sabato 20 aprile 2019

N. PARDINI LEGGE: "LUNAMAJELLA" DI G. PIERO STEFANONI



Gian Piero Stefanoni. Lunamajella. Edizioni Cofine. Roma. 2019

LUNAMAJELLA

Lunamajella, globo sospeso
che quasi ci tocca, verso Palena
ma è come verso Marte: astronave
che s’innalza e s’intaglia alle sue coste

lasciandoci come migratori passare.

Eppure vagando non avremmo
che macchie,

altre aquile in volo.

Dalle feritoie riva verde, sorgente.
Grande addormentato animale.

Una plaquette di largo respiro, in cui l’autore con slanci di empatia costruttiva, si congiunge alla terra, al mare, alla campagna, a Fara San Martino, a Civitella, inventando unioni di simbolica resa, costruzioni di rara efficacia visiva: segmentazioni, ellittiche iuncturae, invenzioni verbali, accostamenti imprevisti, tutto contribuisce a rendere efficace il discorso poetico. 


Semplice nella sua veste grafica con la Lunamajella in copetina e in quarta un lacerto della prefazione di Anna Maria Curci, il libro fa da prodromicio invito alla lettura di 36 poesie che parlano di vita, di luoghi, di vicissitudini, di memorie, di storia e di armonie. Sì, di armonie, dacché la poesia di Stefanoni si diluisce su uno spartito musicale fatto di alti e bassi che segmentano le emozioni e il tracciato  canoro dello spettro. Seguire la sua armonia, significa amare il canto, i suoi risvolti, le sue ondulazioni; amare la vita con tutta la sua portata epigrammatica, dacché qui c’è tutta con la simbologia  emotivo-rappresentativa di una terra in cui le radici affondano e si allargano fino ad abbracciarla in una rete vincolante, dove “… l’uomo lungo il pianoro/svanendo al vallone/ è terra che resta nella semina/ fredda del lutto, nel grido/ che dà sempre – anche a sera –/ il suo frutto”; e dove “Il sasso strappato all’ulivo rileva/una separazione dell’acqua e del germoglio -/ del campo – il ventre rivolto dell’uccello…”; e dove “ … Respira la tua paura/ l’abbocco della valle, si ferma/solo quando ti allontani…”. Le iperboli e le metafore unite alle intuizioni creative danno ampi spazi al dettato poetico, all’architettura metrica, ai significanti aggrappati ai significati, e tutto è morbido e arrivante, nuovo e innovativo, non di certo frutto di positure di tipo prosastico, di riforme senza senso che tanto male hanno fatto e continuano a fare al focus del poema. Qui tutto è scorrevole, fluente, ontologicamente vissuto; i versi si susseguono con vari moduli metrici, più vasti, meno, ma sempre trapunti da accostamenti umani che li rendono vicini: “Giacché/ anche tu cerchi sbocco/ nell’autunno di viole/ che di noi non si scorda -/ un azzurro, un giallo/ e un rosso per chi resta/ ora che le anime/ come uccelli si lanciano -/ più non si guardano torve - / verdi in un lago verde di monti/  dentro quel cielo/ che mai vuole perderci” (Lunamajella (VII)). I raddoppiamenti verbali, gli anacoluti, gli intrighi lessicali, gli accostamenti cromatici non sono altro che concretizzazioni di stati emotivi di fronte alla maestosità della bellezza. La Natura si fa interprete e compagna di viaggio: prende il poeta per mano e lo accompagna nei meandri della sua anima, lo stordisce, lo inibisce, lo frastorna con la potenza delle sue altitudini. Il poeta è là che vuole volare, oltre le cose finite, portandosi dietro però il peso del profumo della terra che ama; della parola che non riesce a staccarsi dai suoi dintorni dacché ne è linfa, sangue; scorre nelle vene di Lunamajella, e resta appiccicata alla roccia per garantirne la preziosità con i suoi tocchi dialettali, di memoria abruzzese d’area teatino-frentana:

LA ROCCE

Da lùteme vè la piove a rompe lu dubbetà
lu fàvezze ‘nsanguenate dell’ùmmene.
Benedetta rocce assetate ‘npette,
vattute da lu tempe, maldette da lu core.
Se pije lu rane lu taje che ce vò.              
                                                
Nazario Pardini    

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