Preazione
a
Emma Mazzuca: IL
RESTO NELLE ALI DEL TEMPO
Un’opera
ampia, fluente, complessa, e vitale questa della Mazzuca, che, divisa in
quattro sezioni (Il discordante altrove,
Zona d’ombre, La via dell’anima, Passate albe sonore), si protrae su uno
spartito di plurale connotazione umana. Ogni sezione trae il titolo da una
poesia eponima che fa da suggello e da cuore connotativo. Tanti i motivi
ispirativi che la rendono vicina, per splennetico sentire, ai temi di
contemporanea vicissitudine letteraria: l’amore, l’inquietudine del fatto di
esser-ci, il memoriale, la poesia de l’homme, le gioie, dolori, i sogni, gli
smarrimenti, il moltiplicarsi di nascita e fine; ma tutti motivi tenuti
insieme, con assoluta organicità, dall’dea di un tempo che implacabilmente
fugge fagocitando ogni bene terreno e a cui la Poetessa affida tutta se stessa con
la voglia di vivere e rivivere. IL RESTO
NELLE ALI DEL TEMPO, il titolo della silloge tratto da quello di una poesia
della prima sezione:
Il resto nelle mani del Tempo
confine di logore cose
solitaria è la parola di te
non scontro di avventura
ventaglio di circostanze
foglie di pioggia e di vento
e astrarsi nel divario degli
attimi
e desiderare il volto
un fuggire di specchi inattesi
il premere di queste dita
incerta argilla del sussistere
ma tu mi ricusi amore
che lanci l’esca
senza conoscere l’immagine (Il
resto nelle ali del Tempo).
Già
le ali ci dicono dello scorrere veloce di quel tratto di vita che ci è toccato in
sorte; e non è improprio dare la parola a Höldernin
che nove anni prima di essere ricoverato in una clinica per alienati mentali,
chiede nella lirica Iperione o
l’Eremita della Grecia, al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”,
affinché la sua “anima, raminga e senza radici/ non smanî di oltrepassare la
vita” e divenga “luogo di felicità (…) giardino curato con premuroso amore,/
ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura,/ in sicura semplicità io abbia
dimora,/ mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il
tempo mutevole rumoreggia lontano”; e nell’elegia Pane e vino invita tutti i poeti a unirsi in
un’universale fratellanza: “… e molto (buono) ascoltare dei giorni d’amore,/
dei fatti che accaddero un tempo/… Sono i poeti, a fondare quel che rimane (Was
bleibt aber stinte die Dichter)”. Trovare la serenità là da dove siamo partiti
è forse il sistema migliore per placare il disagio che incontriamo misurandoci
con il tempo e la morte, se non si vuole impazzire.
Rifugio,
alcova, amore oblativo, nirvana edenico, dove ritrovarsi per ovviare alle
sottrazioni dell’esistere. Ed è forse la memoria, col suo potere rievocativo,
l’unico mezzo che possa contrastare la velocità della clessidra; forse
affidando ad essa la nostra storia la possiamo rivivere ogni momento, con
l’intenzione di darle l’immortalità, dacché ricorrere alla Poesia, all’Arte,
che vola oltre la nostra vicenda, significa appagare quell’istinto foscoliano
che ogni essere terreno nutre nelle sue segrete stanze; significa riabbracciare
la terra che ci volle nativi, i luoghi del cuore “Eleggevo poche cose e questo
vivere/ dalla sete del ponte era così incline/ ma non volevo distaccarmi/ dai
luoghi del cuore...”, o i familiari che vorremmo in vita, il padre per dirgli
parole rimaste in gola, nella sacca dell’anima “per nascerti ancora una volta
dentro”. È da tutto questo che la Poetessa trae il valore dell’esistere;
dall’amore che prova nel suo profondo per una storia tanto unica da non far morire:
“Nel mio profondo il tuo sguardo/ varca tutti i cieli, il cuore notturno./
Lance di gioia annientano tempo e assenza./ Vivere, solo vivere,/ dentro i tuoi
occhi puri” (Nel mio profondo), affidandosi, anche, al mistero dei corsi del
Creato: “... Così un tempo finisce./ Uno rinasce dal suo mistero” (Dalle crepe
del dolore), o traendo dalle vicende vissute, non sempre propizie, la forza di
creare immagine di ogni realtà incontrata nei colpi del tempo: “Il restituirmi
alle terre di argilla/ senza la pietra e il nome/ e scoprire mia madre/ dentro
lo sguardo/ mio padre e il sangue/ i posti e la giovinezza/ svincolarmi dai
colpi del tempo/ a ché rimuova gli altri quadranti/ la tenace parola di te” (I
colpi del tempo). Posti, giovinezza, mia madre, mio padre, in uno scorrere
impetuoso di lampi affidato a versi di purezza lirica e di enigmatica
intrusione: momenti di alta liricità dettati dalla vertigine emotiva di
annullare la soglia che ci lega al prima e al poi; dalla tensione umana votata
al sempre in un terreno dove si respira aria di precarietà. Le liriche si
incalzano le une le altre con vigore speculativo; con forza ontologica; con
innovazione verbale di urgente plasticità per dare concretezza e visività ai
moti dell’anima: da E in un dove la fonte,
a Diverse volte; da Predizioni (Predizioni custodite negli
occhi/ ciascuno ha il suo giro...), a Naviganti
(La notte sfinisce gli approdi...); da Un
difendersi vano, a Saggezza
dell’acqua (Saggezza dell’acqua/ impensata come la terra...)...; da E ciò che mi resta (E ciò che mi resta è
un po’ di lento/ turbinio delle membra in questo/ impietoso viavai dove hanno/
anche eretto un podio di tormento...), fino alla lirica finale foriera di passate
albe sonore in racconti di melanconico ripasso:
La sera in cui vestimmo il
nostro spirito
sublime il mondo vibrava nei
nostri cuori.
Penavamo ai nostri volti
madidi e al nostro
parlare inquieto.
Oramai distante dalle
circostanze
- a toni bassi
racconto le passate albe sonore.
Poesia di
interiore valenza, quindi, dove i palpiti più schietti della vita trovano posto
in una versificazione oscillatoria, segmentata, ondivaga come lo sono gli stati
d’animo nel percorso esistenziale: ora più intensi ora meno ma pur sempre di
alta stesura lirico-emotiva. Ed è proprio nel variare dei versi,
nell’alternarsi di note di effetto contrattivo ed estensivo che l’anima
trova lo specchio del suo esistere. Grande spiritualità. Grande forza
ascensionale, di urgente verticalità, motivata da un cogito vòlto a trasferire
i fatti della quotidianità in aree di eterna giovinezza, di perpetuo respiro,
di slanci a tradire le fagocitazioni dell’oblio "Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine
habitat veritas" (Non andare fuori, rientra in te stesso: è
nel profondo dell'uomo che risiede la verità). E la Poetessa sembra seguire
questo enunciato di Sant’ Agostino. La sua mente, il suo abbrivo
emozionale, il suo intento è quello di scavare dentro, di tirar fuori i
reconditi impulsi vitali, le meditazioni sulle inquietudini, le passioni
scaturite dai contatti con il mondo e con le persone che l’affiancano o l’hanno
affiancata. E non di rado la realtà con la sua misteriosa entità fa da
oggettivazione alle profonde meditazioni della Mazzuca; agli stati d’animo che
sperdono la loro epigrammatica sostanza in voli oltre la terrenità, pur
con l’animo zeppo dei risvolti fenomenici della stessa: “… Crolla la luce, perde le sue
foglie il giorno/ più in alto, d’un tratto, / giunge l’improvvisa notte/
occhiate prudenti, /l’ammiccare delle stelle./ Indizi, al di sopra dell’acme.”.
Una simbiotica fusione fra schizzi di cromatico effetto visivo e “Indizi, al di
sopra dell’acme”. Si può dire che la Nostra tocca tutti quelli che sono gli
angoli più nascosti del nostro esistere; ogni pensiero sulla brevità
della vicenda umana; del suo precario sfumarsi. E lo fa con un simbolismo
di resa poetica, di coinvolgimento panico, umano: “… e non c’è albero che
regga/ tutela dell’attesa/ e la foglia cade/ e non sa dove.”. Un senso di
smarrimento, di sperdimento, che tanto sa di risvolti vicissitudinali di un
essere che cerca di ritrovare se stesso mischiandosi ad un verde che richiama
tempi di vita; di concreti abbracci sapidi d’amore; di un colore che riporta a
sprazzi di giovanili incontri. Per non dire degli immensi impuri oceani dove è
facile smarrire la nostra identità, dacché non vi è soluzione a
interrogativi che nascono da turbanti giochi coll’infinito; da onde che si
accavallano le une sulle altre in un perpetuo moto che tanto sa d’eterno: “… Ma
poi sotto le luci ferme delle stelle/le acque confuse di quegli impuri
mari/vanno rigurgitando verso abissi immani.”. Afferma Baudelaire: "Uomo libero / amerai sempre il mare / il mare è
il tuo specchio/ nello svolgersi continuo delle sue onde / contempli la libertà
dell'infinito". E Pascal dans les pensées: “Cos'è un uomo nella
Natura?/ Un nulla davanti all'infinito,/ un tutto davanti al nulla,/ qualcosa
di mezzo tra il nulla e il tutto.”. D’altronde è umano, fortemente umano
azzardare sguardi oltre gli orizzonti; ma è anche possibile rischiare il dolce
naufragio leopardiano, il tramutarsi dell’assillante clessidra in un vuoto dove
la memoria perde i suoi stessi connotati: “... e un dischiudersi di remoti
scuri/ spiare i mezzi camuffati/ e tu senza esempi/ la notte raschiata/ e la
memoria.”.
Ma si sa che
l’onirico torna sempre a galla con la sua potenza emotiva; e le immagini,
pur sfumate dal correre degli anni, s’ingigantiscono nella sacca dei ricordi;
s’infoltiscono per dare consistenza ad un patrimonio che ci portiamo dietro
come prolungamento dell’esistere: “… dove tu padre/ eri chino su un fianco/ il
mio sguardo/ fu subito colmo di luna/ venni/ per nascerti ancora una volta/
dentro.”. Una plaquette, dunque, energica e docile, docile e diretta, diretta e
avvolgente, dove le umane e sentite meditazioni sull’esser-ci, pur se a
volte segnate da un certo sottofondo di melanconica intrusione, rivelano
il grande attaccamento alla irripetibile vicenda della vita; ad una
storia dove gli affetti volgono la rotta ad “Indizi, al di sopra dell’acme.”.
Nazario Pardini
Grazie per l'attenta lettura dei miei versi.
RispondiEliminaEmma Mazzuca