mercoledì 1 aprile 2020

MARIO SANTORO LEGGE: "IL RETAGGIO DELL'OMBRA" DI ROSSELLA CERNIGLIA; GUIDO MIANO EDITORE




“Il retaggio dell’ombra” di Rossella Cerniglia:
figurazioni, rappresentazioni, immagini, visionarietà
del linguaggio poetico.

Di Mario Santoro


Se la definizione esaustiva della poesia è praticamente impossibile, per le sue implicite potenzialità e per saper essere sempre altro, pur con le tante suggestioni messe in campo dal “vaso rotondo, liscio e bianco” caro ad Antonio Porta che “galleggia sul fiume tumultuoso” e, solo dopo essere stato centrato dal martello pesante del poeta “sprigiona tutta la sua luce”, alla poesia intesa come “la vita al suo più alto e intenso grado di partecipazione intima” secondo Mario Luzi, e alla indicazione di Garcia Lorca nel rimando al “granello di pazzia senza il quale è imprudente vivere”, certamente possiamo condividere il parere di molti esperti e sostenere che essa è, essenzialmente o prevalentemente, linguaggio che a tratti “imprigiona chi scrive” secondo un’indicazione di Piero Bigongiari perché rischia una sorta di costrizione obbligata, e “libera del tutto il lettore” che interpreta il poeta.
Linguaggio, dunque, modalità espressiva ricca, forza delle immagini che sanno richiamare altre figurazioni e rappresentazioni in una sorta di dinamismo continuo e ininterrotto, a tratti quasi fiume in piena, con dislocazioni di situazioni, rapide, impressive, visionarie o lente, ma ugualmente significative e radicanti, sembrano essere le caratteristiche dominanti della poesia di Rossella Cerniglia che sa assumere aspetti e connotazioni particolari illuminando i dati contenutistici che talora velano i contorni dei singoli elementi in favore di una visione d’insieme che cattura il lettore e lo incatena, dal principio alla fine, generando in lui il desiderio di una lettura che non abbia termine.
L’autrice padroneggia, a piacimento, la parola che plasma e piega alla sua volontà e controlla, in maniera attenta, vigile e scrupolosa, anche senza darlo a vedere, i versi, scegliendo fior da fiore le parole che, pur mantenendo alla base la necessaria denotatività, spesso o quasi sempre, sanno farsi inferenziali, imprendibili, se non per tratti soprasegmentali, sfuggenti, allusive e qualche volta, per contrasto voluto, si connotano come fortemente incisive senza perdere mai la tensione emotiva; di qui la scelta di quelle essenziali e il non abuso mai -e mi sembra gran pregio- delle aggettivazioni nella cernita sempre oculata e appropriata.
E ciò vale per tutte le sezioni che compongono il volume “Il retaggio dell’ombra”, anche se risulta evidente la diversità dello stile che balza agli occhi e che mostra, nella prima sezione, un verseggiare impegnativo, organico, robusto, a tratti tetragono, in coincidenza con la tematica trattata, mirando a mantenere sempre un’atmosfera densa di riferimenti, cupa nell’insieme, a forte carica allusiva e visionaria, quasi senza la possibilità di uno sgravio di tensione nel susseguirsi di situazioni che si aggrovigliano, si mescolano, si presentano come orribili, terrificanti, truculente, granguignolesche. Altrove si assiste ad un procedere alleggerito nel verso, che tende alla brevitas e spesso alla verticalizzazione pur in una visione di negatività, di pessimismo, di chiusura; viene continuamente tirata in causa l’esistenza collettiva quanto mai confusionaria, caotica, senza senso e senza ideali, caduti come sembrano essere taluni valori o pseudovalori, in una sorta di rincorsa frenetica, a volte forsennata, del contesto sociale con i fenomeni della violenza, della prepotenza, della sopraffazione, della ricerca del futile, del passeggero, del caotico.

Il linguaggio risulta sempre ben curato e le parole, a tratti, sembrano come rotolare e producono, in altre sezioni, un suono orecchiabile che scende fino al cuore così come, assai spesso, i versi non sono scanditi o delimitati dalle cesure e creano, per ciò stesso, ritmicità particolare di suoni e linee di armonia grazie ad una sorta di segmentazione che non interrompe il cosiddetto flusso sonoro ma, in qualche modo, lo restringono.
E, se nella prima sezione, Apocalypse, si ha forte la sensazione di trovarsi in una sorta di labirinto linguistico-contenutistico da cui non solo non si riesce ad uscire ma si rischia, da un momento all’altro, di lasciarsi sopraffare dalle situazioni, altrove, pur mutando il linguaggio, che tuttavia mantiene il senso della musicalità, mancando il filo miracoloso e salvifico di Arianna, si procede quasi a senso unico e si avverte una percezione di disorientamento e di assenza di via di uscita e, di conseguenza, si ha l’impressione di doversi arrendere o di implodere; eppure il linguaggio non cede alla dissolvenza con affreschi impossibili, ma mantiene la sua forza nella direzione del male di vivere, tra sensazione di implosione beckettiana e bisogno di esplosione joiciana.
Il lettore, come il poeta, rischia di rimanere invischiato nella non via di uscita, che sembra apparire, non come rete montaliana con la maglia rotta per la ipotetica salvezza di qualcuno, ma piuttosto muraglia “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”.
Di qui l’appropriatezza del titolo del volume “Il retaggio dell’ombra” laddove il retaggio indica l’insieme caotico di violenza bruta che viene da lontano e si fa sempre più virulenta e l’ombra e la proiezione dello stesso sul mondo con la luce nascosta dietro un ammasso di nubi e con qualche vano squarcio che crea strane e paurose sagome tanto sul mare quanto sulla terra e, a tratti, origina condizioni di contrasto tra tempeste improvvise e calme piatte, tra chiarori fugaci e foschie impenetrabili. In situazioni siffatte l’uomo, che è sempre solo, destinato a soccombere, tenta invano la lotta e sopravvive a fatica pagando un alto prezzo. Il titolo richiama in qualche modo quella che potrebbe essere una delle tanta funzioni del poeta e lo sollecita a dare ordine al magma confuso, facendo emergere, o almeno tentando, ciò che è ancora immerso nell’oscurità o si mantiene in una situazione di ombra che non riesce a schiarirsi.
La poetessa dichiara apertamente il rifiuto di un Dio da vecchio Testamento, inflessibile, severo, a tratti terribile, giustiziere, vendicativo, un Dio che gli uomini, sebbene spesso tanto malvagi, non possono meritare e propende per un Dio di amore. Questa contraddizione di fondo fa sorgere molti motivi di dubbio e genera incertezza per l’uomo che è incapace di capire, per limiti impliciti e, se spesso è egli stesso causa del suo male, ciò non giustifica la presa di distanza di Dio, sicché il dramma dell’uomo che non riesce a soddisfare il suo desiderio di sapere e avverte forte il disagio della sua ignoranza, sembra giustificabile. Di qui, verso la conclusione della penultima sezione e in tutta l’ultima, quasi una sorta di lungo respiro e la sensazione non dichiarata di un recupero della lontana apocatàstasi di cui parla Origene nel negare l’inferno, nella speranza-certezza che, alla fine del mondo, tutti gli esseri torneranno a Dio e tutte le anime recupereranno l’innocenza primitiva.

Intanto, all’avvio, tutto il mondo lontano appare come immerso in una continua situazione di tempesta e di tragedia, che sembra fare il paio con l’oggi e spinge l’autrice ad interrogarsi sul senso più vero dell’esistenza e soprattutto sui mali, sulla sofferenza, sulla violenza del mondo nel richiamo all’Apocalisse di Giovanni ed evidenzia nella sua lunga, interessante e appassionata trattazione, la mancanza di luce e il dominio del buio che è certamente fisico ma anche e soprattutto spirituale.
L’ambiente appare, nell’immediatezza e con forza d’impatto “oscuro, tenebroso, frutto farneticante / d’una mente in delirio. Qui non vedo il Dio / di promessa salvezza / il pietoso dei mali della terra, il compassionevole / delle umane miserie” (Apocalypse, IV). E sono parole gravi, addirittura di fuoco, che la dicono tutta, e in maniera inequivoca, sulla difficoltà enorme a comprendere un Dio d’amore che consente tanto male e sembra quasi nascondersi o comunque disinteressarsi delle sue creature.
Con queste premesse il tema diventa subito angosciante e problematico oltre che misterioso e incomprensibile o almeno inaccettabile e la Cerniglia, con studiati versi, magnificamente costruiti, rende al meglio la situazione, sulla quale, grava come piombo il silenzio di Dio che ferisce la sua anima e sbigottisce anche perché riguarda tutti gli uomini, anche quelli di buona volontà.
E ciò fa decisamente riflettere con l’angoscia che attanaglia e la condizione immaginifica che l’autrice realizza e che rimanda, per certi aspetti, all’ottimo, ponderoso volume del sac. Vitantonio Telesca dal titolo “E Tu taci?”
L’autrice mantiene un tono, che non scade mai nel lamentoso, anzi tutt’altro, che si carica di tristezza nelle sconsolate riflessioni e realizza un’ atmosfera grigia e cupa, quasi da inferno dantesco: “Sono alle soglie giunto della più vasta ombra / che mai secoli produssero, un limitare dove l’anima / s’inoltra dentro il buio, nella spelonca, e la quiete abbandona / per un turbinare di tempesta” (Apocalypse, I).
Dunque la linea guida sembra essere l’ombra, con la polivalenza dei significati impliciti; essa prevale sulla luce, e non potrebbe essere diversamente, e domina quasi schiacciando, stendendo le sue informe mani ovunque e costringendo la poetessa a rimarcare la condizione di semioscurità fisico spirituale, nel richiamo ad orme non ben definite nelle insistita iterazione, “orme sulle orme, /…/ ombre che non si sfiorano” (ibid.), e ancora “vanno senza che un dove sia / una meta” (ibid.) e infine sono connotabili “come una triste turba di dannati” (ibid.) con la gravezza della non forma definita che le rende ancora più misteriose e incomprensibili e dunque paurose tanto più perché “un precipizio spalancato inghiotte” (Apocalypse, II).
L’immagine suscita, per strane connessioni della mente, il rimando fanciullesco alle monachine panzacchiane che “il camino nero inghiotte”, alle quali, tuttavia, sembra essere riservata la speranza di rivedere le stelle nel notturno cielo.
Qui la speranza è negata, o almeno celata, e si assiste ad un procedere incalzante, quasi un climax ascendente, turbinoso e confuso senza l’ombra di una guida, a guisa di un’imbarcazione senza timoniere, per un destino ignoto e particolarmente crudele.
E così, tutt’intorno è disastro e sfacelo, in una situazione da orrore che il linguaggio sa reggere, mantenendo alta la tensione, e l’autrice può scrivere: “ma l’illusione resta di poter contrastare nei millenni / lo sconcio che la creazione seconda ha generato” (Apocalypse, II). Ed appare del tutto coerente un passaggio certamente non addolcito ma meno tenebroso, quasi una sorta di spiraglio minimo che però si chiude all’istante perché al di sopra c’è  “un Dio non indulgente / che ignora l’infinito strazio della terra” (Apocalypse, IV). E siamo sempre al “Tu taci” di cui sopra.
Districarsi per l’autrice, nel racconto di San Giovanni, non è facile, anche per tanta simbologia presente nell’ indicazione dell’emblematico e iterato “sette”: le sette lettere alle sette chiese dell’Asia Minore e poi i sette sigilli che racchiudono i segreti del regno di Dio, e ancora i sette segni, i flagelli, le coppe e così via.
Non è semplice ma ella sa muovere i fili e punta, più che ai dettagli, a ricreare, con tratti marcati e con tinte forti, l’atmosfera orribile di dolore e di sofferenza che mantiene la sua gravezza cupa ed asfissiante e schiaccia l’anima con un profondo senso di annientamento anche se alla fine, quando il lettore ormai non se lo aspetta, sembra aprirsi una via d’uscita, una luce dopo tanta oscurità “a qualcuno devo grazie del verde ramo / che su me ora si china col vento, voglioso di sfiorarmi / e mi illumina lo sguardo un istante” (Apocalypse, IV). E si tratta di un istante decisamente salvifico.

Si apre una nuova sezione, “Dai margini oscuri”, e muta del tutto la modalità di scrittura non più a disposizione orizzontale. Già al primo impatto cambia registro e si ammorbidisce quasi nella tendenza alla disposizione verticale, al taglio rapido, anche se l’interrogativo di fondo resta lo stesso: senso dell’esistenza che resta, sempre e comunque, mistero inesplicabile, nel suo svolgersi, con i più o meno marcati cambiamenti che comporta e con atteggiamenti meditativi da parte dell’uomo man mano che il tempo passa. E la Cerniglia puntualmente annota: “Ecco cos’è la vita / è questo passo fattosi / attento sul marciapiede / per non barcollare / fretta su cui rallenti / consapevole / cercando leggerezza / al peso che porti / un’andatura conforme / al respiro della vita” (Ecco). Si tratta di versi straordinari, morbidi nella pensosità e nel richiamo a elementi di studiato contrasto come il passo che si fa attento e ponderato sul marciapiede, garanzia di sicurezza, e la ricerca della leggerezza con allusione anche a quella dell’anima, o come il peso, nella molteplicità inferenziale, e il respiro della vita, lieve o grave che possa essere, nell’alternarsi delle illusioni e delle delusioni, con un senso di appagamento o, più spesso, di smarrimento, di sperdimento fisico-spirituale e finanche di estraneità, come l’autrice sostiene altrove, richiamando elementi che generano sensazioni anonime come di cose inanimate: città, strade, piazze, angoli deserti o popolati di uomini ombra, senza la gioia di un sorriso, in una solitudine che appare, chiusa ad ogni sia pur lieve speranza.
E sembra servire a poco, e soprattutto non consolare, “il breve riposo del gatto / tra le tue gambe acciambellato” (Illusione). La stessa sensazione di vuoto esistenziale, di impotenza, di sconsolata rassegnazione, con il ricorso all’uso sovente del “tu” che resta sempre impersonale e non dialogativo, si può cogliere altrove, con o senza sgomento: “Null’altro c’è lì / dove tu sei, null’altro” (Figura).
Assistiamo alla rievocazione monotona di giornate di noia, ripetendo sempre le stesse insulse operazioni, mentre grava sul cuore la sensazione di un peregrinare vano e si risperimenta una assurda condizione di provvisorietà con il sentimento della morte che aleggia continuamente nell’aria.
Non a caso ovunque “Ci sono gabbie ai confini / attendamenti di morte selvaggi / alle frontiere e bivacchi funerei” (Esodo) e tutt’intorno ancora grave fumo, melma e rovine e ghetti improvvisati. La solitudine domina incontrastata anche in altri versi dove il tu, solo e senza altro intorno, cede il posto all’io senza possibilità di incontro: “Andavo a zonzo / nell’auto mia di un tempo / un pomeriggio soleggiato” (Cos’era?). Si comprende bene che il girovagare, quasi come un’anima in pena, senza un punto di riferimento, sembra adattarsi al “ricordo perduto / rinnegato” (ibid.) e come velato in una sorta di cono d’ombra.
La condizione di smarrimento perdura, anche se fa capolino la sensazione di una debole volontà di ripresa che, ugualmente, si rivela ingannevole: “Domani nuovamente / m’imbarcherò nell’impresa” (Domani), per tentare di percorrere strade senza sbocchi e del tutto anonime che contribuiscono ad accentuare il malessere che appare tanto più profondo con l’annuncio del Natale, foriero di inevitabile consumismo ben lontano dal “mite pagliericcio solitario” (ibid.). La dichiarazione di solitudine estrema è aperta denuncia in un mondo-cloaca, con il vuoto nel cuore e il deserto nell’anima e tuttavia sempre in attesa disperante di un po’ di luce e di calore umano, nell’impegno quasi titanico: “Che sforzo per sorridere / per essere normali / benaccetti / nella cloaca che chiamiamo mondo” (Che sforzo per sorridere)
Pure in tanta disperazione, con in cielo nubi nere che non diradano, l’uomo si predispone, testardo, in trepida attesa, ad un pallido raggio di sole, ad una flebile speranza, ad un fremito d’amore dal momento che “Un sentore di ramo fiorito / di biancospino” si sente nell’aria dove vibra “una rara armonia” (ibid.).
Non mancano i richiami alle stagioni come quella invernale con il “philodendron” con le foglie che tremano per il freddo, come pure compaiono “spazi siderali”, inaccessibili all’uomo che osa tuttavia protendere lo sguardo verso le stelle e gli abissi, ma quasi subito, alla sensazione di quiete, ritorna a sovrapporsi un’atmosfera cupa con immagini spettrali come annuncia la poesia Teschio e viole con l’immediato rimando alla morte e alla vita. E, ovviamente, prevale la prima sulla seconda con corpi che cadono sui colpi della mitraglia e formano mucchi di cadaveri: “giaccio nella melma del fondo / corpo oppresso / nel mucchio di cadaveri // il fango come un cane pietoso / mi lecca le ferite”. E, all’immagine fango-cane, seguono putredine, fetore, liquame metafisico, sangue grumoso, un quadro decisamente raccapricciante e poi, in una sorta di annebbiamento e di abbandono, quasi un deliquio nella perdita della conoscenza, un trovarsi tra la vaga sensazione di essere ancora vivi e la ineluttabilità della morte che non è certo “la signora vestita di nulla” di stampo gozzaniano. E addolcisce tanta pena l’idea delle “viole che fioriscono alla base / del mio cranio” quasi “immenso rigurgito di vita” (ibid.). Continua il senso della disperazione, della solitudine, della morte incombente: “non dissolvono / muri di prigione / dove impazzano gridi di silenzi” (Solitudine).
Compare anche il tema dell’esodo che non conosce limiti spazio-temporali ma è sempre ricorrente con la prepotenza che poveri sventurati subiscono, bivacchi alle frontiere in condizioni indicibili e l’illusione di poter varcare il vicino filo spinato, rinforzato da robusta rete di protezione nella quale difficilmente “scappa” la maglia montaliana per l’improbabile salvezza con la via di fuga da tentare verso “la città eterna intoccabile / e remota sull’altura” (Esodo). E anche qui pioggia e fango per i piedi nudi e memorie di violenze e maltrattamenti subiti.
Pure -e fa quasi sorpresa- talvolta prevale una malinconia profonda con il rimpianto di illusioni e sogni abbandonati sul nascere: “una vita verde / che guardavi a distanza / meraviglia di prati / lucide foglie / che barbagliano ai tuoi occhi / senza esserne sfiorata / la tua vita” (Ecco).
Tutto ciò procura ancora dolore e spinge a una sorta di premonizione amara: il sole non emanerà i suoi raggi e “nessun canto / sogna / nessuna voce / nell’aria / o bisbiglio” (Quando), nessun velo di illusione ergerà sul nulla a dominare. Di qui la rabbia e lo sconforto che spingono la Cerniglia al desiderio spropositato di poter cancellare il mondo anche se, subito dopo, sembra voler cedere al fascino della sera, non foscoliana e neppure pascoliana, che “sopraggiunge / con ignoto languore” (La sera sopraggiunge).

Il passaggio alla terza sezione, “Dissonanze dell’ora”, avviene con naturalezza dal momento che il “mondo freddo e grigio”, capace solo di “isterilire l’anima” (Fino al tempio dorato) con le sue ombre si carica di “mestizia di cielo / senza vento” (Alla tua immagini) e consente al ricordo, quasi improvviso e prepotente, di attenuare la ‘pena di vivere’ nel doppio rimando alla poetessa bambina tra le braccia della madre con la gelosia evidente della sorella appena più grande e di se stessa madre con la bimba tra le braccia “alla quale cantare ninne nanne” (Diaspora). E ancora il ricordo ripropone una lontana pioggia violenta contro i vetri dell’auto in autostrada, con il vento furioso, una bestiola morta sull’asfalto, e “l’acceso stupore d’un rosso tramonto” (Sull’autostrada), visto fugacemente nello specchietto retrovisore.
Ora i temi si susseguono con calma nel racconto di un Giorno qualunque che, per dichiarazione precisa dell’autrice, denuncia l’assenza degli uomini nella vana ricerca del Diogene di turno e con la presenza di cose morte, elementi inanimati, oggetti, stanze vuote, pareti bianche di calce, qualche verme nel fango e inutili “melagrane acerbe” che “marciscono sul ramo” (Racconto).
Siamo a una sorta di vaghezza di positività che risulta quasi evidente nella poesia Verrò consegnata al verbo di certezza al futuro e si ipotizza un ritorno nei luoghi dell’infanzia, da effettuarsi magari con pensiero per recuperare “le sementi lontane / di quel che ho piantato / un giorno, la memoria / di quando anch’io fui”.
E, sempre sulla linea sottile della positività si auspica la certezza di poter starsene seduta in serenità, senza voglie scomposte, e di distillare parole “come un fiore” tra “sillabe di petali” (Seduto).
Sembra davvero di trovarsi a un altro tempo se “Rintocchi lievi / spandono un senso / di perdute lontananze” (Rintocchi) e generano pace e quiete grazie anche a un orizzonte arrossato in un cielo finalmente pulito. Ora l’anima pare quietarsi ed aprirsi quasi a nuove prospettive e alla speranza che tende al rasserenamento.
E così si può leggere nella poesia Nei Cieli: “Un bagliore di sole / irrompe tra le nuvole / attimo che improvviso risplende / in occhi di noia opachi / e di senso li irrora e inusitata gioia”. L’autrice sembra davvero esserne convinta se continua: “Ora la vita / apre un passaggio / di solo sole / per la tua speranza / e Luce alta / nei Cieli”.
Segni fiduciosi compaiono a più riprese come la rosa “fiammante” o il “maculato verde” con “i polloni” e “i germogli” o ancora “l’oro verde” pur in presenza di qualche ombra da dissolvere che, tuttavia, non impedisce l’affiorare di un lontano ricordo “in non so quale strada / di una Chicago / di periferia” (Eravamo).
E così tutto sembra più accettabile e il cielo si mantiene chiaro e “il sole è speranza / e l’azzurro è l’Immenso / con una nuvola sbiadita / e dolce d’incertezza” (Oggi il cielo); e gradevole appare la compagnia di un libro “puro amante / che sfiori / tra le dita” (Un libro), così come dolce si presenta il tramonto quieto con “Il sole che cade / dietro i monti / apre cortine lievi / esile desiderio / in un roseo crepuscolo” (Chimera vespertina) e con il paesaggio che appare straordinariamente bello “verde selva e sassi / e acque sorgive / scintillanti” (Paesaggio).
E si potrebbe, ora, citare a lungo osservando “il candore tremante / di un biancospino / la cui anima amai / in un’infanzia remota” (Il tuo sorriso) o ascoltando “il gorgogliare ridente / dell’equoreo smeraldo” (Acque) o annusando “l’eterea fragranza / che tu emani, o bosco” (Visione), in una sinestesia multipla che conduce, gradualmente e con convinzione, ad un punto solo: “Ecco che sono: / il luogo / dell’impermanente, / dell’eterno passaggio / in ogni dove / il fluire fatale / di un Amore / che ogni cosa pervade / e Tutto muove” (Onda). E così si passa, dall’ombra primigenia alla luce…
Fin qui l’autrice che attendiamo a nuove avventure dello spirito mentre ora ripercorriamo situazioni in libertà con i silenzi che in certe condizioni, con l’evidente ossimoro, gridano ancora e altrove tacciono, o si mostrano come ‘flatus vocis’ come nel ricordo della “vuota casa antica / diroccata” (Non sai) o delle chiese “nude, polverose” (Celebrazioni), rischiarate a mala pena da una luce sinistra che genera paura con il “nero uccello / che taglia il muto stagno / scuotendo ali di cencio” (ibid.) che preannuncia la catastrofe con una evidente nota di malinconia e di rimpianto: “Non più gli incensi / nell’abside fastosa / e i salmi / che alti volarono nel vento” (ibid.).
E ci lasciamo sorprendere e incantare da certe espressioni dense di significati, oltre quello denotativo, e capaci di aggrumare sensazioni profonde, emozioni forti, rimandi a lontananza perdute o mai del tutto possedute, richiami a situazioni possibili, voglie scomposte, strane magie appena allucinate, intuizioni veloci, e con sempre una linea di amarezza serpeggiante o evidente ma anche di quiete serena. Ne citiamo, a mo’ d’esempio qualcuna: la “nota smarrita / che non ritroverò” (Che sforzo per sorridere); le “pupille inquiete / e meste, interroganti” (Inarrivabile); “Solitudine di vicinanze inutili” che non potranno mai dissolvere “muri di prigione” (Solitudine) e ancora “piccoli arbusti”, “viole” che “fioriscono” sia pure alla “base / del mio cranio” (Teschio e viole); “ali di cencio” (Celebrazioni) - e altre.
Ma qui siamo obbligati a tacere anche se la tentazione di ricominciare con altre annotazioni è forte.

Mario Santoro

Rossella Cerniglia. IL RETAGGIO DELL’OMBRA
Guido Miano Editore, 2020
mianoposta@gmail.com



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