Su iniziativa del Circolo IPLAC
Marina
Cvetàeva nella riflessione di Maria Grazia Ferraris
Il
saggio è stato presentato sabato 13 aprile presso la libreria Hora Felix di
Roma
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
L'elaborato di cui
oggi parliamo riguarda una delle voci poetiche più significative del Novecento
letterario russo, Marina Cvetàeva, nata nel 1892 e scomparsa in circostanze
tragiche, per suicidio, nel 1941: figura che appartiene a quel ricco gruppo di
intellettuali che la rivoluzione d'ottobre costrinse all'esodo, vivendo sulla
propria pelle il doloroso divario tra potere e poesia, tra utopia e realtà. Autrice
del saggio è Maria Grazia Ferraris, scrittrice poliedrica che intreccia da
sempre severità di studi e sognante romanticismo, acribia critica e voli di
poetica levità. Eccellenti le sue ricerche sul mito, i suoi lavori su Gianni
Rodari, il re della fiaba, e davvero pregevoli le sue escursioni nell'ambito
della letteratura femminile di ogni tempo.
Questo saggio pone
in luce la lunga riflessione amorosa portata avanti con spregiudicatezza ed
originalità dalla poetessa russa, mettendo a fuoco il suo anticonformismo e la
sua sublime concezione dell'amore destinata a cozzare terribilmente con la
realtà. Un'ansia di assolutezza e di purezza, di interiore verginità, che
contrasta con il piano sensoriale, dove la passionalità la fa da padrona,
schiavizzando gli umani e tarpandone le ali, frenando le spinte ascensionali e moltiplicando
la forza di gravità. La sensualità imprigiona, laddove l'amore cosiddetto
platonico dona libertà: questo il credo della poetessa, e di questo parla la
Ferraris nel saggio, sospendendo il giudizio e partecipando con umana emozione
a questa visione del mondo.
Amore come fuoco
spirituale, come desiderio inappagato e inappagabile sul piano materiale. Non si
fraintenda tuttavia in senso ascetico questa spiritualità. Qui non c'è
punizione dei sensi, volontà di castigarli in quanto troppo invadenti; al
contrario, c'è una svalutazione radicale della carnalità: "Io non capisco
la carne come tale, dice la poetessa, non le riconosco alcun diritto,
soprattutto quello alla voce che io non ho mai udito. Io e lei - che è
evidentemente la padrona di casa - non ci conosciamo". Sposata, con due
figli, ha un concetto non esaltante del matrimonio: "Matrimonio e amore,
lei dice, annientano la personalità: è una prova tremenda". Quello
matrimoniale, per lei, è "un non-amore che getta la donna nella solitudine
e nell'oblio".
Tanto che,
scrivendo, a distanza di anni, a un amico, commenta: "E' stato il mio
ultimo amore, cioè il primo e l'ultimo... il più basso... senza alcun
disprezzo... di vallata... la cosa più bassa che esista, il livello stesso
della bassezza". Quello della Cvetaeva è in fondo il tema romantico, ma io
direi anche trobadorico e rudelliano, cavalleresco e platonico, dell'amore
impossibile. Desiderio e sogno d'amore sostanzialmente mascolino e tragico,
orfico e metafisico, sempre e comunque proiettato nell'oltre e tutto da
conquistare. Non a caso, dice la Ferraris, questa voce poetica "fu apprezzata
da poeti quali Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, che la definì "una donna dall'anima mascolina, risoluta,
guerriera, indomabile".
Tra le leggende
russe, ricorda la Ferraris, circola la figura di un personaggio femminile di
particolare rilievo: la vergine guerriera, l'Amazzone appunto, che s'innamora
di un giovane tenero e fragile, rovesciando i ruoli tra mascolino e femminino.
La Cvetaeva cattura questo personaggio in alcuni suoi racconti biografici, ma
soprattutto ne il Prode del 1923, un
poemetto che è la storia di Marusja e di un vampiro, dove questa vocazione sacrificale
e metafisica dell'amore viene confermata ampiamente. La scrittrice, proprio
come Marusja, è lei stessa un'Amazzone, simile in ciò ai nobili cavalieri provenzali,
sprezzanti del pericolo e sempre in cerca di eroiche azioni da compiere,
sacrificandosi in nome dell'amata.
Amor de lohn, con
la variante, dovuta certo alla femminilità, di farsi desiderare, molto più che
di desiderare. Quello che Marina cerca, argomenta la Ferraris citandola, non è
l'altro, ma quello che, dell'altro, "è il suo bisogno di me, il mio
essergli necessaria (e se possibile indispensabile)". E' il manifesto della
poesia occitanica tradotto al femminile. Secondo quel manifesto il desiderio
amoroso è fine a se stesso, non può e non deve essere appagato nel piano
fisico, pena l'estinzione del desiderio stesso e dell'amore. Non ha senso, dice
la poetessa, "bere per ribere ancora... preferisco conservare tutta la mia
sete". Per questo l'amor cortese non
è realizzabile nel matrimonio ed è per definizione un amore adultero.
Da qui l'amore della
Cvetaeva per i molti, vissuto, dice Maria Grazia, come "infatuazione,
mitizzazione, partorito dal sogno e dal desiderio, alimentato da lontano, con
rapporti epistolari traboccanti, e l'abiura del corpo, destinato al fallimento,
alla delusione e alla disperazione". In un solo caso - con un ufficiale
russo che aveva abbandonato la Russia bolscevica - la poetessa riesce a vivere
un amore intenso e appassionato, amore tuttavia troncato nel momento del massimo
splendore perché troppo pieno e felice: "Compito suo è la vita, cioè
dimenticarmi", commenta Marina. La vita come fuga dall'Essere, dalla
Verità. Lei non riesce a vivere, questo è il punto: "Io non voglio morire,
io voglio non esistere", lascerà scritto prima di impiccarsi.
Amò anche donne, non
soltanto uomini. Le amò di un amore angelico, sublime, dolcissimo. Non violento,
certamente, ma non meno drammatico. Come quello per la giovane attrice Sonecka:
"Non ricordo di averla mai baciata, tranne che col bacio consueto, quasi
meccanico, del buongiorno o del commiato. Non era per me una sorta di cattiva -
o buona - vergogna...: l'amavo troppo, tutto era di meno. Perché un bacio,
quando non si ama, dice troppo, e quando si ama dice troppo poco". La
realtà non è mai all'altezza del sogno, per cui il vero amore non può mai
essere vissuto nei sensi - lei pensa - e può realizzarsi soltanto attraverso
formule di elevazione spirituale e di astrazione altissima.
"Non corpo, ma
fuoco" è quello di Sonecka. "Davanti a me è un incendio vivo. Tutto
arde, lei arde tutta". La tragedia è implicita in questa visione del mondo:
"Io non amo, non so amare nulla veramente", confessa infatti a
un'amica, "non so vivere nei giorni e ogni giorno vivo fuori di me. E' una
malattia inguaribile e si chiama anima". E' questa la malattia della
Cevtaeva, sublime creatura che vede nei limiti della materia e nella sua
contingenza, una miseria ed una schiavitù intollerabili. Lei vuole di più,
immensamente di più di quello che la materia può offrire. I suoi amori sono al
di là del mondo: "Il tipo di rapporto che io preferisco è ultraterreno: il
sogno, la lettera"; "l'amore vive di parole e muore di atti",
dice. Non pensa che la stessa parola è un atto.
Amor de lohn. Amori
lontani e assenti, agli antipodi di quella incarnata e sanguigna spiritualità
che fu propria dei culti misterici femminili dei tempi più arcaici. Questo
saggio è una stimolante riflessione sui temi della femminilità. E interessante,
a proposito dell'amore tra donne, il raffronto che la Ferraris svolge tra la
Cvetaeva e la Clifford Barney, fautrice, negli stessi anni, di un'omosessualità
femminile fondata sull'estetico e sfrenato abbandono ai sensi. Al mito amazzonio della Barney, la Cvetaeva
oppone un mito che a mio parere potremmo definire saffico. Alla prima che attinge alla bisessualità dell'androgino, l'altra fa notare che sul
piano sessuale è l'eterosessualità a dominare, con "l'ineluttabile trionfo
della natura procreatrice".
La Cevtaeva, dice la
Ferraris, si occupò a lungo di mitologia greca, con riferimento a figure
femminili emblematiche (Arianna, Fedra, Elena, e via dicendo). Venere
rappresenta l'amore che lei non condivide, un amore che a suo parere imprigiona.
Il suo contrario è Psiche, ovvero l'anima cui lei aspira ardentemente. Ed è il
sogno, "la via maestra per cui Psiche si fa manifesta". Nel sogno,
lei dice, "tutto si avvera", ma la verità di cui parla non è carnale,
è ideale. Non è un sogno destinato alla terra, una verità che si incarna, bensì
un sogno evasivo che sfuma e si disperde nel cielo. La poetessa non mostra di
credere che cielo e terra possano essere una cosa sola. Crede che i sensi siano
un inganno, mentre l'inganno - io credo - è solo e sempre mentale.
L'ultimo capitolo è
dedicato al teatro, ossia al mascheramento, alla vanità, alla finzione. Marina
- riporta la Ferraris - dichiara di non avere rispetto per il teatro, che sente
violento, allo stesso modo in cui sente violenta la vita con le sue false
promesse, con la sua natura menzognera. Eppure, o forse proprio per questo, lei
presta molte attenzioni al teatro. E la Ferraris sviluppa attente pagine
all'esame di un suo testo teatrale: Phoenix,
dedicato a Casanova, il potente seduttore del Settecento, riportandone il
lamento struggente che "estrinseca il tema della vecchiaia: la perdita
dell'amore e della vita", proprio nel mentre una giovanissima ragazza,
Francesca, gli si dichiara con passione. Il vecchio libertino, devastato
dall'età, deve rinunciare.
Franco Campegiani
Ringrazio per l’attenta analisi F. Campegiani che, mettendo a fuoco l’anticonformismo e la sublime concezione dell'amore di ascendenza romantica della poetessa coglie come sia destinata a cozzare con la realtà: Amore come fuoco spirituale, come desiderio inappagato e inappagabile sul piano materiale. Molto originale l’interpretazione: “Quello della Cvetaeva è in fondo tema anche trobadorico e rudelliano, cavalleresco e platonico, dell'amore impossibile. Desiderio e sogno d'amore sostanzialmente mascolino e tragico, orfico e metafisico, sempre e comunque proiettato nell'oltre e tutto da conquistare..”, “una vergine guerriera, l'Amazzone appunto, che s'innamora di un giovane tenero e fragile, rovesciando i ruoli tra mascolino e femminino. Amor de lohn, con la variante, dovuta certo alla femminilità, di farsi desiderare, molto più che di desiderare”.
RispondiEliminaF. C. propone anche una stimolante e interessante riflessione sui temi della femminilità, come quello dell'amore tra donne. Al mito amazzonico, la Cvetaeva oppone “un mito che a mio parere potremmo definire saffico. Il primo che attinge alla bisessualità dell'androgino, l'altro fa dominare l'eterosessualità, con "l'ineluttabile trionfo della natura procreatrice".
Mi intrometto in questo dialogo tra 'giganti' per sottolineare quanto ci abbia arricchito l'evento di Maria Grazia Ferraris, che per il suo libro al femminile ha trovato tre uomini capaci di sviscerare l'anima della più grande poetessa russa. Franco si è calato nelle ombre, ma soprattutto nella luce di Marina Cvetàeva, mettendo a fuoco la forza, il coraggio e lo strazio della sua vita. Le parole dell'Autrice e la lettura della lirica di Marina "Il treno" hanno reso filmica la serata. La poetessa russa era tra di noi e il suo cuore palpitava all'unisono con i nostri. Ringrazio Franco, il lettore teatrale Massimo Chiacchiararelli e Maria Grazia per questo Dono indimenticabile. Porgo a tutti gli ospiti del blog cari, dolci auguri.
RispondiEliminaMaria Rizzi