GUIDO MIANO EDITORE
NOVITÀ EDITORIALE
È uscito il libro di poesie:
LA SOLITUDINE DEL POETA di FRANCO DONATINI
con prefazioni di Nazario
Pardini e Floriano Romboli
Pubblicata la raccolta poetica dal titolo “La
solitudine del poeta” di Franco
Donatini, con prefazioni di Nazario Pardini e Floriano Romboli, nella
prestigiosa collana “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore, Milano 2021.
Amore, solitudine, memoria, natura, vita, e viaggio nella
poetica di Franco Donatini
«(…) Forse so perché amo quest’autunno / con il
sole che si spegne lentamente / nel mio orizzonte sempre più vicino / È perché
assomiglia alla mia sorte / come la bruma avvolge i miei ricordi / come fa il
vento… con le foglie morte» (Serata
d’autunno). Iniziare dai versi incipitari di questa testuale poesia
significa penetrare fin da subito nell’anima della ricerca poetica di Franco
Donatini; nel suo messaggio di vita, d’amore, di solitudine, di sorte; di un
autunno che si srotola con maestosi endecasillabi su uno spartito musicale
tanto vicino alla melodia di grandi maestri. Una poesia che fa del simbolismo l’arma
vincente, il valore aggiunto del canto, dove l’autunno rappresenta non solo l’ultima
stagione dell’anno ma l’avvicinarsi al redde
rationem della vita del poeta. Il sole che si spegne lentamente tanto
rassomiglia alla sua sorte. A quella degli uomini legati da un filo sottile a
questa esperienza unica e mortale. I ricordi, le foglie morte sono indici
determinanti di questo linguaggio che trae dalla natura gli stilemi del suo
dire.
Franco Donatini stringe all’anima i sogni e le
speranze di una vita, di un viaggio in un mare non sempre tranquillo, a volte
gonfio di onde burrascose, attraverso le quali raggiungere l’isola nascosta.
Quel porto che è nella nostra mente e che forse non esiste nella realtà, ma è
sempre motivo di ricerca e di nostos.
Basta andare, non fermarsi, non restare ancorati, fermi, dacché la poesia è
viaggio, è percorso anche in mezzo a cavalloni che ti fanno sbattere in scogli
ripidi e aguzzi. Il poeta non si arrende, ricupera una tavola scampata e con
quella continua il viaggio. Un cammino che la poesia traduce in vita, e che la
vita traduce in poesia; nel misterioso cammino di un dilemma su cui indaghiamo
senza risultati: «(…) Così è stato un giorno come tanti / che il caso ha
estratto il nostro incontro / che i tuoi occhi hanno parlato ai miei / e la tua
luce ha acceso i miei pensieri / Ignoro quanto tempo sia passato / un lustro un
anno un giorno o solo ieri / Non son capace di contare il tempo / né prevedere
quando finirà / e cosa resterà di questa storia / se il vento spazzerà… dalla
memoria» (Questa vita).
Il tempus fugit e il mistero del visionario cammino umano si fanno
cuore, focus della ricerca spirituale. Versi che scorrono fluenti, musicalmente
avvincenti, di euritmica sonorità. La poesia è musica tutto il resto è
letteratura, affermava Paul Verlaine. Affermava anche che l’uomo non si
accontenta del suo stato terreno, della sua temporaneità, del suo essere a
terra, aspira a qualcosa di eccelso, di superlativo: «Le ciel est par-dessus le
toit». Aspira al volo, a toccare le corde dell’azzurro, ad elevarsi al di sopra
delle aporie del quotidiano.
Da qui l’inquietudine di
esistere, la splenetica saudade a cui l’uomo è condannato. La diaspora tra
terrenità e volo. È proprio dell’uomo voler superare l’orizzonte che ci tiene
vincolati a terra. Andare oltre le colonne che delimitano il nostro esistere.
Si può ricorrere al memoriale: «(…) E ti stringevi a me / e mi seguivi / tra
le aiuole di bosso e di lentisco / e percorrevi il tragitto antico / della tua
esistenza / e senza affanno avvertivo / il respiro fluir dalle tue labbra // E
ti stringevo a me / per non lasciarti / per tornare a contare i nostri giorni /
a consumare insieme le stagioni / ma tu fuggisti senza far rumore / nella tua
casa eterna ove ritorni / a divider con gli
altri i tuoi ricordi» (Madre mia) e
ripescare quelli che sono i momenti più intensi delle antiche primavere.
Donatini lo fa, intendendo con ciò dare carburante al suo patos, dare vivacità
ad una vita di cui conosce tutta la debolezza, tutta la fragilità. Scomodando
Orazio: «Dum loquimur fugerit invita aetas». Il poeta conosce la brevità dell’esistere,
e sa anche che a certi quesiti non ci sono valide risposte, quindi scrivere,
rovesciare sul foglio le inquietudini se non si vuole impazzire: «Nulla è più
triste / nel veder gli altri andar via / lasciarti solo / a consumar nei giorni
/ l’amara nostalgia / a viver il vuoto / che il loro pensiero / fa più amaro» (Gli altri che se ne vanno).
Una poesia densa di vita,
di recondite armonie direbbe il mio maestro Puccini; una poesia attiva,
fattiva, coerente e plurale, in cui il poeta racconta sé stesso, allontanandosi
da ogni tentativo sperimentale di positura prosastica. Qui il verso si amplia e
si rattiene per seguire i movimenti di un cuore che palpita, che sente, che
ama, pensa, e freme. E sa anche conoscere quando è il momento di andare a capo,
di interrompere una misura per crearne una nuova che continui l’armonia della
poetica. Ed è così che la natura si fa compagna inscindibile di un’anima che lo
segue e lo rivela. Sì, è essa che lo prende e lo trascina nei meandri più
nascosti del suo panorama. Gli dà il sintagma, il lessema; gli dà il verbo, la
parola, tramite cui il poeta rivela il fatto di esistere; rivela la matassa dei
sentimenti che covano da tempo nel suo crogiuolo esistenziale: «Ho
visto / i miei pini scomparire / sotto il calore di un cielo ingrato / il sole
snidare ombre / e scolpire di crepe aride terre / Ho visto fuggire / e perire
sotto il fuoco / voli d’uccelli e strisciar di serpi / e morire con loro / il
mio passato» (Alberi miei).
Il poeta fa dei simboli
naturali (tramonto, alba, meriggio, mare, cielo, alberi…) il linguaggio del suo
poema. Non è di certo vano tirare in ballo Albio Tibullo (54 a.C. - 19 a.C) col
suo apologo della natura: «Non ego divitias patrum fructusque
requiro / quos tulit antiquo condìta messis avo: / parva seges satis est, satis
est requiscere lecto / si licet et solìto membra levare toro. / Quam iuvat
immites ventos audire cubantem /aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,
/ securum sommos imbre iuvante sequi! / Hoc mihi
contingat!». («Io non voglio
per me le ricchezze e i guadagni dei padri che i raccolti procuravano agli avi
antichi; un modesto raccolto mi basta e, se mi è lecito, mi basta riposare nel
mio letto e rinfrancare le membra nel consueto giaciglio. Com’è bello starsene
a letto e ascoltare il soffiare impetuoso del vento stringendo dolcemente al
petto la donna amata, oppure, quando l’Austro invernale rovescia gelide acque,
addormentarsi al sicuro, consolati dal rumore della pioggia che batte! Questo
mi tocchi in sorte!»).
O ancora Friedrich Hölderlin (Lauffen am
Neckar, 1770 – Tubinga, 1843) che nove anni prima di essere ricoverato in una
clinica per alienati mentali, chiede nella lirica Iperione o l’eremita della Grecia al «canto» che sia per lui
«rifugio amichevole», affinché la sua «anima, raminga e senza radici / non
smanî di oltrepassare la vita» e divenga «luogo di felicità (…) giardino curato
con premuroso amore, / ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura, / in
sicura semplicità io abbia dimora, / mentre di fuori con tutto il suo
ondeggiare / il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano»; e nell’elegia
Pane e vino invita tutti i poeti a unirsi in un’universale fratellanza: «… e
molto (buono) ascoltare dei giorni d’amore, / dei fatti che accaddero un tempo
/… Sono i poeti, a fondare quel che rimane». Trovare la serenità là da dove
siamo partiti è forse il sistema migliore per calmare il disagio che
incontriamo misurandoci con il tempo e la morte, se non si vuole impazzire.
Questo fa il nostro poeta: ama, sente, medita, e rielabora, reificando
sentimenti e passioni che mai tradiscono l’aspetto umano; e lo fa con versi che
ricuperano il passato nutrendosi di presente, tracciando un percorso vicino e
attuale. Molto coerente con la vita che ci si presenta in tutta la sua plurale
emotività; in tutti i suoi polisemici messaggi che la rendono varia e
articolata, multipla e densa di ricordanze, di inquietudini esistenziali, di
solitudini meditative, di pensamenti in cui le domande fagocitano risposte. Il
titolo della silloge La solitudine del
poeta indica forse che ogni porta cerca la solitudine per meditare su
questa storia che ci tocca da vicino; lo fa perché è nella solitudine che l’uomo
trova se stesso, il suo patema, la sua intensità vitale, afferente al suo
processo emotivo.
Ma Franco Donatini, alla fine della lettura, anche
se fa trasparire note di melanconico travaglio, tuttavia è estremamente legato
a questa storia; ne vive i momenti capitali, gli attimi più fecondi. E forse se
troviamo qualche risentimento è perché come ogni umano la vorrebbe diversa
questa vicenda, la vorrebbe più a dimensione umana: «Non resta che il cuore a
riannodare / ricordi che la mente ha già perduto / Perché tremare ancor su
questi muri / in piedi ormai a rinnovar il dolore / La vita pulsa chiusa dentro
i sassi / La pioggia li nutre e li disseta / Con mani di luce il sole / li
accarezza / Il vento gli sussurra nell’attesa / parole di speranza // Spunta un
fiore / Timido e lieve come un batter d’ali» / (Non resta che il cuore).
Terminare la mia narrazione critica con le
parole della poesia forse è il sistema migliore per avvicinarsi allo spirito di
Donatini: speranza, un fiore timido e lieve come un batter d’ali.
Un fiore lieve come la vita.
Nazario Pardini
L’AUTORE
Franco Donatini, professore universitario a Pisa, critico d’arte è
presente nelle commissioni di importanti concorsi in campo letterario.
Impegnato nella comunicazione, ha collaborato e partecipato a trasmissioni
televisive quali “Linea Blu”, “Rai Utile” ed “Evoluti per caso sulle tracce di
Darwin”. Autore di poesia e narrativa, ha pubblicato molteplici opere
letterarie: In viaggio, prefazione di
Patrizio Roversi (2008); Galileo, i
giorni della cecità, prefazione di Carlo Rubbia (2009); Intorno a lei. Chagal, amore e arte
(2009); Giuseppe
Verdi e Teresa Stolz. Un legame oltre la musica (2011); La vestale di Kandinskij (2012); il
romanzo Dov’è Charleroi (2013) e il
saggio storico Capodanno pisano, una
questione di stile (2014); Modigliani,
mon amour (2014); Lautrec, anima di
Montmartre (2015); La nostra vita con
Dalì e il saggio Il mulino dei sogni,
glorie e disgrazie del nucleare (2016); Io
non sono Magritte (2018); Un
futurista romantico (2019); Antonia
Bolognesi, l’amore segreto con Giorgio de Chirico (2021). Nei suoi libri
dedicati a figure storiche e artistiche, approfondisce personaggi del mondo
dell’arte e della scienza, secondo l’approccio “visti dal di dentro”,
analizzandone in maniera introspettiva il rapporto tra l’opera e il profilo
umano.
Franco Donatini, La solitudine del poeta, prefazioni di Nazario Pardini e Floriano
Romboli, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 92, isbn 978-88-31497-70-1, mianoposta@gmail.com.
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