lunedì 5 novembre 2018

FRANCO CAMPEGIANI SU "I BOSCHI ANTICHI"


I BOSCHI ANTICHI
Manifesto della Montagna Amica
(Pretare di Arquata del Tronto, 28/10/2018)



Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade

Si   potrebbe   pensare,   e   sono   molti   a   crederlo,   che   i   recenti sconquassi   sismici   che   hanno   dilaniato   le   zone   appenniniche   del Centro-Italia abbiano costituito l'epilogo, perentorio, irreversibile, della lenta   e   inesorabile   vicenda   di   abbandono   delle   montagne   iniziata all'incirca un secolo fa. Sarebbe dunque stata la stessa montagna a porre la parola
fine  a quel lento processo di spopolamento che nell'arco del Novecento ha visto migrare in massa, dai monti verso il piano, fasce consistenti di plebi rurali, nella promessa di migliori condizioni di vita. E' una lettura possibile, ma resta da intenderci sul significato della parola fine, che nell'abbandonata sapienza contadina è stata sempre intesa come  preparazione di un nuovo ciclo, anziché come estinzione  totale e senza appello di una data esperienza.
Nell'arco dei migliaia di secoli che ci hanno preceduto, la visione del mondo   è   stata   sempre  ciclica,   anziché  lineare,   come   il   miope razionalismo contemporaneo ci impone di credere. I contadini di un tempo sapevano che l'inverno prepara l'estate e che dopo il tramonto non   può   che   venire   l'aurora.   Secondo   questa   lettura,   le   violente distruzioni sismiche non possono essere altro che un grido, un potente richiamo della montagna per ricordare che lei esiste e che la sua salute è fondamentale per l'umanità (di quella odierna come di quella futura) che ha scelto di scendere e vivere a valle. Se la montagna si ammala, i suoi mali si riversano a valle sotto forma di esondazioni, di alluvioni, di smottamenti, di frane, di valanghe e quant'altro. I dissesti idrogeologici sono strettamente legati all'abbandono delle terre   e   all'incuria   dei   boschi.   E'   una   saggezza   che   gli   antichi possedevano. Loro amavano la diversità e sapevano che ogni cosa è connessa con l'altra: il piano con il monte, la terra con il cielo, il giorno con  la  notte,  il  maschile  con  il  femminile,  e  via  dicendo.  L'umanità odierna tende a vedere le cose a senso unico e sta chiudendo il proprio orizzonte entro i limiti di una cultura angusta e  asfittica, livellata e piatta, priva  della  visione  montuosa  e verticale  della  vita. Una cultura  che pretende di essere aperta  mentre in realtà mostra di essere chiusa per il fatto di avere, per così dire, levigato  il globo, annullando quelle asperità che possono renderlo ricco e armonioso. Non vorrei però venire frainteso. Io amo la cultura metropolitana, amo il processo di civilizzazione che ci ha condotto nel punto in cui siamo. I cosiddetti cafoni  di cui ha parlato Ignazio Silone, sono scesi da terre simili a queste*, in cerca di benessere e non certo di  decrescita felice. Le ricchezze non vanno demonizzate. Il demonio è l'uomo, non le ricchezze: l'uomo che non è all'altezza morale del progresso raggiunto.Equilibrio, dunque. Non si può correre a senso unico verso l'opulenza voltando le spalle alla natura. Bisogna evitare che tra la natura e l'uomo si crei un'estraneità, una distanza incolmabile, una frattura. La relazione con suolo e sottosuolo è fondamentale. L'urlo della montagna, in quest'ottica, è davvero salvifico. In esso c'è il richiamo della vita, non quello della morte, come potrebbe sembrare. Non possiamo dimenticare il valore di un bosco: un'immensa riserva di ossigeno e di acque purissime; un mondo di  biodiversità e di catene alimentari benefiche, con presenze di microrganismi, di funghi, di insetti, di uccelli e di molti animali. La vita umana non può fare a meno di questa ricchezza, se ne deve occupare. E non soltanto con l'istituzione di un Parco, di un Ente cui affidare la sua salvaguardia. Tutto ciò è meritorio, ma quello che più conta è la presa di coscienza popolare. Non è possibile che l'umanità viva isolata dal contesto naturale, che è poi il mondo vero, quello che ci è stato dato in dono. Dagli anni     '50 ad oggi la superficie dei boschi italiani è raddoppiata a causa dell'abbandono delle terre coltivate e del fatto che l'agricoltura è sempre   meno   redditizia   per   ragioni   che   non   è   questa   la   sede   per analizzare.   Dove   in   pianura   le   aree   agricole   sono   state   invase   dal cemento, dalle ciminiere e dall'asfalto, in montagna sono tornate nel patrimonio   boschivo,   ma   in   questo   processo   l'uomo   non   c'entra,   è totalmente assente e lontano. Occorre ristabilire relazioni, occorre creare un'osmosi.  Non è passatismo nostalgico. Non si tratta di tornare  al passato, alla civiltà dell’asinello, per intenderci, con tutto il rispetto e l'amore che merita l'asinello. Si tratta al contrario di inventare una nuova cultura della terra, di tornare a comprendere, con le modalità di oggi, una cosa semplicissima, che stiamo rischiando di dimenticare, o forse abbiamo già dimenticato: noi siamo terrestri, siamo figli della terra e non possiamo rinnegare il cordone ombelicale che ci lega alla Madre da cui veniamo. L'istanza di terra non nasce da un desiderio di conservazione e di immobilismo, ma dal cuore dello stesso villaggio globale in cui viviamo, il quale,  senza  radici,  non  può  che rinunciare  al  suo divenire,  al  suo rinnovamento, alla possibilità di avere un futuro. Per questo l'attuale civiltà è in crisi. Crisi che può mostrarsi foriera di interessanti novità, se
avremo il coraggio di vedere in quel che resta della realtà rurale non un residuo d’altri tempi, un reperto archeologico, bensì un seme di nuova cultura.  Cultura  e  coltura  hanno identica radice. Il termine culto possiede lo stesso etimo, e ciò riporta l'attenzione sul valore sacrale dei lavori rurali,   legati   alla   spiritualità   e   alla   creatività   della   Terra   Madre. L’agricoltura   porta   con      quell'anelito   profondamente   spirituale   del lavoro   e   della   tecnica   che   il   mondo   contemporaneo   purtroppo   ha dimenticato. Il  bosco  un  tempo   era   sacro:   luogo   di   sussurri   e   di   strepiti,   di
dialoghi incessanti, di alleanze e di scontri, di circolazione di energia. Luoghi fatati, ricchi di scenari fiabeschi, di miti e leggende che fanno sorridere l'uomo d'oggi, sedicente  disincantato. Quale disincanto? Gli zappaterra di cui parlano Carlo Levi e Silone, come pure Sciascia ed Alvaro, Pavese e Pasolini: quelli erano    disincantati, non noi, illuse larve metropolitane, rintanate nei nostri mondi di plastica, nelle nostre scatole virtuali! Il Neorealismo  artistico e letterario nato nel secondo dopoguerra ha offerto una testimonianza preziosa della fine della civiltà contadina in nome di un'emancipazione senz'anima, incapace di mantenere vivo ogni umanesimo ed ogni autentico senso del vivere civile. la rabbia pasoliniana contro l'omologazione e l'imborghesimento, contro il consumismo e il materialismo, se non si tiene a mente questo sacrificio della cultura popolare sull'altare della società di massa dei tempi attuali. Pasolini parla di un'umanità legata agli elementi, alle radici tradite, alla terra tradita. Le plebi rurali inurbate, le baraccopoli: un'umanità fuggita dall'Eden e imbizzarrita alla rincorsa dei   paradisi   artificiali.   Un'umanità   che   viene   dal   fiume   del   sacro primordiale, dall'amore per la terra, per la mater, tradito purtroppo dal materialismo brutale e balordo che sappiamo. Nella piazzetta di Chia, il borgo della Tuscia Viterbese dove Pasolini girò le famose scene del Battesimo di Cristo nel  Vangelo   secondo   Matteo, troviamo un busto bronzeo dello scrittore, accanto al quale è stata incisa una sua poesia, tradotta in italiano dal friulano. Ne leggo uno stralcio: "Contadini di Chia! /Centinaia di anni o un momento fa, /     io ero in voi. / Ma oggi che la terra /     è abbandonata dal tempo, /voi non siete in me. / ... /      I giovani sono lontani /  e voi non parlate... Quelli che vanno a Viterbo/ o   negli   Appennini   dov’è   sempre   Estate, /   i   vecchi,   mi
assomigliano:       /ma quelli che voltano le spalle,/ a Dio,  /e vanno verso un altro luogo... Dio, /lasciano la casa agli uccelli, /   lasciano il campo ai vermi,   lasciano   seccare   la   vasca   del   letame,/   lasciano   i   tetti alla tempesta, /  lasciano l’acciottolato all’erba,/ e vanno via  /  e là dov’erano  /non   resta   neanche   il   loro   silenzio...". Il Progresso!  non  può  essere progresso quello che volta le spalle alla Madre, alla Vita. Ma ecco altri versi di Pier Paolo, che voglio leggervi, tratti da Poesia in forma di rosa: "Io   sono   una   forza   del   Passato./ Solo   nella   tradizione   è   il   mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d'altare, dai borghi /abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli.   Giro per la Tuscolana come un pazzo,/ per l'Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul   mondo,/      come   i   primi   atti   della   Dopostoria,/ cui   io   assisto,   per privilegio   d'anagrafe,/ dall'orlo   estremo   di   qualche   età  / sepolta. Mostruoso è chi è nato/ dalle viscere di una donna morta.    / E io, feto adulto, mi aggiro/ più moderno di ogni moderno/ a cercare fratelli che non sono più". La Madre, tuttavia, caro Pier Paolo, non muore. Lei è la vita e la vita continua. Bisogna andare avanti. Dopo il naufragio occorre ricostruire il vascello e porsi di nuovo in mare. E' così da sempre, il viaggio è infinito, non c'è blocco che tenga. Giusto il tempo per leccarsi le ferite. Partire sempre, e ripartire dalla fine. Trasformare la montagna, da nemica, in montagna amica. Affidarci ad essa, allo Spirito del Bosco, allo Spirito della Valle, come a quello del Piano o del Mare: loro hanno la capacità di   riportarci   sempre   e   comunque   ai   nostri   valori   essenziali.   "Potrei
sopravvivere alla scomparsa di tutte le cattedrali del mondo, ma non potrei mai sopravvivere alla scomparsa del bosco che vedo ogni mattina dalla mia finestra": così Ermanno Olmi, che viveva ai margini del bosco e   aveva   diretto,   nel   1993,  Il   segreto   del   bosco   vecchio,   tratto   dal racconto di Buzzati.

Franco Campegiani

* Il convegno su "I boschi  antichi"  si è svolto il 28 ottobre 2018 a Pretare   di   Arquata   del   Tronto   (Ascoli   Piceno),   nel   cuore   delle devastazioni sismiche del 2016.




11 commenti:

  1. In questo intervento lucido e appassionato ritrovo riconfermati i capisaldi del pensiero di F.C.:
    la visione ciclica della natura e della storia naturale e umana- la sottolineatura del valore della sapienza contadina, purtroppo abbandonata per un malinteso semplicistico e rozzo progetto di progresso senza radici e senza rispetto, l’idea fondante della positività della diversità e delle interconnessioni dialettiche : “ il piano con il monte, la terra con il cielo, il giorno con la notte, il maschile con il femminile, …” che sostanziano il nostro vivere, la capacità di ritrovare la nuova cultura della terra, la sua maternità, il valore di un bosco e dei valori essenziali che ci comunicano instancabilmente e generosamente anche quando sembrano diventati a noi ostili, nemici, la loro positiva e costruttiva volontà di vita ed armonia…
    I richiami a Carlo Levi e Silone, come pure a Sciascia ed Alvaro, Pavese e soprattutto a Pasolini fanno pensare, illuminano i nostri dubbi e le nostre superficialità che mancano di pietas.


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    1. E' gioia grande sentirsi compresi. Maria Grazia ha una grande anima, con ali che volano in cieli di profonda umanità ancor prima e ancor più che di vasto umanesimo.
      Franco Campegiani

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  2. A distanza di poco più di una settimana dalla distruzione boschiva che ha duramente colpito la mia terra d’origine (Altipiano di Asiago), leggo con commozione questo scritto di Franco Campegiani che ancora una volta ribadisce la sua personale -e per me del tutto condivisibile- visione del rapporto, ormai incrinato tra l’uomo contemporaneo e la natura.
    Io non so se ci potrà mai essere una catastrofe ultima in grado di condurre l’uomo a ritornare sui suoi passi e a ristabilire un rapporto corretto e salvifico con la Madre, non so se riuscirà a resettare i comportamenti sbagliati e a correggere il tiro ripartendo dalla fine, ma voglio davvero sperare che così possa essere, come asserisce con fiducia, Campegiani. Ora provo soltanto un senso d’impotenza di fronte al silenzio dei trecentomila tronchi al suolo, di fronte ad un paesaggio che ha perso la sua fisionomia e il suo respiro e mi sento orfana degli alberi che mi hanno visto crescere, che hanno ossigenato la mia infanzia e la mia adolescenza.
    Non sono ancora tornata lassù perché in casa manca l’elettricità dato che i cavi dell’alta tensione sono stati gravemente danneggiati dalla caduta degli alberi ma faccio mie le parole di Ermanno Olmi qui magnificamente ricordate da Franco.
    Ci vorrà un secolo, dicono, perché quei boschi ritornino ad essere com’erano. E all’uomo quanto tempo servirà per capire che sta andando a morire sotto la falce dei suoi stessi errori?
    Grazie Franco.

    Annalisa Rodeghiero

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    1. Cara Annalisa, io non sono affatto ottimista come potrebbe sembrare. Penso anzi che il processo autodistruttivo sia irreversibile e che purtroppo il punto di non ritorno, o lo stiamo superando o l'abbiamo già superato. Come sai, io mi occupo di agricoltura biologica e un po' conosco, sulla mia pelle, cosa significa venire colpiti dalle avversità naturali. Come te, ho figli e nipoti e vorrei tanto sbagliarmi sui pronostici apocalittici che sempre più stanno diventando certezze reali. Da dove nasce allora la mia "fiducia"? dalla vita, dai fatti, ti assicuro, e non da una costruzione arbitraria mentale. Positivo e negativo - lo sai meglio di me - sono sempre tra di loro collegati. Non c'è l'uno senza l'altro e l'uno chiama in causa l'altro in continuazione. Poco importa, allora, se gli uomini, da se stessi, non riusciranno a rinsavire (anche se lo spero e lo speriamo). Sarà la natura stessa ad imporglielo, riprendendosi l'equilibrio che le compete. Equilibrio di cui anch'essi certamente gioveranno, a dispetto del prezzo che dovranno pagare. Ci vorranno cento anni? forse cinquecento? che importa? il pianeta comunque si rigenera e del pianeta è parte integrante anche il genere umano.
      Franco Campegiani

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    2. "Da dove nasce allora la mia "fiducia"? dalla vita..."
      Mi commuove ogni parola di questa tua toccante risposta, Franco.

      Grazie di cuore
      Annalisa

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  3. Ah, Franco mio, basterebbero l'espressione 'l'urlo della montagna' e il riferimento ai numerosi versi di Pier Paolo Pasolini, che sabato 3 novembre abbiamo celebrato insieme a Ostia, per rendere più che esaustiva la tua recensione. Ma ogni volta che scrivi esondi, proprio come alcuni fiumi italiani in questi giorni e invadi le nostre coscienze di riflessioni, verità, illuminazioni.
    So che non sei ottimista, anche se comprendo l'ottimo post di Annalisa, che nel tuo concetto dei cicli storici, vede la speranza del ritorno al bene, ma so anche che possiedi, come Pasolini, il fiuto della profezia,( infatti sabato ti sei legato ai suoi versi con i tuoi in modo superbo)e si che 'dopo il naufragio la vita continua'. E' necessario affidarsi alla natura, in quanto le vittime, le città, le campagne, i boschi martoriati sembrano affermare la volontà di un canto commosso, esplosivo, fitto di odio e di infernali invettive, ma al tempo stento ricco i slanci d'amore. I quadri descritti dal te sono 'figurativi' e danno vita a un repertorio di simboli facilmente interpretabili. Leggendoti ho visto le figure patriarcali dei padri contadini, che svolgevano il loro lavoro magico, faticoso e misterioso; la partecipazione ai lavori agricoli delle famiglie; l'inclemente pioggia invernale e la bionda luce estiva, diffusa e fugace.
    Un poema sulla natura, amico Poeta, Filosofo e ottimo critico letterario, che non permetti mai alla letteratura di soffocare la vita e ti esprimi ricorrendo alle cose elementari, connaturate e indispensabili all'uomo, ai sentimenti primordiali e all'armonia dei contrari, determinante per il perpetuarsi dell'esistenza.
    Ti ringrazio per aver, ancora una volta, reso meno povero il mio tragitto terreno, per avermi dato l'opportunità di imparare... Un forte abbraccio a te e a tutti gli Amici del blog, in primis al Condottiero di raso...

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  4. "Bisogna evitare che tra la natura e l'uomo si crei un'estraneità, una distanza incolmabile, una frattura. La relazione con suolo e sottosuolo è fondamentale. L'urlo della montagna, in quest'ottica, è davvero salvifico. In esso c'è il richiamo della vita, non quello della morte, come potrebbe sembrare.".
    Prendo spunto da questo stralcio, caro Franco, per commentare la relazione di cui hai dato lettura e che ora trovo, qui, pubblicata su Léucade.
    La distanza, l'estraneità tra l'uomo e la natura hanno raggiunto livelli, secondo me, mai verificatisi prima (almeno a memoria d'uomo) e si corre il rischio - fondatissimo - che la separazione, lo iato sia davvero insanabile.
    E tanto più irreparabile sarà - a mio modo di vedere - se l'uomo insisterà a voler chiudere gli occhi, a non capire che inondazioni, terremoti e altre calamità altro non sono che l'urlo disperato di una Madre che, con tutte le sue forze e, soprattutto, con l'esempio cerca di darci una lezione.
    Che si prenda allora questo "schiaffo" e se ne faccia buon uso.
    Al contrario di noi, Padre e Madre Natura sa bene come svolgere il suo ruolo di procreatrice e genitrice. Sa che sono necessari sia la carota che il bastone. E non smette mai di farlo; anche adesso, mentre ci prende a schiaffi ci accarezza, mentre sradica le piante fa cadere le ghiande, mentre con i fiumi esonda con altri s'incaverna per arrivare - chissà - a portare acqua dove non c'è.
    Questo significa essere ottimisti. Un ottimismo forse strano a comprendersi ma l'unico veramente equilibrato.
    Tutto il resto - tutto dico - da chi parla di "bombe d'acqua", di "venti killer" e quant'altro a chi porta a spasso il cane e fa l'ambientalista, non porta a niente se non a nascondersi e restare "ignoranti".
    Dici bene: la natura si riprenderà il maltolto e ristabilirà l'equilibrio; spero soltanto che, per farlo, non sia costretta a doversi estirpare il cancro che la sta divorando ma regredisca, quella malattia, con l'aiuto dell'uomo.

    Sandro Angelucci

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    1. "Inondazioni, terremoti e altre calamità altro non sono che l'urlo disperato di una Madre che, con tutte le sue forze e soprattutto con l'esempio cerca di darci una lezione. Che si prenda allora questo "schiaffo" e se ne faccia buon uso", perché lei, la Madre "mentre ci prende a schiaffi ci accarezza" e sa che per il figlio indisciplinato o, peggio, degenere, "sono necessari sia la carota che il bastone". Carissimo Sandro, tu espliciti con maggiore incisività quanto io stesso ho voluto dire e te ne sono grato. Ottimismo? pessimismo? Quante volte ne abbiamo parlato! Forse entrambe le cose fuse in un solo respiro. Apocalisse e palingenesi sono strettamente collegate. Se nelle peggiori sciagure riuscissimo a vedere dei riequilibri, forse potremmo anche riuscire a considerarle delle benedizioni.
      Franco Campegiani

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  5. Hai dimenticato la firma, ma ho capito perfettamente chi sei... cara Maria... mi lasci senza parole e senza fiato. Sto in apnea e posso solo dirti che le tue parole sono per me non meno illuminanti e preziose. Grazie, vorrei davvero riuscire a "non permettere mai alla letteratura di soffocare la vita". Mi associo al tuo abbraccio per il nostro impareggiabile "Condottiero di raso".
    Franco Campegiani

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  6. C’è qualcosa, nelle riflessioni di Franco Campegiani, che ci impedisce di annoverarlo tout court nella pur nobilissima schiera dei romantici passatisti, vagheggiatori di un’età dell’oro dell’umanità coincidente con lo stato di natura, con l’identificazione assoluta dell’uomo con la terra e i suoi ritmi e umori vitali. Qualcosa che rimanda alla consapevolezza, implicita nel suo scritto, di un’innegabile ratio dei processi storici che hanno progressivamente allontanato l’uomo dalla terra-madre, relegandolo nei paradisi infernali delle metropoli, fatti di cemento, di asfalto, di perturbanti miasmi. Questo qualcosa è la fatica, insita come una maledizione nella dura lotta per la sopravvivenza cui il genere umano sembra condannato ab origine, e alla quale esso, da sempre, ha cercato legittimamente di sottrarsi con ogni mezzo. “Io amo la cultura metropolitana”, dice infatti Franco, consapevole che i nostri padri cafoni “sono scesi da qui, o da terre simili, in cerca di benessere”. Il conflitto con la terra che segna l’oggi della nostra storia plurimillenaria ha origine proprio in questa legittima, perenne aspirazione dell’uomo ad affrancarsi dalla fatica della terra, a risparmiarsi, a cercare ristoro altrove. Ma è, a ben guardare, una storia di separazione apparente, temporanea, dice ancora implicitamente Franco – altra nota che lo distingue dai “padri passatisti”. Intanto perché, alla fin fine “noi siamo terrestri e non possiamo rinnegare il cordone ombelicale che ci lega alla Madre da cui veniamo”. E poi perché la storia non procede in modo lineare, vale a dire irreversibile, bensì ciclicamente, tornando periodicamente su se stessa. E dunque non è azzardato supporre che il ravvedimento dell’uomo colpevolmente “snaturato” sia alle viste.
    Credo che si possa essere d’accordo col malcelato ottimismo Franco, coi suoi tutto sommato benevoli rabbuffi agli scapestrati figli della modernità, anche senza essere necessariamente confidenti nel suo laico provvidenzialismo ciclico della visione storica. Le ragioni, infatti, che hanno allontanato l’uomo dalla natura e l’hanno indotto talvolta – come accade in ogni esperienza di separazione – ad insultarla, sono le stesse che gli consentiranno, come sta già accadendo, di riallacciare con essa buoni e proficui rapporti. Ci si è allontanati dai mestieri massacranti della terra investendo nella scienza e nella tecnica per risparmiare fatica e migliorare la produttività del lavoro. Ma sembra siano proprio la scienza e la tecnica, moderni pronubi, a voler riportare l’uomo alla terra con intenti riparatori: i boschi distrutti dalle recenti tempeste di vento nel nostro Paese stanno per essere ripristinati a cura delle Università del Nord…forse, allora, potremmo essere all’alba di quella “nuova cultura” auspicata dal Franco ottimista, che sa vedere nelle crisi il germe di “interessanti novità” capaci di rimediare, per ciclico sortilegio del divenire, a quel “materialismo brutale e balordo che sappiamo” e che davvero non ci piace.
    Grazie a Franco Campegiani, dunque, del suo lodevole Manifesto e della possibilità di riflettere sull’urlo della montagna. Salvifico, sì.

    Sonia Giovannetti

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  7. Grazie Sonia per la grande attenzione che dedichi al mio scritto. Hai ragione nel dire che il mio pensiero non può annoverarsi tra le fila di un romantico passatismo. La civiltà contadina di cui io parlo non è una cultura storicamente datata, ma un archetipo - quello della collaborazione dell'uomo con il pianeta da cui è ospitato - e non può un archetipo sparire dal mondo. Non si tratta pertanto di tornare al passato, alle origini, ma di scoprire che le origini son qui, che non ci hanno mai abbandonato e che noi viviamo sempre e comunque nella potenza dell'iniziale big bang. Si tratta invece di inventare una nuova cultura della terra, usufruendo ovviamente dei nuovi orizzonti delle scienze e delle tecniche, purché animati da quello scatto morale che sappia destarci nelle leggi di equilibrio imposte al creato dall'iniziale big bang. Noi siamo sempre e comunque nelle mani dell'equilibrio: questo io credo e sta qui indubbiamente la "fiducia" di cui prima qualcuno parlava. Delle due l'una: o noi riusciamo a rinsavire nell'equilibrio, oppure l'equilibrio si affermerà da se stesso con ferite proporzionali ai danni procurati dalla nostra insipienza. Grazie infinite per il tuo contributo.
    Franco Campegiani

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