memoria, ovvero il fiume in piena della vita, che, nella sua corsa travolgente e vorticosa, raccoglie e trascina ogni angoscia, ogni negazione, trasformandola in slancio vitale, in nuova sfida.
RispondiEliminaFranco Campegiani
E Sandro ha centrato aspetti della Silloge del nostro Condottiero che mi avevano colpito e che non sono riuscita a esplicitare, come purtroppo mi accade spesso. La natura toscana, che si 'tocca, si sente, si vive', il mare e la terra, cari allo stesso modo al nostro Poeta, la volontà inconscia di indurre il lettore a 'riscoprirsi di nuovo'. Sandro è nato per leggere i testi e le vite. Lo ringrazio per le lezioni che sa impartire con infinita umiltà. La chiusa la sento anche mia. Si tratta di un ritorno, non di una partenza...
RispondiEliminaChe meraviglia confrontarsi su una Silloge simile! Ringrazio tutti, perchè da tutti ho solo da imparare!
Maria Rizzi
Un’ottima operazione di lettura critica quella di S. Angelucci, che sa soffermarsi sui singoli versi pardiniani cogliendone valore e spessore, psicologia e storia, sa confrontare, interpretare e distinguere (Vedi l’analisi de L’incendio dei papaveri): una operazione critica raffinata di un lettore forte e consapevole. Vale la pena di ripensarla, dopo aver riletto i versi del Nostro.
RispondiEliminaRingrazio Maria, Maria Grazia e Franco per essersi espressi e soffermati sulla mia lettura de "I dintorni della solitudine" e anche chi non l'ha fatto ma ugualmente si dedica con passione alla letteratura.
RispondiEliminaSandro Angelucci