Relazione su “Artemisia e gli
occhi del diavolo”
di Bruno Sacco
Paolo Buzzacconi, collaboratore di Lèucade |
L’idea
di presentare un romanzo sottolineando le sue caratteristiche, ma sorvolando sui
momenti salienti per non togliere ai lettori il piacere della scoperta inizialmente
mi ha creato un po’ di apprensione. Invece mai come in questo caso mi è facile
parlare in modo esaustivo di un opera senza vedermi costretto a svelare troppo
della trama. Il merito è dei numerosi elementi che arricchiscono l’insieme, elementi
che al di la della narrazione danno vita a un caleidoscopio di nozioni ed emozioni
quanto mai avvicenti. “Artemisia e gli occhi del diavolo”, di Bruno Sacco, riesce
ad essere allo stesso tempo fedele ricostruzione di un’affascinante pagina del
passato, appassionata tratteggiatura dei segreti, dei colori e del carattere di
una Napoli meravigliosa ed importante testimonianza dello status sociale delle
donne nel 1600. Ed ancora, la sua lettura ci accompagna nei luoghi, nelle
tecniche e nelle correnti artistiche dell’epoca attingendo dal pregevole
bagaglio culturale dell’autore, che ci racconta gli eventi attraverso i
dialoghi e le gesta degli artisti stessi, da lui resi vivi e reali e inseriti
perfettamente nel contesto sociale e culturale dell’epoca. Ecco, è proprio in
questo aspetto che io vedo il valore aggiunto di quest’opera, nel prezioso
lavoro di ricerca con cui l’autore ha cercato di ricostruire i tasselli mancanti della biografia della
famosa pittrice romana Artemisia Gentileschi, di cui le cronache ufficiali
perdono le tracce nel 1630. Con un attento lavoro di indagine e avvalendosi sia
della datazione che dell’ubicazione delle opere della pittrice e dei suoi
colleghi contemporanei l’autore formula delle ipotesi di frequentazione quanto
mai realistiche e su queste articola il progetto narrativo, in una sorta di
ricostruzione “archeologica” dei fatti. Emblematica in tal senso la descrizione
di un incontro avvenuto tra lei e il maestro Massimo Stanzione nel convento dei
Teatini, ipotesi avvalorata dalla notevole somiglianza tra un autoritratto di
Artemisia e il viso della celebre “Cleopatra” dipinta dal grande pittore
napoletano. Il risultato del suo lavoro
è talmente convincente da suggerire il seguente quesito: fino a che punto è
giusto dar credito alle cronache ufficiali, che potrebbero aver subito una
“revisione” di parte e non affidarsi
invece a una ricostruzione che si avvale di dati certi e obbiettivi? Lascio a
voi il compito di suggerire una risposta, io mi limiterò a sottolineare il
comune denominatore che lega tra loro i tanti aspetti presi in esame: il
fascino. Il fascino di un diciasettesimo secolo dove i grandi cambiamenti della
società e del pensiero si esprimono attraverso l’arte e la cultura , il fascino
dell’eterno scontro tra il bene e il male in un periodo caratterizzato dalla
violenza dell’inquisizione e dal peso della censura, il fascino di una città
pervasa di magia e di umanità, il fascino di una figura femminile dotata di un
coraggio e una determinazione impensabili per quell’epoca ed infine il fascino
degli splendidi incisi filosofici che l’autore ci regala per voce dei suoi
protagonisti. Ve ne cito testualmente alcuni tra i tanti: “Gli uomini tendono a
distruggere ciò che non riescono a capire”, oppure “ Quello che accade
nell’intimo di uno solo può accadere in ognuno di noi” e ancora “ Il pensiero
represso dilaga più fortemente. L’errore, quando c’è, va combattuto con le armi
della dottrina e della ragione” ed infine una splendida citazione in vernacolo
“Nun simme nuje a scegliere che vita avè, ma ’a terra addò nascimmo e
campammo…” . Delle vere perle di saggezza, delle verità coniugabili con il
contesto di allora quanto con quello di oggi. Profonde ed affascinanti, poi, le
considerazioni sulla sua amata Napoli, definita come “ un mondo che esplode di
problemi reali e brulica di fenomeni irreali o incomprensibili… dove attecchisce tutto ciò che altrove sarebbe
destinato a sparire” una Napoli culla di atmosfere talmente uniche da far chiedere
alla protagonista “ se per caso non fosse la previdenza della natura quella di
creare i presupposti necessari per il carattere napoletano, per quel buonumore
dominante altrimenti inspiegabile in un contesto sociale così stento a
precario”. Le descrizioni della Napoli seicentesca si fanno vere e proprie
pennellate poetiche, inserite qua e la durante la narrazione. Dall’immagine dei
vestiti stesi nei vicoli dei quartieri popolari, descritti come “… miseri panni
lavati, policrome bandiere della povertà impegnate a contendersi i raggi di uno
stento sole” a quella del mare al tramonto “ormai immerso nel grigio perla di
un silenzioso crepuscolo, ma prossimo a rinnovarsi di luce all’avvento del bagliore
lunare che sta per proiettarsi sulla superfice, risalendo lentamente
dall’abisso”. Per non parlare poi dei palazzi, delle chiese e dei paesaggi
incantevoli del circondario dove la storia si snoda, scenari che l’autore
riproduce con un realismo e una dovizia di particolari straordinari. Ma
concentriamo la nostra attenzione su Artemisia, la vera protagonista del
romanzo, una donna colta e bellissima, un’artista straordinaria in grado di
trasferire nelle sue opere quella forza, quel coraggio e quella volontà di
indipendenza dimostratati più volte nel fronteggiare le sue vicessitudini
personali, caratteristiche che ne hanno fatto un naturale esempio ante litteram
di femminismo. Chi era in realtà? Artemisia Gentileschi nasce a Roma nel 1593
nel quartiere Campo Marzio, dove riceve il battesimo nella chiesa di San
Lorenzo in Lucina. Figlia di Orazio Gentileschi, apprezzato pittore al servizio
di importanti famiglie nobiliari romane e a ammiratore del Caravaggio, e di
Prudenzia Montone, che muore di parto nel dare alla luce il sesto figlio
lasciandola orfana di madre a soli dodici anni. Il padre ne intuisce subito le potenzialità artistiche e le insegna i
fondamenti dell’arte pittorica, nonostante a quell’epoca la pittura fosse
considerata una prerogativa esclusivamente maschile. Con l’intento di affinare
ulteriormente le sue competenze le affianca come maestro di prospettiva il suo
collega Agostino Tassi, che approfittando della fiducia in lui riposta e della
giovane età di Artemisia – all’epoca diciassettenne – dapprima la violenta e
poi continua per ben nove mesi ad approfittare di lei illudendola con la
promessa di un matrimonio riparatore in realtà impossibile, in quanto lui è già
sposato. Quando l’inganno viene scoperto la giovane e il padre denunciano il
Tassi, ma durante il processo la povera Artemisia viene raffigurata non come
vittima, ma come donna di facili costumi e costretta a umilianti visite
ginecologiche e addirittura per dimostrare che dice il vero deve sottoporsi
alla tortura della sibilla. La sibilla era un supplizio studiato
dall’inquisizione appositamente per i pittori, a cui venivano legate i pollici
con delle cordicelle che venivano poi serrate fino a stritolare le falangi,
ipotesi disastrosa per chi lavorava con i pennelli. Ma questo non fa che
rafforzare il carattere fiero della donna, che affronta tutte quelle malvagità senza
mai ritrattare la sua versione fino a che il processo le da ragione e il Tassi
viene condannato. Ovviamente questo episodio segna in modo indelebile il futuro
di Artemisia e il suo rapporto con il genere maschile da allora rimarrà conflittuale,
nonostante il matrimonio che il padre le combina poco dopo con il pittore Pierantonio
Siattesi di Firenze, dove si trasferisce. Firenze l’accoglie a braccia aperte
consentendole addirittura – prima e unica donna a quei tempi – l’accesso all’Accademia delle arti del
disegno, dove ha modo di conoscere personaggi del calibro di Michelangelo
Buonarroti e Galileo Galiei. Nel 1620 Artemisia dipinge la seconda versione di
una delle sue opere più belle, la famosa “Giuditta che decapita Oloferne” oggi
conservata agli Uffizi, l’immagine in cui molti critici vedono la sua vendetta
“virtuale” su Agostino Tassi, esattamente quella che il nostro autore ha scelto
come immagine di copertina. Ma la parentesi fiorentina non dura a lungo, così
come la serenità coniugale e nonostante la nascita della figlia (Palmira) nel 1621 Artemisia lascia il marito e si
sposta prima a Genova, poi a Roma e dopo una breve permanenza a Venezia nel
1630 arriva Napoli. Ecco, da questo preciso momento inizia il romanzo di Bruno
Sacco, che intreccia sapientemente la realtà storica con personaggi realmente
esistiti, altri di sua creazione e altri ancora figli dell’immagginario
popolare in un crescendo di incontri e colpi di scena. La realtà partenopea per
Artemisia sembra essere il luogo ideale dove poter esprimere la sua arte e la
sua personalità, ma proprio quando crede di essersi liberata dei fantasmi del
passato e aver ritrovato l’amore un destino crudele torna a porre al centro
della storia la dolorosa vicenda della violenza subita, che sarà usata
vigliaccamente come arma di ricatto per costringerla a realizzare un’opera che
potrebbe costarle la carriera, se non addirittura la vita. Riuscirà Artemisia ad
evitare tale minaccia? E le forze del bene trionferanno finalmente contro
quelle del male? C’è solo un modo per saperlo: tuffarsi nelle pagine di questo
splendido romanzo e lasciarsi accompagnare tra i segreti della Napoli del
seicento.
Paolo
Buzzacconi
E nel corso della presentazione del Professor Bruno Sacco della sua ultima fatica "Artemisia e gli occhi del diavolo" il nostro Paolo Buzzacconi ha giganteggiato con questa relazione che ci ha permesso di vivere la grande pittrice Artemisia Gentileschi e la città di Napoli. Come è già stato detto l'evento, corredato dalle letture e dai canti della straordinaria Leda Conti e dei musicisti Marcello e Ottavio Gelone, alla mandola e alla chitarra classica, ci hanno proiettato in un 'altrove' che riempiva l'anima di ricchezza ed estraniava dalla realtà di fuori. Di fatto non eravamo nel '600 ma in un tempo senza tempo, che ci ha resi liberi... Grazie a tutti e un abbraccio speciale al nostro Nazario!
RispondiEliminaInteressante tema di indagine. Ben degna di ammirazione la grande Artemisia, per avere trasformato la sua passione per l'arte in un'arma con la quale si presenta a sfida davanti al mondo: difende la propria dignità di donna, innanzitutto, offesa da uno stupro divenuto pubblica vergogna, e la sua coscienza di artista, che ben sa di aver aperto nuove vie alla pittura. Fu forse la prima pittrice a guadagnarsi da vivere con i suoi quadri, e la prima donna a essere ammessa all'Accademia del Disegno di Firenze. Poi ci fu l'altra lotta, quella della donna offesa, che si svolse dentro la sua anima, lo spazio interiore doloroso, sulla quale possiamo fare solo congetture, sui i legami dell'amore e dell'odio, del fascino della bellezza, che nemmeno la morte e il tempo sanno interrompere
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