Nota di
lettura di Valeria Serofilli al volume Alice e altre storie (Augh edizioni,
2018) di Gabriella La Rovere
“Il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si
prende mai la cura di osservare”. Il libro di Gabriella La Rovere si apre con
questa citazione tratta da Arthur Conan Doyle. Ed è anche per noi lettori un
indizio, una traccia. Ci dice innanzitutto che l’autrice nutre la sua narrativa
di una curiosità attenta ai dettagli e alle sfumature. Ci dice che questo libro
si basa sull’osservazione di gesti e oggetti che in realtà parlano di persone,
di donne e di uomini. E, ultimo ma non ultimo, ci invita a diffidare del
banale, ad andare oltre le cose ovvie.
Il
volume ha come titolo un nome di persona che però è legato ad una storia,
anzi a più storie, ad un insieme di storie. Alice è una delle storie qui
narrate, ma è anche e soprattutto una persona, una delle tante di cui questo
libro parla e ci parla. Osservando le cose non ovvie, i dettagli, i
particolari, si incontrano persone come Alice e si guarda il mondo con i suoi
occhi. L’intento alla fine è capire il mondo di Alice e soprattutto
confrontarlo con il nostro.
Il libro
inizia in modo diretto, senza preamboli, senza prepararci a quello che sarà il
ritmo e l’approccio. Il primo racconto che si incontra è “A memoria d’uomo”. I
titoli di questo libro sono sempre brevi, secchi. Non forniscono informazioni
aggiuntive. L’autrice vuole che il lettore parta da zero, come lei, e scopra
tutto passo dopo passo. Si parte con una descrizione diretta di azioni precise,
gesti concreti, quotidiani e la parte psicologica emerge dai gesti stessi.
L’autrice interviene il meno possibile nei suoi racconti. Preferisce che siano
le azioni e i dialoghi a parlare. Anche se il tono e il sapore di ciascuna
storia spesso vengono sintetizzati in una frase, un tocco, un’osservazione
finale, non di rado agrodolce.
Nel racconto
“I fiori che non colsi” alcuni echi classici sono volutamente compensati da
dialoghi credibili, verosimili, del tutto realistici. L’autrice vuole offrirci
un ritratto attendibile della vita, anche nei suoi aspetti più strampalati, là
dove la perfezione romantica è solo un’astrazione.
Pef quanto
riguarda invece il racconto “Il custode del tempo”, ricorda alcuni spunti
pirandelliani in quanto il protagonista, Loris, “carica otto orologi da polso
che conserva gelosamente all’interno di una scatola di latta”. Questa
stranezza, questa peculiarità del personaggio è un’occasione per riflettere su
cose di assoluto rilievo, forse sull’originalità di ciascuno di noi. Sul fatto
che ognuno ha sue manie e passioni specifiche. Ma anche sul tempo, sugli
ingranaggi che lo regolano e ci regolano. Il racconto è anche una specie di
specchio della narrativa, del raccontare storie: nel meccanismo in apparenza invariabile
subentra ad un certo momento un granello, qualcosa che cambia il tempo e muta
il ritmo dell’ingranaggio.
All’inizio
del racconto che dà il nome alla raccolta, “Alice”, c’è forse quella che può
essere considerata la frase chiave: “ogni vita è una storia”. L’impressione è
che l’autrice tragga spunti anche dalla sua esperienza biografica per rendere i
suoi racconti più dettagliati e ricchi di particolari. Spesso utilizza la prima
persona per dare maggiore senso di autenticità e per creare immedesimazione tra
sé e i personaggi e per trasmettere un senso di immediatezza. Per quanto
riguarda il linguaggio la scelta dei vocaboli è attenta e la cadenza è
accurata. Però quando è necessario o è utile alla narrazione l’autrice usa
anche parole dirette, senza particolari censure, sempre per contribuire a quel
senso di realismo (vedi ad esempio pagina 25, ma l’intero libro contieni
diversi di questi passaggi).
Molto
significativo è il punto chiave del racconto “Alice”, là dove la protagonista
rivela: “mi hanno ricoverata perché trascrivevo Alice nel Paese delle
Meraviglie su un quaderno. Si tratta di uno dei tanti punti in questo libro in
cui si mostra che il confine tra la cosiddetta normalità e la condizione di
diversità è sfumato, indefinito. E non di rado le cose andrebbero viste da una
prospettiva diversa, ribaltata. Inoltre, forse, si tratta anche di una specie
di metafora dell’attività della scrittura, questo riportare una realtà che è
basata sulla fantasia, e viceversa.
Il libro è
anche una riflessione sul rapporto tra vita e letteratura (scrittura) e sul
legame tra fantasia, poesia in senso ampio e realtà. Qualcosa che vada oltre il
banale. A pagina 33 c’è una riflessione di rilievo. Là dove la protagonista
rivela: “Si sono scordati di me, di come mi chiamo, di cosa penso, di quello
che provo”. Anche in questo caso ci sono echi pirandelliani, in particolare
viene in mente Il Fu Mattia Pascal. Ma soprattutto anche qui il nodo verte sul
fatto che l’identità è legata al rapporto con gli altri, al modo in cui veniamo
visti e considerati. Questo è anche un libro sulla diversità e sul diritto ad
essa. Il tutto è espresso senza che mai l’espressione sia patetica, grazie a
diversi gradi di ironia. Spesso il finale dei racconti contiene una frase secca
che racchiude il senso di tutta la storia narrata o ribalta tutto. Ad esempio a
pagina 67 il racconto “Dignità” si chiude con “Noi siamo comunque felici”. E
l’impressione è che la frase sia allo stesso tempo vera ma che sia anche il
contrario.
I racconti di
"Alice ed altre storie" sono lineari ma anche complessi: come la vita
racchiudono un significato ma anche il contrario di quello che appare.
Gabriella La Rovere in questo libro si fa riflettere sul rapporto ambivalente
tra il vero e la fantasia, tra la normalità e la pazzia, tra il bene e il
male.
Un libro,
questo di Gabriella La Rovere, che richiede al lettore attenzione e
partecipazione per entrare in un mondo di fantasia che è specchio di quello
reale e di tutte le sue ambivalenze e contraddizioni.
Valeria Serofilli
Caffè dell’Ussero di Pisa, 30 Novembre 2018
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