giovedì 30 aprile 2020

MARIO SANTORO LEGGE: "NATURA MEDICATRIX", DI GIOVANNI SCRIBANO, GUIDO MIANO EDITORE




DOLCEZZA E DELICATEZZA
NELLA POESIA DI GIOVANNI SCRIBANO
Di Mario Santoro


Il volume Natura Medicatrix di Giovanni Scribano, edito Guido Miano nel 2019, con prefazione di Nazario Pardini, rimanda nell’immediatezza al connubio, in questo caso direi felice, tra poesia e pittura; infatti le due forme di arte non solo non entrano in contrasto e non rivendicano pretese di superiorità ma sembrano disporsi a completamento e ad arricchimento vicendevole. 
Operazione impegnativa considerando che le immagini sono di autori diversi (Ampelio Bonora “Testa, 1971”; Effimero Cassinadri “Branco di cavalli al pascolo, 1972”; Giancarlo Chiabà “Arrotino-olio su tela, 1970 “; Corrado Dalli “La Camargue, 1974”; Alfred Pièrre De Nottebeck “Pescatori di Homards”; Stefano Donati “Effluvi lunari, acrilici e resine su tela, 2017” e “Bagliori di festa, acrilici e resina su tela, 2018”; Lucia Malaguzzi “Ascoltando la ‘Toccata per organo’ di Vidor, olio 1993” e “Capannine, olio, 1984”; Michelangelo Miano “Ineffabile melodia di un ruscello, foto 2019” e “Il mare immobile, foto 2018”; Filippo Pirro “Chiaro di luna, acrilici, 1996”, e “Madre Puglia, olio, 1975”; Franco Ruggiero “Nella risaia, olio su tela, 1969” e “Cavaliere nel bosco, olio su tela 1991”; Alfio Sabadini “Paesaggio, 1973”; Angelo Tenan “Lidi veneziani, olio su tela 1995”), ma scelte con cura ed accentuano, grazie anche all’uso dei colori e al ricorso a tecniche diversificate, le sensazioni e le emozioni che scaturiscono dai versi delle poesie, tratte da varie raccolte dell’autore.

Pittura in senso lato e linguaggio poetico, a tratti, sembrano davvero fondersi e, pur conservando specificità proprie, seguono un percorso fortemente lineare, avvolgente, spesso sognante e realizzano atmosfere quasi al di fuori del tempo e dello spazio con la sensazione benefica di un appagamento fisico spiritale, di estraniamento da godere, di dolcezza della visione, di isolamento che gratifica e rende tutto come ovattato. Il poeta mostra di prediligere un linguaggio piano, lineare, morbido e coniuga la descrittività puntuale e precisa, ricca di riferimenti, mai fredda o distaccata, con una sempre fortemente carica inferenziale e connotativa, centrata sovente su dettagli che sanno caricarsi di allusioni multiple e aggrumano sensazioni a ripetizione. Si assiste ad una sorta di scivolamento di situazioni reso bene dalla delicatezza del suono, che non presenta mai elementi di frantumazione o di rottura, e dall’accostamento attento di immagini che evocano situazioni di incanto e di sogno generalizzate nella continuità del riferimento alla bellezza, sovente riposante e godibile, della natura che certamente risulta medicatrix a tutto tondo.

Ne consegue una lettura piacevole che proietta immediatamente in un’atmosfera irreale dalla quale si esce, a fatica, solamente a lettura ultimata. La dolcezza delle situazioni proposte, con lontananze che ritornano ammorbidite o almeno depurate di certe inevitabili asprezze, mantiene la quiete tranquilla e la pace interiore, e rimanda a condizioni di vita virgiliane o tibulliane, sottintendendo relazioni garbate tra uomini e cose, sguardi tendenti ad oltrepassare orizzonti fisico-spirituali e sempre capaci di “perdersi nel chiaro / di un’alba ovattata” (Alba domenicale). Effettivamente tutta la natura, nelle sue manifestazioni diverse, sembra decisamente e miracolosamente benigna o antileopardiana e mostra la molteplicità delle sue diverse forme in una sorta di armonia globale e tutti gli elementi, che compongono l’immenso mosaico, appaiono ben evidenziati anche quando sembrano appena accennati o addirittura allusi o sottesi, come appare evidente già dall’inizio. E così possiamo assistere al grano che tremola al leggero soffio di vento che altrove fa sentire la sua voce, quasi umanizzata, tra le foglie sensibili e leggere dei pioppi dove una farfalla, con il suo volo apparentemente insicuro, nell’evidente tremito che l’accompagna, si muove ondeggiando e, al di sopra, una nuvola, non minacciosa ma quasi vezzosa, “bacia il cielo / e poi si perde nel chiaro / di un’alba ovattata” (Alba domenicale). Si realizza così una condizione di quiete assoluta, quasi edeniana prima dell’allontanamento, che fa bene all’anima e genera l’invito tacito a lasciarsi andare in una situazione che ha dell’irreale eppure è resa possibile nel richiamo del poeta alla presenza umana reso al meglio dalle figure del bimbo e del vecchio, nell’allusione evidente agli estremi che connotano l’esistenza. E non manca, in questa visione ideale, che tiene a bada le tensioni, le problematiche, le difficoltà, le contraddizioni della società contemporanea, un chiaro senso di spiritualità, consegnato all’ “eco dell’ Ave Maria” che “percorre la piana” (Alba domenicale) e, come per miracolo, consente alle campane di sciogliere i nostri peccati. E la mente del lettore è come catapultata indietro nel tempo a certe chiesette di campagna dove, per ricordare il sempre tenero Luigi Ambrosini, “la gente verso sera / entra in chiesa umile e pia / per i canti e la preghiera / alla vergine Maria”.

Dunque gli elementi della natura sono dominanti nel loro continuo alternarsi. E così si può leggere: “Il sole si impossessa del mare / come la rugiada del prato / e scioglie i suoi cavalli / come scozzesi colombe” (Idillio). E tutto sembra accadere con naturalezza leggera nell’idea quasi di una straordinaria ovvietà tanto nel rimando sole-mare quanto nel richiamo cavalli-colombe; lo stesso accade per i timidi mirti, quasi mirti divini di D’Annunziana memoria e per l’attesa trepida degli innamorati sulle panchine. E si può continuare a sfogliare il volume con la certezza che l’orizzonte di attesa, non solo non sarà tradito o scompaginato, ma nemmeno graffiato o scalfito e che quasi non sia presente alcuna linea di demarcazione perché la natura si offre al poeta e, di conseguenza al lettore, in tutta la sua bellezza, a tratti zuccherosa ma non mielosa, finanche in certi suoi aspetti lontani: “Da luminose trasparenze / ci sorridono le stelle / fra sabbia e mare” (Persi in viaggio fra mare e terra). Non c’è separazione o distinzione, o almeno non è netta o peggio ancora in opposizione, tra terra, mare e cielo che sembrano fondersi in un gioco di luci e colori, per un effetto malioso di incastri, con situazioni cariche di sorpresa e di mistero, di sospensione fisica e spirituale, nell’ora del niente e del tutto nella quale l’alleggerimento dell’anima è quasi sospensione nell’aria e i pensieri, finanche i più gravi e problematici, sembrano sfumare o meglio “si avvinghiano ai sorrisi, / germogli di luce” (Parole incantate). Si tratta di una condizione che sa di miracolo che non riguarda solo il poeta ma coinvolge il genere umano sicché solo qualche volta egli ricorre alla prima persona: “Non dimentico / la luminosa / e diafana atmosfera / di un mattino...” (Celesti pascoli) o, come scrive altrove: “Guardo le querce, / possenti giganti ergersi nel sole.../ Sono felice” (Natura Medicatrix), e ancora: “Stanco, nella strana notte, / la fatica mi colpisce...” (Risveglio) e infine: “Scendo leggero, vento di vita, / nell’aria candida grido / e le creature con me” (Per non scordare il tuo viso). E il grido, che è di intensa gioia se “Il vento effonde smeraldi, / misteri sussurra” (Per non scordare il tuo viso), non solo è lontano dall’urlo munchiano con la sua sottesa denuncia, ma è tanto più sorprendente perché si unisce e si confonde con quello delle altre creature e tende quasi ad allontanare, se non a nullificare, le inquietudini, che attanagliano l’uomo contemporaneo e tende sempre ad aprire uno spiraglio e ad indicare una prospettiva futura.

In questo senso la poesia si fa salvifica, attenua le sofferenze, attutisce il dolore, apre alla speranza, invita alla comprensione e alla relazione sul piano umano, genera amore, forma una solida barriera contro la confusione. E tutto questo anche grazie alle molte immagini presenti e così da un dipinto all’altro il passo è breve nella piacevolezza e diversità delle riproposizioni. Viene facile lasciarsi coinvolgere dai “Bagliori di festa” di Stefano Donati e dalla vivacità dell’insieme in una sorta di scoppiettìo allegro e continuo che ferma quasi il tempo e fa vibrare l’anima con ripetuti dati di tensione emotiva che spinge a passare ad una situazione nuova e riposante come la foto che ripropone Michelangelo Miano dal titolo “Il mare immobile”.
Si tratta, in questo caso, di una distesa di acqua quasi del tutto ferma e come in riposo con colori ammorbiditi e tenui, tali da indurre a sensazioni gradevoli e capaci di recuperare sognanti lontananze e solitudini non spiacevoli.

E dal mare si passa al paesaggio terrestre di un bosco non chiuso ma luminoso, come quello di talune fiabe della nostra infanzia, grazie ad uno straordinario effetto cromatico e con la sensazione della libertà, senza condizionamento alcuno, consegnata al cavaliere a cavallo, come nel dipinto di Franco Ruggiero, oppure si resta fermi e come sospesi dinanzi alla linearità dei “Lidi veneziani” di Angelo Tenan con mare e cielo separati da una linea appena ed elementi come stilizzati. Di forte impatto risulta anche la pittura di Filippo Pirro, noto anche come poeta, con la sua colorazione densa e la presenza forte di elementi significativi e chiaramente disambiguabili che compongono il dipinto “Madre Puglia”. E poi ancora scorre la visione di un’alba nella Camargue, del pittore de Nottbeck, un po’ grigia, con il mare a confondersi con il cielo, oppure ci si intrattiene con il branco dei cavalli di Cassinadri, che esprimono, nei movimenti non comandati, il senso pieno della libertà nella serenità del paesaggio e ci si ritrova finanche nella bottega antica di un arrotino con Gianfranco Chiabà, prima di rientrare nel paesaggio di Alfio Sabatini con tutto il peso della solitudine e di chiudere la carrellata con Ampelio Bonora e il ritratto di un viso da non dimenticare. E sono tutte rappresentazioni a corredo, più o meno fedele, delle poesie che presentano ricchezza di riferimenti ed elementi ritornanti, con sempre la linea del sogno che torna con la speranza che l’accompagna e che è anche dichiarata apertamente: “Qualche volta si può / ancora sognare” (Una sera) e lo si può fare nella maniera più semplice se il grigiore “del molo / è già tempo / di bianche vele e se lumache sulla fontana / aspettano delle lucciole / il volteggiare e infine se nella luce / chiaro / un segreto ritrovo” (La marina). Sembra quasi trattarsi del sogno per il sogno, della ricerca della fiaba bella, con tanto di magia, che sa tramutarsi in realtà, nutrendosi dei ricordi buoni che affondano le radici nell’infanzia-fanciullezza e che sanno riproporsi come nuovi: “Nella notte antica / parole nuove la mente pregusta / e nuove diafane luci / danzano senza peso e, ovviamente, finiscono per generare nell’erba presagio di utopia” (Utopia). E proprio il presagio sembra confermato anche dalle voci del mare “ora tuono ora canto ora grido / vibrante” (La voce del mare) ma anche dalla presenza ritornante e confortante della luna capace di guardare “un raggio / riflettersi nel mare e poi rientrare nel guscio” (Quadretto mattutino) per il suo carattere di riservatezza e di rispetto. Mare e luna si richiamano spesso in una sorta di connubio gradevole e non manca la luce del sole che con i suoi raggi rigenera l’anima.

Altrove domina la campagna col verde e per lo più alle prime luci del mattino ed appare sempre presente una sorta di tacito invito a godere di un’atmosfera tranquilla che riserva, tuttavia, nuove scoperte e meraviglie. Ci sono fiori di ogni tipo: papaveri, rose, trifoglio, ginestre, glicine, biancospino, viole di campo, e non manca l’aconito e il botton d’oro. E pare quasi di vederli dinanzi agli occhi nei loro diversi colori, mescolati insieme e di sentire per l’aria gli svariati profumi. Non mancano, ovviamente, nemmeno gli alberi: il pino mugo, l’abete, il larice, l’ontano, il salice, la sassifraga, il tiglio, la betulla, la palma, la quercia. E anche in questo caso saltano agli occhi le varie caratteristiche. E ci sono gli animali: allodole lumache, lucciole, meduse, granchi, tritone, colomba, cavalli, cani, uccelli venuti dal sud, vipere, farfalle, passeri e altro ancora. E tutto ciò costituisce un mondo caro all’autore che spesso ricorre ad espressioni cariche di rimandi e connotazioni che meritano la sottolineatura come, ad esempio, i larici che aggettano sui precipizi, o i papaveri al vaglio del vento, o ancora le macchie cerulee d’acònito, o infine, il sorriso che s’impronta di passeri, oltre alla tasca del tempo, alla lunare falce, o al pentagramma lunare. Si tratta di felici combinazioni che nascono spontaneamente, senza nessuna ricerca ossessiva dell’impatto di sorpresa, e contribuiscono a mantenere il senso più genuino della naturalezza e della spontaneità che caratterizza tutta la poesia di Giovanni Scribano.

E ci piace chiudere questo intervento, sempre provvisorio e parziale, facendo riferimento ai versi del poeta, ad un passaggio strettamente personale, alla rivisitazione di ambienti cari alla prima infanzia dell’autore: “Sono nato fra le nebbie / dove nidificano le anatre / ove il cielo si specchia / nei fiori, ove foglie verde smeraldo / riposan nell’ombra, / ove pallide canne / s’alzano come colombe” (La campagna in autunno). E come il volo delle colombe si alza la poesia di Giovanni Scribano nel suo protendere verso l’alto, salvo, a tratti, a planare verso terra prima di riprendere ancora il volo.

Mario Santoro

Giovanni Scribano. NATURA MEDICATRIX
Guido Miano Editore, 2019
mianoposta@gmail.com


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