giovedì 11 aprile 2019

NAZARIO LEGGE: "ITINERARI (FORSE) DESUETI" DI M. G. FERRARIS

Maria Grazia Ferraris,
collaboratrice di Lèucade


M. Grazia Ferraris. Itinerari (forse) desueti. Edizioni Helicon. Arezzo. 2019

(…)
Confezionavi poi le varie parti
con veloce e felice sicurezza.
Stiravi attenta il tuo capolavoro:
me lo presentavi zitta, in attesa
del responso mio un po’ lunatico.
Era tutto bellissimo e perfetto, lo so,
Mamma, grazie ancora (Il maglione).


Melodia, trabocco di sentimento, rievocazione, palpabile sintonia con oggetti che hanno fatto parte di un vissuto, vita, amore, immagini, fresche e antiche ricordanze, scosse emotive, tutto si fa  nostalgico e  melanconico; sì, melanconico per non avere detto o fatto cose che una volta sembravano ovvie e che ora, alla luce del tempo, assumono connotati umanamente spossanti. E’ qui la naturalezza e la sinfonia del canto di Maria Grazia. Lo pesca dal fondo della memoria, non ultimato e confezionato, ma da rifinire con parole dettate da un maglione, da una casa, da un’attesa… Da tutte quelle occasioni che si sono sperse nelle macerie degli anni. 
Partiamo da qui per affondare la penna nel cuore della plaquette che mi è giunto oggi, 4 aprile, per bontà della Ferraris: ITINERARI (FORSE) DESUETI. Un bel libro di poesie: 45, in tutto, precedute da una esegesi introduttiva a firma dell’Autrice. Affondi di natura esistenzialistica, psicanalitica, naturalistica che lasciano l’anima a vagare su ambienti che hanno avuto un grande apporto sulla sua formazione umana e poetica: da Al lago a La casa, da Gavirate d’inverno  a Il mio paese, da Firenze a Pisa, da Lucca a Siena, da Venezia a Roma, da Autunno a Alberi nudi, a Maternale… Una intensa perlustrazione in cui l’anima si carica di immagini e memorie da riportare a casa per il bene del poièin: memorie, ritorni, affetti, quadri e accadimenti sedimentati dentro e disposti a nuova vita. Credo sia importante per introdurre questo nostro scritto riportare un lacerto tratto dalla introduzione: “… Nel tempo, nella memoria avviene in ogni caso con tappe impreviste e diverse il viaggio di recupero degli affetti; lo testimonia il gruppo di poesie dal titolo Maternale…, ma avviene nella rievocazione anche la conquista di una maggiore consapevolezza di sé e della propria storia”.       
Consapevolezza, storia: un aveu in presa diretta di tante occasioni che hanno formato tappe determinanti di un  vissuto. Tappe però che si sono trasformate in immagini
e noi sappiamo la profonda differenza che corre tra immagine e scussa realtà; il reale si è fatto nuovo, contornato da pathos, energia emotiva, saudade, sentimenti vari. Bisognerebbe far capire a tanti critici in cosa consiste la vera poesia, quella che fa del vissuto la materia prima del canto. Eliminare questo dato significherebbe annullare il canto; l’elemento di un insieme che mai potrà essere amorfo, impersonale, minimalisticamente realistico.  
Parlare della poesia di Maria Grazia significa penetrare negli angoli più profondi del suo esistere, dacché Ella, sebbene scrittrice versatile e disposta ad adattare ogni tipo di narrazione alla sua indomabile ricerca, è l’arte di Orfeo che ama e sempre ha amato. Quell’arte che le permette di conciliare le forze ontologiche con iuncturae concise o espanse in base alla richiesta dell’animo; con l’essenzialità della riflessione; con le meditazioni fulminanti che richiedono immediatezza e prontezza espressiva. La conferma la troviamo da subito nella poesia incipitaria dedicata alla  musa:
 (…)
“-Ah, non mi lasciare, misteriosa Musa!, ti prego, / torna coi fiori che pur si spampanano nel vento,/ con la sabbia impalpabile della imperturbabile/ clessidra, consolazione ultima ed inevitabile/ nel silenzio della mia solitaria sera” (La mia Musa). Il discorso si fa subito ampio e generoso, amabile e fluente, dove gli accordi consonantici e rimici, e gli abbrivi sinestetici ci pongono di fronte ad un versificare legato alla nostra tradizione più che a tentativi innovativi tipo riforma prosastica intenti a cancellare ogni influenza memoriale, autobiografica, e musicale della architettura poematica. E qui la Ferraris con la sua epica introduzione al poema sembra quasi richiamare un odisseico viaggio omerico; una invocazione alla Musa. E si fa subito vita, esistenza, vicissitudine il suo dire. Si toccano in questa invocazione dei punti fermi dell’esistenzialismo corrente; dello splenetico abbrivo epigrammatico: solitudine, sera, inquietudine, questioni e risposte lasciate al mistero della stessa poesia “Da quale maestrale, da quale mare inesplorato,/ da quale città sepolta te ne vieni?” (Ibidem). E’ come pretendere dal vento verità dinanzi alle quali la vita non ha risposta. La sera, la simbolica quanto mai palpabile condizione umana di fronte al mistero del redde rationem: chi siamo? E il nostro futuro? E il nostro patrimonio memoriale? Saranno le meditazioni sul rosso serale a dare risposte alle nostre inquietudini? E quale arte migliore di quella della poesia ci può fare indagare sull’esistere e sui dilemmi del quando e del dove. Insomma il primo verso ci fa da prodromico avvio, da antiporta ad uno spartito che con le sue note ci compone una sinfonia di acuti wagneriani. Gli alti ed i bassi, le alzate e le rattenute, le pause e le espansioni non sono altro che reificazioni di stati d’animo; ondulazioni emotive scatenate dal fluire della romanza. Fare della vita un’opera d’arte, non è facile. Occorrono impennate verticali, ascese di onirica fattura, impressioni di un realismo fattosi cuore del nostro essere; ma soprattutto occorre un linguismo che sappia correre svelto e pronto dietro i grovigli che l’animo partorisce in stato di grazia. E qui c’è lo stato di grazia, il verbo che si fa servo di una storia, aiutante indefesso degli stadi spirituali, sia che si imbatta col profumo della rosa (nessun profumo potrà mai rivaleggiare…), sia che  contempli lo scintillio del lungolago (Scintilla il lungolago come dama al sole…), sia che incontri la casa quieta nell’attesa (Era silenzio intorno, muto no non già…), sia che scorrazzi per Gavinate d’inverno alla ricerca delle radici (della terra, del lago, della montagna alta…). Tutto è personale, tutto è desto; tutto è diretto a tradurre suoni e colori nella poesia dell’homme. E se la poetessa si abbandona ad un viaggio estremamente umano, troppo umano, alla ricerca di un’isola che la conduca a ritrovare se stessa, lo fa per tirare un bilancio sul suo esistere: “… Dentro… le emozioni incoffessate, stupefatte/ di pensieri vanamente consumati/ in metafisiche oniriche viste quotidiane./ Ricerca di fedele consistenza: viaggio” (Viaggio), dacché sa e conosce il valore simbolico de La preja buja (la pietra scura/buia):

La preja buja. Sta dentro di me, immobile
megalite. Scura o buca?  Buja perché?
Entrambe fanno parte della mia storia.
A ritroso percorro le mie origini.
Ciascuno in sé porta il suo futuro, scritto.
Un palinsesto bucato da ritrovare, scavare,
con la magica pazienza degli antenati.
La preja: il titolo d’attrazione
dei bambini d’allora: ma il magnete
impazzisce, il futuro previsto si dilegua:
aspettare che discenda un’acqua e ci bagni
fino a che la preja misteriosa buja divenga.
Scozzòla antica che chiede il suo pedaggio:
è così chiaro il mistero…

E forse nemmeno la poesia può svelare il mistero che circonda gli abbrivi della vita, la natura dei sogni, e l’attracco all’isola agognata.
                         
Nazario Pardini
 

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