martedì 16 aprile 2019

FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "MARINA CVETAEVA..." DI M. G. FERRARIS




Su iniziativa del Circolo IPLAC

Marina Cvetàeva nella riflessione di Maria Grazia Ferraris
Il saggio è stato presentato sabato 13 aprile presso la libreria Hora Felix di Roma
Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade



L'elaborato di cui oggi parliamo riguarda una delle voci poetiche più significative del Novecento letterario russo, Marina Cvetàeva, nata nel 1892 e scomparsa in circostanze tragiche, per suicidio, nel 1941: figura che appartiene a quel ricco gruppo di intellettuali che la rivoluzione d'ottobre costrinse all'esodo, vivendo sulla propria pelle il doloroso divario tra potere e poesia, tra utopia e realtà. Autrice del saggio è Maria Grazia Ferraris, scrittrice poliedrica che intreccia da sempre severità di studi e sognante romanticismo, acribia critica e voli di poetica levità. Eccellenti le sue ricerche sul mito, i suoi lavori su Gianni Rodari, il re della fiaba, e davvero pregevoli le sue escursioni nell'ambito della letteratura femminile di ogni tempo.
Questo saggio pone in luce la lunga riflessione amorosa portata avanti con spregiudicatezza ed originalità dalla poetessa russa, mettendo a fuoco il suo anticonformismo e la sua sublime concezione dell'amore destinata a cozzare terribilmente con la realtà. Un'ansia di assolutezza e di purezza, di interiore verginità, che contrasta con il piano sensoriale, dove la passionalità la fa da padrona, schiavizzando gli umani e tarpandone le ali, frenando le spinte ascensionali e moltiplicando la forza di gravità. La sensualità imprigiona, laddove l'amore cosiddetto platonico dona libertà: questo il credo della poetessa, e di questo parla la Ferraris nel saggio, sospendendo il giudizio e partecipando con umana emozione a questa visione del mondo.
Amore come fuoco spirituale, come desiderio inappagato e inappagabile sul piano materiale. Non si fraintenda tuttavia in senso ascetico questa spiritualità. Qui non c'è punizione dei sensi, volontà di castigarli in quanto troppo invadenti; al contrario, c'è una svalutazione radicale della carnalità: "Io non capisco la carne come tale, dice la poetessa, non le riconosco alcun diritto, soprattutto quello alla voce che io non ho mai udito. Io e lei - che è evidentemente la padrona di casa - non ci conosciamo". Sposata, con due figli, ha un concetto non esaltante del matrimonio: "Matrimonio e amore, lei dice, annientano la personalità: è una prova tremenda". Quello matrimoniale, per lei, è "un non-amore che getta la donna nella solitudine e nell'oblio".
Tanto che, scrivendo, a distanza di anni, a un amico, commenta: "E' stato il mio ultimo amore, cioè il primo e l'ultimo... il più basso... senza alcun disprezzo... di vallata... la cosa più bassa che esista, il livello stesso della bassezza". Quello della Cvetaeva è in fondo il tema romantico, ma io direi anche trobadorico e rudelliano, cavalleresco e platonico, dell'amore impossibile. Desiderio e sogno d'amore sostanzialmente mascolino e tragico, orfico e metafisico, sempre e comunque proiettato nell'oltre e tutto da conquistare. Non a caso, dice la Ferraris, questa voce poetica "fu apprezzata da poeti quali Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, che la definì "una donna dall'anima mascolina, risoluta, guerriera, indomabile".
Tra le leggende russe, ricorda la Ferraris, circola la figura di un personaggio femminile di particolare rilievo: la vergine guerriera, l'Amazzone appunto, che s'innamora di un giovane tenero e fragile, rovesciando i ruoli tra mascolino e femminino. La Cvetaeva cattura questo personaggio in alcuni suoi racconti biografici, ma soprattutto ne il Prode del 1923, un poemetto che è la storia di Marusja e di un vampiro, dove questa vocazione sacrificale e metafisica dell'amore viene confermata ampiamente. La scrittrice, proprio come Marusja, è lei stessa un'Amazzone, simile in ciò ai nobili cavalieri provenzali, sprezzanti del pericolo e sempre in cerca di eroiche azioni da compiere, sacrificandosi in nome dell'amata.
Amor de lohn, con la variante, dovuta certo alla femminilità, di farsi desiderare, molto più che di desiderare. Quello che Marina cerca, argomenta la Ferraris citandola, non è l'altro, ma quello che, dell'altro, "è il suo bisogno di me, il mio essergli necessaria (e se possibile indispensabile)". E' il manifesto della poesia occitanica tradotto al femminile. Secondo quel manifesto il desiderio amoroso è fine a se stesso, non può e non deve essere appagato nel piano fisico, pena l'estinzione del desiderio stesso e dell'amore. Non ha senso, dice la poetessa, "bere per ribere ancora... preferisco conservare tutta la mia sete". Per questo l'amor cortese non è realizzabile nel matrimonio ed è per definizione un amore adultero.
Da qui l'amore della Cvetaeva per i molti, vissuto, dice Maria Grazia, come "infatuazione, mitizzazione, partorito dal sogno e dal desiderio, alimentato da lontano, con rapporti epistolari traboccanti, e l'abiura del corpo, destinato al fallimento, alla delusione e alla disperazione". In un solo caso - con un ufficiale russo che aveva abbandonato la Russia bolscevica - la poetessa riesce a vivere un amore intenso e appassionato, amore tuttavia troncato nel momento del massimo splendore perché troppo pieno e felice: "Compito suo è la vita, cioè dimenticarmi", commenta Marina. La vita come fuga dall'Essere, dalla Verità. Lei non riesce a vivere, questo è il punto: "Io non voglio morire, io voglio non esistere", lascerà scritto prima di impiccarsi.
Amò anche donne, non soltanto uomini. Le amò di un amore angelico, sublime, dolcissimo. Non violento, certamente, ma non meno drammatico. Come quello per la giovane attrice Sonecka: "Non ricordo di averla mai baciata, tranne che col bacio consueto, quasi meccanico, del buongiorno o del commiato. Non era per me una sorta di cattiva - o buona - vergogna...: l'amavo troppo, tutto era di meno. Perché un bacio, quando non si ama, dice troppo, e quando si ama dice troppo poco". La realtà non è mai all'altezza del sogno, per cui il vero amore non può mai essere vissuto nei sensi - lei pensa - e può realizzarsi soltanto attraverso formule di elevazione spirituale e di astrazione altissima.
"Non corpo, ma fuoco" è quello di Sonecka. "Davanti a me è un incendio vivo. Tutto arde, lei arde tutta". La tragedia è implicita in questa visione del mondo: "Io non amo, non so amare nulla veramente", confessa infatti a un'amica, "non so vivere nei giorni e ogni giorno vivo fuori di me. E' una malattia inguaribile e si chiama anima". E' questa la malattia della Cevtaeva, sublime creatura che vede nei limiti della materia e nella sua contingenza, una miseria ed una schiavitù intollerabili. Lei vuole di più, immensamente di più di quello che la materia può offrire. I suoi amori sono al di là del mondo: "Il tipo di rapporto che io preferisco è ultraterreno: il sogno, la lettera"; "l'amore vive di parole e muore di atti", dice. Non pensa che la stessa parola è un atto.
Amor de lohn. Amori lontani e assenti, agli antipodi di quella incarnata e sanguigna spiritualità che fu propria dei culti misterici femminili dei tempi più arcaici. Questo saggio è una stimolante riflessione sui temi della femminilità. E interessante, a proposito dell'amore tra donne, il raffronto che la Ferraris svolge tra la Cvetaeva e la Clifford Barney, fautrice, negli stessi anni, di un'omosessualità femminile fondata sull'estetico e sfrenato abbandono ai sensi. Al mito amazzonio della Barney, la Cvetaeva oppone un mito che a mio parere potremmo definire saffico. Alla prima che attinge alla bisessualità dell'androgino, l'altra fa notare che sul piano sessuale è l'eterosessualità a dominare, con "l'ineluttabile trionfo della natura procreatrice".  
La Cevtaeva, dice la Ferraris, si occupò a lungo di mitologia greca, con riferimento a figure femminili emblematiche (Arianna, Fedra, Elena, e via dicendo). Venere rappresenta l'amore che lei non condivide, un amore che a suo parere imprigiona. Il suo contrario è Psiche, ovvero l'anima cui lei aspira ardentemente. Ed è il sogno, "la via maestra per cui Psiche si fa manifesta". Nel sogno, lei dice, "tutto si avvera", ma la verità di cui parla non è carnale, è ideale. Non è un sogno destinato alla terra, una verità che si incarna, bensì un sogno evasivo che sfuma e si disperde nel cielo. La poetessa non mostra di credere che cielo e terra possano essere una cosa sola. Crede che i sensi siano un inganno, mentre l'inganno - io credo - è solo e sempre mentale.
L'ultimo capitolo è dedicato al teatro, ossia al mascheramento, alla vanità, alla finzione. Marina - riporta la Ferraris - dichiara di non avere rispetto per il teatro, che sente violento, allo stesso modo in cui sente violenta la vita con le sue false promesse, con la sua natura menzognera. Eppure, o forse proprio per questo, lei presta molte attenzioni al teatro. E la Ferraris sviluppa attente pagine all'esame di un suo testo teatrale: Phoenix, dedicato a Casanova, il potente seduttore del Settecento, riportandone il lamento struggente che "estrinseca il tema della vecchiaia: la perdita dell'amore e della vita", proprio nel mentre una giovanissima ragazza, Francesca, gli si dichiara con passione. Il vecchio libertino, devastato dall'età, deve rinunciare.

Franco Campegiani






   

2 commenti:

  1. Ringrazio per l’attenta analisi F. Campegiani che, mettendo a fuoco l’anticonformismo e la sublime concezione dell'amore di ascendenza romantica della poetessa coglie come sia destinata a cozzare con la realtà: Amore come fuoco spirituale, come desiderio inappagato e inappagabile sul piano materiale. Molto originale l’interpretazione: “Quello della Cvetaeva è in fondo tema anche trobadorico e rudelliano, cavalleresco e platonico, dell'amore impossibile. Desiderio e sogno d'amore sostanzialmente mascolino e tragico, orfico e metafisico, sempre e comunque proiettato nell'oltre e tutto da conquistare..”, “una vergine guerriera, l'Amazzone appunto, che s'innamora di un giovane tenero e fragile, rovesciando i ruoli tra mascolino e femminino. Amor de lohn, con la variante, dovuta certo alla femminilità, di farsi desiderare, molto più che di desiderare”.
    F. C. propone anche una stimolante e interessante riflessione sui temi della femminilità, come quello dell'amore tra donne. Al mito amazzonico, la Cvetaeva oppone “un mito che a mio parere potremmo definire saffico. Il primo che attinge alla bisessualità dell'androgino, l'altro fa dominare l'eterosessualità, con "l'ineluttabile trionfo della natura procreatrice".

    RispondiElimina
  2. Mi intrometto in questo dialogo tra 'giganti' per sottolineare quanto ci abbia arricchito l'evento di Maria Grazia Ferraris, che per il suo libro al femminile ha trovato tre uomini capaci di sviscerare l'anima della più grande poetessa russa. Franco si è calato nelle ombre, ma soprattutto nella luce di Marina Cvetàeva, mettendo a fuoco la forza, il coraggio e lo strazio della sua vita. Le parole dell'Autrice e la lettura della lirica di Marina "Il treno" hanno reso filmica la serata. La poetessa russa era tra di noi e il suo cuore palpitava all'unisono con i nostri. Ringrazio Franco, il lettore teatrale Massimo Chiacchiararelli e Maria Grazia per questo Dono indimenticabile. Porgo a tutti gli ospiti del blog cari, dolci auguri.
    Maria Rizzi

    RispondiElimina