mercoledì 9 marzo 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "OLTREFRONTIERA" DI PASQUALE BALESTRIERE



Pasquale Balestriere: Oltrefrontiera (per crinali di luce e cune d’ombra). Edizioni Confronto. Fondi. 2015. Pg. 47

Scrivere sulla poesia di Pasquale Balestriere significa andare a zonzo per le stradette della sua isola, portare i piedi sulle terre scoscese, respirare i bouquets di salmastro e concimi, deliziarci dei tramonti che spezzano l’orizzonte con frustate di colori. E’ da lì che il poeta attinge; è da lì che trae ispirazione; dalle fatiche gioiose; da abbracci alle sue terre che coltiva gelosamente; ed è dai suoi riposi all’ombra del salice, del noce, del fico o del ciliegio che trova le spinte emotive per i suoi poemi. Senza dimenticare il bagaglio culturale con cui alimenta l’amore del campo, dei campi, considerando gli appezzamenti dislocati ora in basso ora in alto, e le difficoltà che comporta tale disposizione; un bagaglio di umanistica tradizione cresciuto nel tempo; rintuzzato da letture e approfondimenti meticolosi, puntuali, esegetici; da ricerche di carattere critico-filologico motivate dalla passione e da una laurea in lettere classiche, titolo di cui Pasquale ha fatto  tesoro nel lungo  corso del suo insegnamento: un mélange di miti, di anfratti che perdono le loro ombre nelle viscere della storia; di ritorni di bàttime a rievocare mondi odisseici, di figure umane e misteriose che popolano Ischia, che fecondano la sua anima, la sua splendida isola. Balestriere è tutto questo; sa di salmastro; le sue braccia sono forti come aratri; la sua anima è zuppata di rugiada isolana, e i suoi intenti mirano a fare dell’umano un gioco di terrenità, di amore e di cielo: classicismo, memoriale, saudade, odeporici sogni, umane convivenze, inquietudini esistenziali, prove fisiche, serenità campestri, e slanci, slanci, fughe oltre i confini che demarcano il suo esistere. Dire che realtà, pensieri, meditazioni, e studi abbiano trovato posto in verbi maturi e sodi; in corpi etimo-fonici embricati tra loro come rocce di cava, non è di certo azzardato, dacché le parole, puntuali, urgenti, e risonanti hanno sempre accompagnato e accompagnano la sua storia; si sono fatte amiche inseparabili, compagne di viaggio, voci a volte crude, altre dolci, altre ironiche, ma pur sempre realmente liriche in combinazioni di alto spessore iconico, classico, ed attuale; di grande resa armonico-significante. Leggere i suoi versi significa farsi umani per affrontare un viaggio fra scogli, bufere, bonacce, in mari che aprono orizzonti lontani e imperscrutabili. E’ dal viaggio di un marinaio di lungo corso che nascono queste 25 poesie vincitrici di uno dei più prestigiosi premi letterari: il LIBERO DE LIBERO. E’ qui, in questa plaquette editata per i tipi di Confronto Edizioni, che troviamo l’energica forza creatrice di un uomo-poeta, di un poeta uomo. Oltrefrontiera, il titolo dell’opera che, con prefazione di Leone D’Ambrosio, si dipana in un percorso di tre sezioni: Momenti, Luoghi, Tempi. E già dal titolo si può ravvisare uno degli input principali che motivano questo spartito poematico intensamente abbarbicato ad una  vicenda zeppa di vissuto: l’esigenza di fare del memoriale e della quotidianità un trampolino di lancio verso sfere che superino il contingente, ora, con richiami affettivi a mari che impediscono abbracci: “Quando il vento di notte si scatena/ in invernali furie e urla il mare/ e io insonne nel letto mi rigiro,/ pesa la solitudine dell’isola,/ figlia, l’irreparabile frattura,/ l’ipotetico abbraccio non possibile” (A mia figlia), ora, a richiami di stagioni, di campi, filari, di sole e di piogge che tanto dicono, con attualissima metaforicità, della vita e delle fresche rimembranze d’amore: “E’ quasi l’inverno e non ancora/ abbiamo disfiorato/ l’origano raccolto nell’estate/ per crinali di luce,/ messo a seccare a lungo dentro rozzi/ cartocci/…/ Sgretolerà gli aromi alla cucina./ Ed è così che addosso/ ci restano dell’anno e della vita/ i tempi ed i sentori./ Fin quando audaci durano gli amori”. Il tutto in un alternarsi di settenari ed endecasillabi; di rattenute e armoniche cascate narrative che danno una chiara idea delle capacità versificatorie del poeta. Ed è la natura che fa da liaison coagulante; quella che ogni giorno il poeta vive e alla quale avvinghia le sue braccia; è essa che lo segue come fedele ed amorosa compagna nel dipingere con tratti di cromatico realismo le sue intense emozioni:

L’autunno soffia grigio,
pensieri e panni asciuga
che danzano in insolite figure.
La strada e il cielo vuoti.
In silenzi di seta
giace l’ampia tristezza delle case,
la memoria trascina
leziosi fantasmi di sole.
Il nudo clavicembalo dell’ore
distilla voci e note i preghiera.

Tre rose alte sul gambo
ganze si danno al vento.  (Venerdì).

Sinestetici tocchi di pennello agguantano il meglio, ciò che colpisce la sensibilità dell’uomo, quella realtà che più configura l’equivalenza fra tre rose ganze e un vento che tutto porta via. Così la natura non è mai parte a sé, la sua configurazione non è mai un gioco di pastorelleria arcadica ma umanizzazione che si fa voce poetica. E la memoria, il buio, la sera, la quercia, un tempo, incauti giochi, e il giungere della notte contengono nella loro successione epigrammatica tutto il pathos di un poeta che osserva, annota, dipinge, ricorda, e conclude con un sole che si spegne all’orizzonte; con un sole che tanto dice della filosofia del Nostro:

(…)
Sull’orlo della sera sono giunti
a schiera ampia e compatta
con palpitanti gole d’uccelli che graziosi
il becco intingono in un calamaio
di trilli. E cala il buio sulla quercia
grande che apre la strada
a refoli di brezza
e che protesse un tempo ingenui giochi
d’incauti bambini.
Non sia vergogna
parlare con i sogni.

Ma il cuore trema. E ancora chiudi l’uscio,
releghi in prigionia i tuoi fantasmi
mentre ormai il sole quasi tocca il mare. (Emozione).

I giochi armoniosi dell’endecasillabo lasciano spazi a misure meno euritmiche quasi a significare la capricciosa  intrusione delle mani del caso sulla strada della vita. Il dilemma dell’esistere di fronte a cui l’uomo stenta a darsi delle soluzioni. Semmai lo fa a livello escatologico, con tutti gli interrogativi che riguardano il suo destino, più che  religioso-fideistico, dacché il laicismo del poeta condisce di sé il sottofondo della sua produzione letteraria:

(…)
Perciò lascio da parte i conti
per pareggiar bilanci.
La vita è storia che non vuol totali. (Esame di coscienza).

Quello che emerge fin dalla prima lettura è una saporita intrusione di affetti di un’anima che ha fatto del suo esistere un ensemble di maturazioni vicissitudinali; di tempi, luoghi, momenti, considerazioni, riflessioni, e tanta coscienza di un mondo che macina sogni  desideri, ricordi e speranze con passo impietoso. Ce lo dicono i titoli che, con i loro risvolti, anticipano già i vari stati d’animo sul quando, sul dove, e sui perché dello spazio che ci è concesso.
Nella seconda sezione, Luoghi, di 5 pièces, si assiste ad una miscellanea di storia, paesaggi endemici, memorie, inanellati tra loro da una grammatica poetica di endecasillabi conditi in tutte le salse: a maiore, a minore, rivisitati e lavorati, che, in corrispondenze e punti fermi a centro verso,  creano finezze metriche di emistichi ben intonati:  da Verona, città di rievocazioni  giovanili senza tristezze né nostalgie: Basso in maglia rosa, Piazza Bra, via Mazzini, Giulietta, “ Gli occhi di luce di vive ragazze”; a Tramonto a Paestum: “… Io qui tra i templi/ ostia designata, piego il capo/ al dovere della vita/ che mi strappa lontano”; da Il canto degli dèi: “Chi ben ascolta/ ancora sente il canto degli dèi”; a A Pastrengo: “Ora viviamo in fili di memoria/ ma siamo storia”; da Sogno di Spagna: “… Ebbi in sorte/ di fanciulle d’amore gli occhi neri,/ grembi sodi, vertigini di sangue,/ di piume d’oca in morbidi giacigli. /…/ A giorni casalinghi riapprovai. /…/ Un  gallo cantò alto dal Terone/ un gallo gli rispose da Candiano/ in un tranquillo  sole quotidiano” (Terone e Candiano due località contigue di Barano d’Ischia, paese di Balestriere); a l’ultima sezione, Tempi, composta di 9 composizioni: Su ali di falco in memoria di Federica Taglialatela e degli altri morti: “ Che cosa opporremo noi/ al tempo che ci offre la morte…”, dove continua quel fil rouge di laicismo soggettivo con cui l’ischitano si pone di fronte al mistero del vivere e morire; Epistola quarta ad una poesia di Umberto Vicaretti…; Fino al sole che riprende il motivo del viaggio caro ai poeti: “… Ma andammo e ancora andammo,/   con gli occhi sempre intenti/ a prati di speranza,/fino al sole”. Seguono Della terra; Sorte; Era l’età del Sapias, vina; Labuntur anni; Poi succede; e Uomini, di una strofa di quattro endecasillabi  con cui si chiude il “poema”:

Ciechi saettano nel cielo dardi
di vento, lieto ognuno dell’altezza
 raggiunta e tutti paghi dell’impresa.
E sono solo stoppie pronte al debbio.

Un finale coerente alla poetica del Nostro; un completamento od una rifinitura sulla storia umana; forse troppo umana; e Balestriere lo fa, come è nel suo stile, attingendo immagini dalla natura o da pratiche agricole per metaforizzare sul senso della vita: altezza, impresa, dardi ciechi in cielo, e tutto in cenere come un falò sul mare spazzato via dal vento.

Nazario Pardini


POESIE TRATTE DAL TESTO

 Scorrere la vita
                                                          
Dunque accadiamo.
Per altrui disegno
o caso. Ma deposti nella storia
per falchi o per colombe
sul dorso della terra
cogliamo amare bacche di fatica.

Il tempo inquieto sbalza
sbuffi di vento, il sole
è chiarità sonora.
Con  una nube ferma all’orizzonte.

Eppure è dolce scorrere la vita.



La trama del giorno

δλβιος  στις  εφρων
μραν  διαπλκει
κλαυτος.
Beato colui che, sereno,
tesse la trama del giorno
senza pianto. (Alcmane, fr. 1 Diehl)

Dalla chiaría dell’alba
rotola in petto l’allegria del giorno
e accende la dolcezza di un sospiro.
Il cuore esulta e canta.
                                                              
O argentati abitatori del cielo,
trilli e cascate di note versate
nella coppa di rosa del mattino.
O strepitosi araldi della luce,
innocenti nel gioco della vita
scagliate il vostro volo
nei meandri dell’anima.

Ecco già sorge il fulgore del sole,
invade terra e mare di brillii
e volto nuovo hanno i fiori e l’erbe.
Ai campi me n’andrei. M’aspetta invece
Orazio Venosino mio fratello,
quello del carpe diem, vina liques,
di buona compagnia, con le sue etere
e il bere e del convivio l’allegria.

Passa cantando il giorno. Poi la sera
apre il suo occhio nero sulla terra
che tutta ne vien presa. Ogni clamore
già s’è affiocato in pigolii di nidi.

Timide nascono voci di luci
e tesse lieto la sua tela il ragno.

                                                  
Aria di primavera
   
Questa mattina già squilla nel petto
la primavera e lieta
tinnisce l’arpa del sole canoro.
Hanno altra voce e voli
allegri,  gli abitanti dell’azzurro,
i vòlucres vibranti
che danno la prora del petto
ad onde felici di brezza.
Bevono il cielo in vivide folate.
E noi qui sulla terra
quasi più non sappiamo
i freschi profumi dei prati
ed i fervidi sfagli degli affetti
nella neve dei giorni
dove s’arresta allo sparo la corsa
della lepre. Perciò
sul dorso della vita siamo tesi
a guadagnarci il giorno, l’ora, l’attimo,
a combattere spesso per un asse
in vile cambio.
                        E intanto intorno ridono
le pagine  d’argento degli ulivi
col frutto d’olio che lenisce il male.

Andiamo infine soli e a piedi nudi
sui ciottoli del cuore levigati
da lunghe e fitte percorrenze. Al mare,
al cielo capovolto, all’avventura
ci reclama la trama della vita.

Aria di primavera
che rapida ci scorre tra le dita.



 Tramonto a Paestum  
                                                  
A baciare templi ed erbe, del cielo
si piegano le labbra azzurrorosa.
Già cade il sole e già risveglia i fiati
tenaci della notte, le presenze
numinose, diffuse
nel cantico del tempo che si spiega
per bocche di  poeti.
                                  E sono i templi,
arpe d’oro, che forniscono suoni
alle dita del vento:
de te narratur  soffiano leziosi,
perché davvero questa storia antica
ci appartiene da sempre,
sale per scarni pani, duro groppo
di radiche e di ruderi,
seme d’umano.
                           Io qui tra i templi,
ostia designata, piego il capo
al dovere della vita
che mi strappa lontano.



Epistola quarta 
Salpare è  forse l’ultima scommessa...”
(U. Vicaretti, La terra irraggiungibile)

Salpare, amico mio, forse non è
la scommessa finale, il giogo sciolto
per inseguire il sole ad occidente,
e la salvezza e la Terra Promessa.
È certo tentativo, sforzo, sfida,
prova di prua, di spirito, di cuore
quando il cielo discreto si discioglie
in variegati lucori serali
o quando il mare scuote il ventre urlando
nel vano vuoto di nebbie e di notti.
Ma il brivido che senti a ogni partenza
quando sciogli le gomene all’incerto
e che corre per tutte le tue vene
ti sembra certamente la scommessa
ultima, il dado acerbo che decide,
l’azzardo senza il quale non c’è sole
                                     e neanche sale.
Eppure poi ti capita che scopri
come nuova scommessa una partenza:
salpare ancora per un lido ignoto
per la Terra Promessa che tu dici.

Partire è sempre  - sempre – una scommessa
se, mute anche le gole degli uccelli,
la testarda speranza prigioniera
tenti ancora le sbarre per l’uscita
e della vita si rinnovi il viaggio.

     

 Era l’età del sapias, vina…

A  martello suona il tempo che grida
la fuga irreparabile dell’ora.
Il secco scalpitare del rintocco
calato dalla torre campanaria
preme a onde la corsa della vita,
scandisce arcani dolorosi suoni,
di perdite e profitti chiede conto,
di talenti fruttuosi o sotterrati.

(Ma tu calmati, cuore!)
                                   Ed a me stesso
adolescente ingiunsi di provare
ogni brano di questa breve corsa
per coglierne i sentori, e di allentare
le corde degli affetti. Era l’età
del sapias, vina liques, carpe diem,
dell’umanistica ebbrezza. Sapore
avevano le donne d’albicocca,
un fuoco divorava a riga a riga
le parole sul foglio della vita,
la terra sussultava sotto il cielo,
il sole rosso s’abbassava a mare,
mentre l’onda brucava la sua sabbia.

Ma quasi mai ho mantenuto fede
al mio proposito.  Disse un poeta:
Confesso che ho vissuto ; e un altro: Vissi
al cinque per cento, non aumentate
la dose.
           Quanto io abbia vissuto
ignoro. Ma del tempo che rimane
ruminerò con gran dolcezza il pane.  



Uomini

Ciechi saettano nel cielo dardi
di vento, lieto ognuno dell’altezza
raggiunta e tutti paghi dell’ impresa.
E sono solo stoppie pronte al debbio.

                                                 



4 commenti:

  1. Quando l'artefice del libro che viene presentato è un amico, la mia gioia è doppia. Nel caso specifico esprimo a Pasquale Balestriere, poeta dotto e finissimo, le mie felicitazioni. L'autore della nota di lettura, l'inimitabile Nazario Pardini, ci dice che a tale opera è stato già assegnato un primo prestigioso premio. Doppie congratulazioni. Tra le poesie tratte dal testo, eleganti raffinate ricche di senso e di musicalità, sono stato coinvolto da: “Era l’età del sapias, vina…”
    questo perché essendo stato alle prese con sfibranti fibrillazioni cardiache ho colto l'esortazione del poeta:
    /Ma tu calmati, cuore!/
    e, vista la mia età, porterò sempre con me i versi di chiusura:
    /Quanto io abbia vissuto
    ignoro. Ma del tempo che rimane
    ruminerò con gran dolcezza il pane/
    Ubaldo de Robertis

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  2. Offrire a Nazario Pardini anche una sola, seppur minima, possibilità di entrare nel mondo interiore della personale dimensione culturale, poetica o artistica in genere, come può essere quella di uno scrittore, è come procurargli una leva con cui, alla maniera di Archimede, egli sarà capace di sollevare l’intero mondo sentimentale, intimo ed esclusivo di quell’artista. Figurarsi poi se ad offrirgli questa opportunità è Pasquale Balestriere: con “Oltrefrontiera” è stato come se egli avesse messo a disposizione di Pardini non una semplice leva, ma addirittura un Ippogrifo, sul quale Nazario ha compiuto una straordinaria (l’ennesima) cavalcata per mettere stupendamente a fuoco la profondità della vis poetandi di Pasquale Balestriere, la forza evocatrice, pervasiva e umanamente persuasiva dei suoi versi. Ho avuto anch’io la fortuna di poter leggere “Oltrefrontiera”. Con questa silloge, felice rivisitazione della memoria, Balestriere ci introduce con infinita dolcezza nel suo mondo poetico, un mondo popolato di fidenti corrispondenze familiari e amicali, di tempi, simboli e luoghi dell’anima, smarrimento e quiete, scoramento e rinascenza; un mondo in cui “Il nudo clavicembalo dell’ore / distilla voci e note di preghiera. (Venerdì). Un tuffo nei tempi andati, un vivido remake in cui il nóstos e il rimpianto giocano, sì, un ruolo da protagonisti, ma come depotenziati, stemperati dentro una cornice di composte campiture, dove i colori più gioiosi e luminosi, ma anche quelli che connotano la sofferenza e il dolore, hanno ormai perduto la forza dirompente dell’attimo fuggente, e ora con più discrezione blandiscono, o graffiano, il cuore:
    “La marcia è stata lunga e le cadute / tante e tanti i sobbalzi il cuore ha avuto / di gioia. I giorni hanno tirato al petto / coperte, dolcemente è stata sera. (Esame di coscienza). Ma quel che è stato è stato, ed ora, nonostante l’irreparabile volgere degli anni, la vita richiede ancora tutta l’attenzione che merita. Urge infatti, con testarda cocciutaggine, il fluire vitale degli eventi, e non c’è tempo per i consuntivi, perché “La vita è storia che non vuol totali”. Non è dunque possibile fermarsi per guardare indietro, perché “Al mare, / al cielo capovolto, / all’avventura / ci reclama la trama della vita”. (Aria di primavera). E non si può indugiare, né sostare ancora a lungo, nemmeno nei luoghi più amati, come la “Paestum del mio cuore”, dove misteriose e silenti aleggiano “le presenze / numinose, diffuse / nel cantico del tempo che si spiega / per bocche di poeti. Anche da lì bisognerà partire, perché “Io”, continua il poeta, “ostia designata, / piego il capo / al dovere della vita / che mi strappa lontano”. (Tramonto a Paestum).
    Umberto Vicaretti (prima parte).

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  3. La vita come dovere, quindi, e un tempo da vivere ancora pienamente, perché la fuga nella riserva della memoria non è che una parentesi interlocutoria, però necessaria al poeta per verificare l’assenza di debiti d’amore e la giustezza delle sue personali scelte di vita. Man mano che si procede nelle tre parti del libro, e in modo più stringente nella sezione “Tempi”, sempre più urgente e serrata si fa la ricerca del senso del vivere, e con più profondo sentire il poeta chiede risposte ai perché del mistero e del male, dell’inconoscibile e dell’alea, chiamando in causa, in primis, la sua stessa coscienza, ma anche interpellando, in qualità di (se così si può dire) testimoni informati dei fatti, alcuni grandi spiriti dei tempi moderni, come Montale e Neruda; e non trascurando di coinvolgere, nella questione, anche immortali cantori del mondo classico, come Alcmane, o come l’amatissimo Orazio. Esemplare, in questo contesto, e stupenda, la lirica “Sorte”, poesia del dubbio e dell’inquietudine, che illumina di luce rivelatrice la parabola dell’umana avventura, ne annota gli slanci e le cadute, il volgere dei giorni, la tenace ostinazione del tempo e delle stagioni, testimoni alienati e indifferenti al destino che tocca non solo agli umani, ma a tutti i viventi. Simbolo di tanta distanza è quel “falco appeso nell’azzurro”, epigono del “falco alto levato” con cui Eugenio Montale postula l’indifferente presenza di una qualche immanente divinità. Tutto, di qui, trasmuta in ricordanza, in memoria d’amore e in nostalgia d’affetti; e il poeta ne fa scorta per l’incerto e solitario viaggio nell’ignoto cui s’appresta. Il distico finale plasticamente ci consegna la circolarità del ciclo vitale, lapidaria sintesi dell’esistere e del misterioso fluire del tempo, declinati nell’ossimorica misura del “vivemmo a lungo” e di una “sorte” che “è apparsa breve”. Lunghezza e brevità che, invece di elidersi reciprocamente, dànno corpo, sostanza e lena all’arcano alternarsi dell’alfa e dell’omega. Un libro, “Oltrefrontiera”, che vale la pena di leggere tutto d’un fiato e restare in apnea, per poterne assaporare fino in fondo, e tutta in una volta, la cifra di indicibile tenerezza e di commossa adesione alle ragioni e alle stagioni del cuore. E “poesia del cuore” certo la classificherebbe Giorgio Bàrberi Squarotti; una poesia di ineffabile profondità sentimentale e d’ineguagliabile nettezza stilistica, che di un endecasillabo armoniosamente musicale e suadente fa lo strumento privilegiato per un canto alto e puro, ben degno della migliore tradizione lirica del nostro Novecento.

    Umberto Vicaretti

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  4. Conosco Nazario Pardini ormai da nove anni. Ci ha fatto incontrare la poesia: nella provincia di Verona. La stessa cosa è avvenuta con Umberto Vicaretti, nel 2008, a Quarrata. Da allora non ci siamo più persi. La nostra amicizia, nata nel nome della poesia, si è potenziata e arricchita di grande e vicendevole stima, anche umana. E rivederci, quando capita, è motivo di autentica gioia. Di ambedue, poeti egregi, posseggo i volumi in cui la loro arte si esprime con poetica completezza e con indiscutibile bellezza e intensità. Qui mi hanno fatto dono di due note recensive di assoluto valore sia perché essi sono in possesso di un'ottima mentalità critica e preparazione specifica, sia perché ormai mi conoscono meglio di quanto non mi conosca io stesso. E quindi li ringrazio con tutto il cuore, così come ringrazio l'amico Ubaldo De Robertis, valido poeta -ma scrive anche in prosa- che ho conosciuto attraverso i mezzi telematici ( e che dunque non ho ancora incontrato personalmente )e che ho imparato ad apprezzare.
    Grazie a tutti
    Pasquale Balestriere

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