martedì 21 aprile 2020

PASQUALE BALESTRIERE LEGGE: "I DINTORNI DELLA VITA..." DI NAZARIO P.


                                                             
                                                                       Pasquale Balestriere,
                                                          collaboratore di Lèucade









NAZARIO PARDINI
I DINTORNI DELLA VITA
Conversazione con Thanatos
Guido Miano Editore, Milano, 2019

Ci sono varie maniere di disporsi alla lettura di un libro - piccolo universo ancora sconosciuto- soprattutto se l’autore è noto e, ancora di più, se è un amico: nel qual caso, volendo esprimere qualche nota critica,  bisognerà recuperare  serenità e oggettività di giudizio che sicuramente l’affetto avrà messe in discussione e fatte vacillare. Attratto in particolare dal sottotitolo, mi sono dato a quest’avventura dello spirito con affettuosa curiosità, incerto se abbandonarmi all’onda emozionale e al puro piacere estetico oppure affidarmi  senza indugi ad un percorso critico, indagando l’opera nelle sue peculiarità caratterizzanti. Ho scelto la prima soluzione, rinunciando, durante la lettura, a qualsiasi supporto,  come matita, postille e appunti. Aperta la porta del libro mi è accaduta una cosa strana, difficile da capire e spiegare perché non saprei dire se sono stato io ad entrare  nell’universo poetico di Nazario Pardini o se è stato quel mondo a venirmi incontro, quasi investendomi con la sua forza rappresentativa  e con la singolarità  dell’argomento trattato. In questo percorso i versi sono diventati dita che hanno toccato le corde degli affetti, l’elemento verbale e ritmico ha cullato, con nenia spesso dolente, ogni lacerto poetico della silloge, ma soprattutto i passaggi dialogici  in cui uno dei due protagonisti, l’Uomo,  si confronta con la Morte, protestando il suo desiderio di vita e quello di tutti gli esseri umani, anzi di tutti i viventi. È scorsa veloce ma coinvolgente questa prima esperienza de I dintorni della vita, silloge che a me pare già sintetizzarsi  nel componimento di apertura Doloroso il viaggio, che sembra assumere, per questo rispetto,   valore paradigmatico  e  ruolo  di testo eponimo  dell’intera raccolta. Nel detto componimento, già  dal primo verso, non passa inosservato l’uso del verbo alla prima persona plurale: “Doloroso il viaggio che facemmo”; il seguito della lettura ci fa edotti che non siamo di fronte a un  plurale di maestà o di modestia, ma a un vero plurale, che ha valore identitario e indica comunanza di condizione umana, nella quale il poeta trova sollievo alla sua solitudine e conforto nel viaggio. Uomo tra gli uomini, li sente consorti e fraterni.
Un viaggio, dunque. Un viaggio attraverso la vita è il corpus, la sostanza profonda di quest’opera in versi, dove tale realtà sormonta, per importanza,  addirittura lo stesso serrato  confronto tra l’io lirico e la Morte, elemento artistico, questo,  che definisce la raccolta  anche nel titolo . Ora, se si riflette,  “via” “ viaggio””viatico”  “vita” sono termini accomunati dall’identità della  sillaba iniziale; identità che, seppure non trova il conforto di un’uniformità etimologica (la parola “vita” ha etimo diverso rispetto alle altre ), si mostra però, a tutti gli effetti,  nei nessi semantici. Quali sono infatti i motivi di canto o, comunque, gli aspetti  complessivamente prevalenti nella realtà poetica di Pardini? In generale, e sopra tutti gli altri, la memoria, la natura e l’amore (per Delia). E, sorvolando sugli altri (ammirazione per il mondo classico, trasporto per la realtà contadina della sua infanzia, partecipazione emotiva a vicende di bellezza e di dolore, ecc), occorre annoverare -sullo stesso piano dei temi fondamentali-  i fortissimi affetti familiari, testimoniati in tutte le sue opere e anche in questa silloge (per il fratello, in  Lettera al fratello scomparso, p.18; per il figlio, in Vai al diavolo!- l’imprecazione è rivolta alla Morte- , p.40; per la moglie, in Nel locale dove ci sposammo, p. 42;  per il padre, in E tu, quando morì mio padre?, p. 43 ).  Temi, questi, che si incentrano e si sviluppano nel viaggio esistenziale del Nostro, oltre che nella presente silloge, dove la vita è vista e sentita come un viaggio che non si può intraprendere senza la scorta di un necessario viatico. Ed eccolo il viatico: la poesia, compagna di vita; e la fede nella sopravvivenza dello spirito.
Siamo tornati, dunque, dopo una breve digressione necessaria per la corretta comprensione della poesia  pardiniana,  al cuore della silloge in esame, al dialogo-confronto quasi ininterrotto tra l’Uomo e la Morte.  Si può facilmente constatare, infatti, che su trentacinque composizioni ben sette volte l’Uomo colloquia con la Morte; senza contare che in varie altre è il primo a rivolgersi alla seconda  (e viceversa) in forma di monologo. Ed è curiosamente ambivalente l’atteggiamento dell’essere umano di fronte alla Morte. Da un lato egli manifesta  una tensione confliggente, insieme  all’orrore  e  al ripudio estremo e totale del’altra, oltre  all’intento apotropaico: “volto / macilento e avvilito” (Non scriverò di certo, Morte,p. 23); “ ...macilenta, scheletrita, / coi denti radi in fuori, e le pupille / che come palloncini si dilatano / oltre il tuo viso scarno e sfigurato  (...)  infido scheletro” (Dialogo con la morte,  p. 26); “maligna e bieca in fronte” (Conversazione  con la morte, p. 37); “morte nefanda, morte senza scrupoli” ( E quella imbarcazione?, p. 60); giungendo perfino a offenderla e a imprecare contro di lei : (E maledetta pure tu, Morte, p.30); “Thanatos vile” (Ho visto, p. 36); “lurida morte” (Senza rimorso, p. 39); “Vai al diavolo!” ( Vai al diavolo!, p. 40); dall’altro lato, invece,  pur avvertendone la necessità e l’ineluttabilità, cerca di esorcizzarne la negatività, di umanizzarla demitizzandola,  di rendersela amica, complice quasi, peraltro senza risultato “Vieni un po’ qua da me. Restami accanto. / Non essermi nemica. “(Conversazione con la Morte, p. 32) - espressione che fa simmetria con quella pronunciata dalla Morte in un lacerto lirico precedente (“Vieni un pochino qua da me, parliamone”, Dialogo con la morte, p. 26); salvo poi darsi una spiegazione da sé, in modo intrinseco, con una serie di interrogative sostanzialmente retoriche, nel senso che sono destinate a rimanere prive di risposta, perché questa è scontata: “Sarà che il tempo / sta oramai scadendo e sento vivo / il sentimento obliquo e un po’ perverso / di perlustrare il gioco oracolare / della tua permanenza. Non puoi dirmi / di più di quel che so? Non puoi svelare / i tuoi programmi; il tempo visionario / per aprirmi uno squarcio del futuro? / Cosa sarà di me?” (Conversazione con la Morte, p. 37). Qui emerge, e anzi erompe,  la preoccupazione tutta umana per un aldilà sconosciuto e inquietante, dove s’annulla ogni esistenza con il suo bagaglio di faticose conquiste, di sforzi vanificati.
Poi i colloqui con la Morte diventano a mano a mano più pacati: si smussano le asperità e i contrasti e il discorso si tinge di tonalità filosofiche, assume un piglio speculativo (La mia esperienza, p. 56); toccano anche il tema dei migranti che muoiono in mare (E quella imbarcazione?, p. 60): e qui torna in mente, prepotente, l’immagine eliotiana  di Phlebas il Fenicio o i fluttuanti estatici annegati rimbaudiani de Il battello ebbro o, ancora, la più torbida visione dannunziana -in Canto Novo, III, 15- del “tragico viluppo d’annegati” , con il macabro codicillo di due versi in cerca d’effetto “come serpi staranno aggrovigliati / tentacoli di polpi a membra umane”.
Eppure, a ben vedere, questa silloge, che si apre e si dipana sotto l’ala incombente della morte (e scorrerla in lettura in questi tempi di pieno contagio è veramente un’esperienza non comune) e che  agita l’animo del lettore tra varie ragioni e posizioni, spesso opposte,  descrive solamente un viaggio esistenziale: dove successi e sconfitte, gioie e dolori, acquisti e perdite sono solo tappe di un percorso  disperatamente irripetibile;  dove la stessa presenza della Morte (prima e vera occasione di questo monologo/dialogo) è comunque sempre contrastata e pareggiata dalla bellezza della vita che ne riduce o addirittura annulla l’influenza negativa attraverso -per esempio-  l’epifanica rivelazione della natura e il trionfo della primavera, aulente e carezzevole. È proprio in questa situazione di opposizione, di guerra -per cosi dire- difensiva  che il canto, tenacemente sapido, si fa struggente, giacché l’Uomo  sa di doversene partire dalla luce: “Se poserai il gelo sul mio capo, / fa’ che mio figlio sia robusto e fiero, / che la mia donna non ne provi pena, / resti serena e forte.” (Conversazione con la Morte, p. 35). In passaggi come questo   si svela con fulgida immediatezza e vigore la calda umanità dell’uomo e del poeta Pardini che ha scelto di fare della sua vita ( e, di riflesso, di quella degli altri)  un racconto in versi, prediligendo il registro narrativo-colloquiale, con potenti irruzioni liriche quando non addirittura epiche, dove il mondo degli umili sale prepotentemente alla luce e occupa lo spazio che gli è dovuto.
Il viaggio poetico sta per concludersi:  una folla sterminata di pellegrini (tali sono gli uomini nella vita) avanza per un bosco (eco della selva dantesca?) verso il monte della salvezza, ma si va molto assottigliando a mano a mano che i più deboli cedono ai triboli e alle sterpaglie e sono ghermiti dalla morte: “E la morte si saziò degli infedeli / che smisero il cammino verso l’alto; / piangevano quelli che pervennero / con la preghiera ai piedi del Signore. (Quanti ne contavamo! p. 64). Giungono in pochi sulla cima illuminata di luce soprannaturale e lì innalzano una croce, davanti alla quale si prostrano tutti, anche la Morte. La scena e il linguaggio che la dice assumono potenza biblica. Poi la visione si slarga all’infinito nell’ultimo lacerto poetico della silloge (Si aprirono i cieli, p. 67): la luce invade valli e abissi, gli angeli scendono dal cielo, i morti risorgono, si abbracciano in nodi parentali, danzano sulle musiche di Schubert, Chopin, Puccini. Gioia, trionfo della vita, luce accecante. Non notte né tempo, non principio né fine, ma “giorni universali”. Poi la chiusa: “Vinse l’amore, e nella notte / si accese la lampada divina, / grande, enormemente forte, / più che d’agosto la calura estiva. / Più che di giorno la gloria del Signore.” È l’apoteosi della salvezza, dove si perde in forma di eco ormai lontana e sbiadita anche il motivo centrale della silloge, e cioè il  confronto/scontro tra l’Uomo e la Morte, che si era peraltro già determinato  in forma di tregua, dunque senza vincitori e vinti. Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che  tutto si risolve  con un passaggio dalla terra alla luce di un regno spirituale, superiore, di un gruppo di  uomini che, superando difficoltà di ogni tipo,  attingono la salvezza. E anche la Morte è costretta a piegarsi davanti a tanta bellezza e luce.
Nell’ultima parte della silloge si intensifica un’atmosfera religiosa e una simbologia con risonanze dantesche, peraltro già anticipata nella poesia incipitaria e, come già detto, eponima. E tuttavia questa religiosità, pur rivelando un’area di riferimento sostanzialmente cristiana  (“Quei pochi che raggiunsero la cima / eressero una croce. Ai suoi piedi / si prostrarono tutti, anche la morte/ ...”, Su la cima, p. 66), non segue l’ortodossia di una religione in particolare, se l’Essere superiore è detto genericamente “Signore” e se,  a rallegrare  questa realtà  oltremondana,  vengono assunte “serenate di Schubert, notturni di Chopin; cori di Puccini” (Si aprirono i cieli, p. 67); il tutto condito da umanissime danze e da terreni abbracci. Voglio dire che qui la salvezza conseguita sembra configurarsi come l’attingimento  di un paradiso terrestre (che poi sarebbe già un bel risultato per anime affrante dalla vita), vista la commistione di elementi che attengono alle due diverse (opposte?) sfere del sacro e del profano.
Il viaggio è compiuto, come pure la conversazione con Thanatos. Negli occhi e nella mente del lettore resta un universo di luce, infinito, quello che genera la doviziosa fantasia “poietica” di Nazario Pardini, paladino della poesia del cuore (Infangare Calliope, p. 19): la quale si esplicita, qui, con grande empito affettivo, regolato metricamente da  ritmo endecasillabo in prevalenza disteso e narrativo; ma non privo di sfagli e scarti quando l’atto creativo lo richiede.   Sicché Pardini, qui e ancora una volta, si manifesta senza ambagi per quello che è: un poeta autentico e sofferto.    

Pasquale Balestriere  
Barano d’Ischia,  20 aprile 2020                                      


4 commenti:

  1. Ringrazio l’amico Pasquale per la lettura perspicace, profonda, filologicamente elaborata, obiettiva e come lui afferma: “... Io ho cercato di fare una cosa onesta e seria, senza inutili lezi e straripamenti encomiastici, così di moda oggi....”. Grazie amico, della tua immensa disponibilità, per me dono incalcolabile.
    nazario

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  2. RICEVO E PUBBLICO

    Caro Pasquale la tua più che una recensione è un piccolo saggio. Complimenti! Sono solo io del trio CANAPA fuori da coro? Bisogna che mi aggiorni ma con argomenti un po' più allegri. Con la Morte ho dialogato anche troppo.
    Carla

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  3. RICEVO E PUBBLICO
    Gentilissimo Nazario, ringraziandola per le splendide opportunità colte sull'isola e da lei consentite in qualità di blogger, non posso oggi fare a meno di trasmettere la mia gioia. Quando si inizia la giornata così bene, e mi riferisco alla lettura, inserita nel Blog il 21 Aprile, in tal modo espressa, dal collaboratore Pasquale Balestriere, non ci si può esimere dal condividerla. Partirei dal viaggio, così ben argomentato, che egli ha affrontato con perizia di intenti per una lettura onesta, profonda, aderente al viaggio da lei condotto, Nazario, nel testo "I dintorni della vita...", per giungere, come ben evidenziato nel ringraziamento postato, alla piena soddisfazione di tutti noi lettori che abbiamo in animo forme concrete, asciutte. E in quanto, soprattutto, perché ha portato a termine il suo impegno "senza inutili lezi e straripamenti encomiastici". Da ciò sono rimasta attratta e perciò rivolgo i miei più sentiti complimenti, altrettanto asciutti e sinceri, a Pasquale Balestriere.


    Cordialmente

    Fulvia

    P.s.: nel mio viaggio di scoperta, apprendo, mi conforto e condivido.
    Grazie, Nazario, e quanto è bello capire come le sue poesie descrivano liricamente i momenti che lei coglie, vivendo intensamente il dono della vita.

    Rita Fulvia Fazio

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  4. Non ho avuto il privilegio di leggere questa raccolta del Professor Pardini, ma ho letto molte altre sue poesie e ne conosco il valore. Poeta della vita, della natura, dell'amore ed ora della morte. Mi ha sempre affascinata il suo stile e quell'insieme di preziosità e di semplicità che permea i suoi scritti sì che ognuno di noi può ritrovare nei suoi fatti, nelle sue emozioni, parte di sè. Stupenda la lettura che ne fa l'amico Balestriere, a sua volta ottimo poeta oltre che critico, e, soprattutto, persona dotata di qualità personali che non si trovano in tutti. Una lettura ampia, ricca di particolari, accattivante, che di Balestriere ci rivela la profonda sensibilità, l'acutezza dell'occhio e della mente e la straordinaria cultura.

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