Sonia Giovannetti, collaboratrice di Lèucade |
Sonia Giovannetti legge “Dentro l’uragano” di Franco Campegiani
Una lettura davvero emozionante, quella di “Dentro
l’uragano”, l’ultima grande fatica di Franco Campegiani. Un’emozione suscitata
in me da una duplice ragione, poiché in questo scrigno prezioso di
autocoscienza del proprio fare poetico l’autore non solo recupera,
valorizzandoli compiutamente e inequivocabilmente, i motivi costanti e profondi
che da sempre lo ispirano – primo fra tutti, l’amore per la terra, fonte
autentica di vita e di integrale dignità dell’uomo – ma mostra anche, e con dovizia di riferimenti,
il fondamento filosofico di questo suo sentire profondo.
Anzi, mai come in questa raccolta poetica appare
chiara – ed è l’altra ragione del mio entusiastico consenso, avendone scritto
in un saggio di prossima pubblicazione – l’indubbia potenza generativa del
connubio di poesia e filosofia, di ragione e sentimento, parimenti e
inestricabilmente complici nell’alimentare la vis poetica di “Dentro l’uragano”, al punto che l’assenza di una
sola di esse avrebbe di certo attenuato la vitalità e il brillio dell’intera
opera.
Già nel ricordo partecipe e commosso di Pasolini
che apre la raccolta – “Lettera a Pier Paolo” – insieme al condiviso rimpianto
per le cose “svanite per sempre” (i
valori della terra), corrotte dalla Storia, il poeta annuncia una “palingenesi inesorabile”, una loro
inevitabile rinascita a compimento del “Dopostoria”.
Con ciò, pur omaggiandolo, il poeta sembra andare oltre lo stesso Pasolini: si
avverte infatti già qui, nel suo poetare, un’eco delle origini del pensiero
filosofico, che, con Anassimandro, indicava nell’ Apeiron, nell’ “Indefinito”, il Principio originario, ingenerato e
imperituro, da cui tutto deriva e a cui tutto è destinato a tornare.
La storia stessa è vista sì come storia di
corruzione – “odio la storia”, dice
infatti il poeta in “Qui ora” – e di degrado della “verde innocenza contadina” (“Piovra metropolitana”) ad opera della
civiltà, del “mostro informatico”
(“Un topo stringe tra le dita”); ma è l’intera vicenda umana ad essere
additata, analogamente al pensiero antico, come
progressivo e fatale distacco dal Principio originario, dove il bene e
il male erano assieme, come solo la natura potrebbe ancora mostrare a chi non
se ne fosse allontanato. Senonché, questo il disdoro che pervade tutta l’opera,
“noi abbiamo abbandonato l’aratro”
(“Lettera a Pier Paolo”). La Storia diventa allora un cammino di espiazione e
redenzione, finché non si tornerà ad essere, come dovrà millenaristicamente
accadere “un unico molteplice divino, una
sola fraterna nazione” e l’uomo, il “figliol
prodigo”, non sarà tornato “all’ovile
di se stesso” (“Salmo”), a recuperare la propria verace identità smarrita
nel tempo.
Molti sono, in proposito, i riferimenti che vengono
alla mente del lettore.
C’è in primo luogo, nell’opera, una religiosità che
non è un credo dottrinale, quanto piuttosto un acuto senso del sacro, di ciò
che, letteralmente, è separato dal mondo visibile e si costituisce come il
mistero dell’eterno, il Principio da cui tutto discende e di cui l’uomo, “immemore dell’Apeiron”, ha smarrito la
memoria: “Dell’infinita in finitudine,
dove morte e vita sono amalgamate in dolci e sudate armonie…Peras non ebbe mai
memoria” (“Storia di Peras”). Somiglia molto, quest’uomo, all’uomo di
Platone, incatenato nel mito della caverna e perciò impossibilitato a conoscere
la verità. E un aspetto della verità, in secondo luogo, è la visione vita come
coesistenza di opposti: “La vita è brutta
perché è bella” (“A Sartre, borghese mascherato”); “Ogni cosa è nell’altra, e la luce appare nell’ombra, tutto è positivo
e negativo, fratellanza di chiari e scuri” (“Epitaffio”); “Questo fascio di muscoli e nervi affiora da
un magma sereno infuocato, dalla contraddizione dell’essere…” (“Caro
Emanuele”). Richiami eraclitei, di quell’Eraclito per il quale la natura è
quell’orizzonte immutabile “che nessun Dio e nessun uomo fece, ma sempre è
stato, ed è, e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al
tempo dovuto si spegne”. Richiami confermati dal poeta nel suo “Parmenide”: “Hai ragione, Parmenide, non è possibile che
l’essere non sia, ma…non puoi dirmi, non l’accetto, che non esiste mutazione,
che tutto ciò che mi respira intorno…sia tutta una tragica illusione”. La
stessa ragione, d’altro canto, non può comprendere “la legge suprema dei contrari”, a ciò impedita dal principio
aristotelico di non contraddizione, che anche il grande Kant – il “Caro
Emanuele” – fa suo, ma che, secondo Campegiani, sottrae al pensiero la facoltà
di penetrare quel “magma sereno infuocato”,
la cui sostanza conflittuale racchiude il segreto della vita. Il poeta,
tuttavia, sembra prendere le distanze anche da Eraclito, quando, rivolgendosi
proprio a costui, l’”Oscuro di Efeso”, gli contesta che “…l’armonia dei contrari non sta nel Divenire, ma nel segreto accordo
del moto con la stasi”, di ciò che diviene con ciò che sempre è.
Ecco allora delinearsi più compiutamente la
concezione che il poeta ha della realtà. Fondata sul conflitto tra Ordine e
Caos, tra l’Apollineo e il Dionisiaco, la “legge
suprema dei contrari” è la legge del mondo, in cui tutte le cose sono se
stesse e il loro opposto da quando sono fuoruscite dal Principio e degradate
nella storia. Esse custodiscono e insieme rivelano, a chi sappia vederlo, il
segreto della loro armonia, alla quale ritorneranno come sempre ciclicamente,
come è destino che accada. E ciò accadrà sempre anche grazie all’amore, che in
tutta la raccolta annuncia e si fa artefice dell’armonia degli opposti: “Da sempre una guerra sfida/ la dolcezza del
grembo,/ ma da sempre trasforma il grembo/ le più dure lotte in amore./ Così si
ricompone dopo il caos/ l’urbana geometria/ dei noti e già amati scenari” (“Osservando
tre tele”). È l’amore come rapporto fecondo ancorché travagliato con l’altro da
sé – la donna, la terra (sovente rappresentata come il grembo materno), l’altra
faccia dell’io – che perpetua la memoria
del Principio e garantisce l’eterno ritorno ad esso dopo la fine, mai
definitiva, dei tempi.
Ma ad arricchire ulteriormente il complesso sfondo
concettuale su cui poggia l’intera opera di Campegiani, c’è la sua concezione
del tempo, che mi trova particolarmente sensibile oltreché consonante con lui,
avendo io stessa dedicato a Giano parte delle mie ultime fatiche letterarie. Il
dio dalla doppia testa, “padrone del
Passato e del Futuro”, simboleggia per gli antichi, com’è noto, il ciclo
eterno del tempo, in cui passato e futuro si fondono negli “inizi perenni”. Molti, nei versi della raccolta, i richiami a
Giano: “…io sono nell’eterno,/ da me
nasce il tempo, in me muore” (“Sulle ali di Giano”), sicché la fine e il
principio “l’una nell’altro si
confondono” (“Lasciarmi pensare dal pensiero”). “Torna sempre a capo il
tempo./ Creazione eterna, eterna attualità” (“Dico a te”). L’intero mondo
vive in una “bolla di essere e tempo,/ di
crepuscoli eterni/ appesi ad albe immortali” (“Caprigliola”). Versi assai
suggestivi, che suonano a tutta prima come omaggio ad una religiosità pagana
figlia della terra, una religiosità di stampo antico, come d’altronde
inattuale, in quanto abitante del “Dopostoria”, sente di essere l’autore. Ma la
sua è piuttosto una forma di moderno immanentismo, in cui la natura, eterna
dispensatrice della vita e della morte, invera il divino in ogni sua
manifestazione: “Deus sive natura”, direbbe Spinoza.
In margine alle considerazioni sul tempo, non posso
sottrarmi alla notazione che segue. Nel leggere che “il principio e la fine si danno sempre la mano” (“Ora si torna a
capo”) la mia memoria è subito tornata ai versi meravigliosi dei “Quattro
quartetti” di Eliot, che declinano suggestivamente un analogo concetto,
immettendo anch’essi un provvidenziale disordine nell’ordine angusto e dubbio (non
solo per noi poeti) del tempo lineare, emblema di un’altrettanta soffocante
quanto superficiale modernità. Detto questo, e dato atto a Campegiani di avere,
con “Dentro l’uragano”, reso onore alla poesia per quanto è dato ad essa di
esplorare il mistero della vita nel
tentativo di penetrarlo, vorrei segnalare
che versi poeticamente bellissimi come: “Così l’eterno è nel tempo/ ed io non sono morto, ma vivo la morte e copulo con lei” (“Epitaffio”) e ancora:
“Giunge l’essere al tempo/ e torna
all’assoluto il relativo” oltrepassano i confini della pura poesia per
evocare ancora una volta (ma stavolta attualissimi) scenari filosofici di vasta
eco nel modo del pensiero contemporaneo. È infatti Emanuele Severino a
sostenere l’eternità di tutti gli esseri, la cui caducità (finitudine) è solo
una parvenza dovuta al loro apparire nel tempo (nel “divenire”), ed è Heidegger
a indicare nella preparazione alla morte (“vivere per la morte”) il senso della
vita, la piena realizzazione dell’”esserci”. Estensioni suggestive della poiesis, forse, questi poeticissimi
versi; una poiesis che non di rado ama lambire, e talvolta sorvolare con
sapiente maestria, il campo del cosiddetto “puro pensiero”. Del resto, come e
perché fidarci in fondo di così incerti confini; ne prescinde meritoriamente e
audacemente Franco Campegiani, avendo dato vita ad un’opera poetica innervata
generosamente di sapori filosofici, grazie ai quali tutto il lirismo che la
pervade copioso ne è acceso ed esaltato.
Sonia Giovannetti
Carissima Sonia, dirti che sto in apnea sarebbe inesatto, giacché significherebbe che sto trattenendo il fiato, mentre mi trovo in una vera e propria crisi respiratoria e in realtà il fiato mi manca. Mi avevi accennato ad una sorpresa imminente, ma non avrei mai immaginato di potermi trovare di fronte a questo monumento esegetico che mi onora tantissimo, entrando con così disarmante disinvoltura nel mio universo interiore. Dipingi con tocchi di rara maestria la mia visione del mondo, poetica e filosofica a un tempo, facendo confronti e raffronti ragguardevoli con poeti e filosofi d'alto rango, appartenenti sia al passato che alla modernità. Ti sono davvero grato e mi congratulo con te, con il tuo acume critico e con la tua spiccata sensibilità.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Sono io a ringraziarti, caro Franco, per la lettura del tuo prezioso libro. Mi conosci, sai che le parole che uso corrispondono a ciò che sento e le tue poesie riescono ad unire il 'sentire' e il 'ragionare' in modo davvero, a dir poco, efficace.
EliminaE ringrazio sempre tanto il Prof. Pardini per l'accoglienza e il bene.
Sonia Giovannetti