sabato 1 dicembre 2018

NAZARIO: PREFAZIONE A "IL RESTO NELLE ALI DEL TEMPO" DI EMMA MAZZUCA


Preazione
a
Emma Mazzuca: IL RESTO NELLE ALI DEL TEMPO



Un’opera ampia, fluente, complessa, e vitale questa della Mazzuca, che, divisa in quattro sezioni (Il discordante altrove, Zona d’ombre, La via dell’anima, Passate albe sonore), si protrae su uno spartito di plurale connotazione umana. Ogni sezione trae il titolo da una poesia eponima che fa da suggello e da cuore connotativo. Tanti i motivi ispirativi che la rendono vicina, per splennetico sentire, ai temi di contemporanea vicissitudine letteraria: l’amore, l’inquietudine del fatto di esser-ci, il memoriale, la poesia de l’homme, le gioie, dolori, i sogni, gli smarrimenti, il moltiplicarsi di nascita e fine; ma tutti motivi tenuti insieme, con assoluta organicità, dall’dea di un tempo che implacabilmente fugge fagocitando ogni bene terreno e a cui la Poetessa affida tutta se stessa con la voglia di vivere e rivivere. IL RESTO NELLE ALI DEL TEMPO, il titolo della silloge tratto da quello di una poesia della prima sezione:

Il resto nelle mani del Tempo
confine di logore cose
solitaria è la parola di te
non scontro di avventura
ventaglio di circostanze
foglie di pioggia e di vento
e astrarsi nel divario degli attimi
e desiderare il volto
un fuggire di specchi inattesi
il premere di queste dita
incerta argilla del sussistere
ma tu mi ricusi amore
che lanci l’esca
senza conoscere l’immagine (Il resto nelle ali del Tempo).

Già le ali ci dicono dello scorrere veloce di quel tratto di vita che ci è toccato in sorte; e non è improprio dare la parola a  Höldernin che nove anni prima di essere ricoverato in una clinica per alienati mentali, chiede nella lirica Iperione o l’Eremita della Grecia, al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”, affinché la sua “anima, raminga e senza radici/ non smanî di oltrepassare la vita” e divenga “luogo di felicità (…) giardino curato con premuroso amore,/ ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura,/ in sicura semplicità io abbia dimora,/ mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano”; e nell’elegia Pane e vino invita tutti i poeti a unirsi in un’universale fratellanza: “… e molto (buono) ascoltare dei giorni d’amore,/ dei fatti che accaddero un tempo/… Sono i poeti, a fondare quel che rimane (Was bleibt aber stinte die Dichter)”. Trovare la serenità là da dove siamo partiti è forse il sistema migliore per placare il disagio che incontriamo misurandoci con il tempo e la morte, se non si vuole impazzire.
Rifugio, alcova, amore oblativo, nirvana edenico, dove ritrovarsi per ovviare alle sottrazioni dell’esistere. Ed è forse la memoria, col suo potere rievocativo, l’unico mezzo che possa contrastare la velocità della clessidra; forse affidando ad essa la nostra storia la possiamo rivivere ogni momento, con l’intenzione di darle l’immortalità, dacché ricorrere alla Poesia, all’Arte, che vola oltre la nostra vicenda, significa appagare quell’istinto foscoliano che ogni essere terreno nutre nelle sue segrete stanze; significa riabbracciare la terra che ci volle nativi, i luoghi del cuore “Eleggevo poche cose e questo vivere/ dalla sete del ponte era così incline/ ma non volevo distaccarmi/ dai luoghi del cuore...”, o i familiari che vorremmo in vita, il padre per dirgli parole rimaste in gola, nella sacca dell’anima “per nascerti ancora una volta dentro”. È da tutto questo che la Poetessa trae il valore dell’esistere; dall’amore che prova nel suo profondo per una storia tanto unica da non far morire: “Nel mio profondo il tuo sguardo/ varca tutti i cieli, il cuore notturno./ Lance di gioia annientano tempo e assenza./ Vivere, solo vivere,/ dentro i tuoi occhi puri” (Nel mio profondo), affidandosi, anche, al mistero dei corsi del Creato: “... Così un tempo finisce./ Uno rinasce dal suo mistero” (Dalle crepe del dolore), o traendo dalle vicende vissute, non sempre propizie, la forza di creare immagine di ogni realtà incontrata nei colpi del tempo: “Il restituirmi alle terre di argilla/ senza la pietra e il nome/ e scoprire mia madre/ dentro lo sguardo/ mio padre e il sangue/ i posti e la giovinezza/ svincolarmi dai colpi del tempo/ a ché rimuova gli altri quadranti/ la tenace parola di te” (I colpi del tempo). Posti, giovinezza, mia madre, mio padre, in uno scorrere impetuoso di lampi affidato a versi di purezza lirica e di enigmatica intrusione: momenti di alta liricità dettati dalla vertigine emotiva di annullare la soglia che ci lega al prima e al poi; dalla tensione umana votata al sempre in un terreno dove si respira aria di precarietà. Le liriche si incalzano le une le altre con vigore speculativo; con forza ontologica; con innovazione verbale di urgente plasticità per dare concretezza e visività ai moti dell’anima: da E in un dove la fonte, a Diverse volte; da Predizioni (Predizioni custodite negli occhi/ ciascuno ha il suo giro...), a Naviganti (La notte sfinisce gli approdi...); da Un difendersi vano, a Saggezza dell’acqua (Saggezza dell’acqua/ impensata come la terra...)...; da E ciò che mi resta (E ciò che mi resta è un po’ di lento/ turbinio delle membra in questo/ impietoso viavai dove hanno/ anche eretto un podio di tormento...), fino alla lirica finale foriera di passate albe sonore in racconti di melanconico ripasso:

La sera in cui vestimmo il nostro spirito
sublime il mondo vibrava nei nostri cuori.

Penavamo ai nostri volti madidi e al nostro
parlare inquieto.

Oramai distante dalle circostanze
- a toni bassi
racconto le passate  albe sonore.                

Poesia di interiore valenza, quindi, dove i palpiti più schietti della vita trovano posto in una versificazione oscillatoria, segmentata, ondivaga come lo sono gli stati d’animo nel percorso esistenziale: ora più intensi ora meno ma pur sempre di alta stesura lirico-emotiva. Ed è proprio nel variare dei versi, nell’alternarsi di note  di effetto contrattivo ed estensivo che l’anima trova lo specchio del suo esistere. Grande spiritualità. Grande forza ascensionale, di urgente verticalità, motivata da un cogito vòlto a trasferire i fatti della quotidianità in aree di eterna giovinezza, di perpetuo respiro, di slanci a tradire le fagocitazioni dell’oblio "Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas" (Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell'uomo che risiede la verità). E la Poetessa sembra seguire questo enunciato di Sant’ Agostino.  La sua mente, il suo abbrivo emozionale, il suo intento è quello di scavare dentro, di tirar fuori i reconditi impulsi vitali, le meditazioni sulle inquietudini, le passioni scaturite dai contatti con il mondo e con le persone che l’affiancano o l’hanno affiancata. E non di rado la realtà con la sua misteriosa entità fa da oggettivazione alle profonde meditazioni della Mazzuca; agli stati d’animo che sperdono la loro  epigrammatica sostanza in voli oltre la terrenità, pur con l’animo zeppo dei risvolti fenomenici della stessa: “… Crolla la luce, perde le sue foglie il giorno/ più in alto, d’un tratto, / giunge l’improvvisa notte/ occhiate prudenti, /l’ammiccare delle stelle./ Indizi, al di sopra dell’acme.”. Una simbiotica fusione fra schizzi di cromatico effetto visivo e “Indizi, al di sopra dell’acme”. Si può dire che la Nostra tocca tutti quelli che sono gli angoli più nascosti del nostro esistere; ogni pensiero sulla brevità della  vicenda umana; del suo precario sfumarsi. E lo fa con un simbolismo di resa poetica, di coinvolgimento panico, umano: “… e non c’è albero che regga/ tutela dell’attesa/ e la foglia cade/ e non sa dove.”. Un senso di smarrimento, di sperdimento, che tanto sa di risvolti vicissitudinali di un essere che cerca di ritrovare se stesso mischiandosi ad un verde che richiama tempi di vita; di concreti abbracci sapidi d’amore; di un colore che riporta a sprazzi di giovanili incontri. Per non dire degli immensi impuri oceani dove è facile smarrire la  nostra identità, dacché non  vi è soluzione a interrogativi che nascono da turbanti giochi coll’infinito; da onde che si accavallano le une sulle altre in un perpetuo moto che tanto sa d’eterno: “… Ma poi sotto le luci ferme delle stelle/le acque confuse di quegli impuri mari/vanno rigurgitando verso abissi immani.”. Afferma Baudelaire: "Uomo libero / amerai sempre il mare / il mare è il tuo specchio/ nello svolgersi continuo delle sue onde / contempli la libertà dell'infinito". E Pascal dans les pensées: “Cos'è un uomo nella Natura?/ Un nulla davanti all'infinito,/ un tutto davanti al nulla,/ qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto.”. D’altronde è umano, fortemente umano azzardare sguardi oltre gli orizzonti; ma è anche possibile rischiare il dolce naufragio leopardiano, il tramutarsi dell’assillante clessidra in un vuoto dove la memoria perde i suoi stessi connotati: “... e un dischiudersi di remoti scuri/ spiare i mezzi camuffati/ e tu senza esempi/ la notte raschiata/ e la memoria.”.
Ma si sa che l’onirico torna sempre a galla con  la sua potenza emotiva; e le immagini, pur sfumate dal correre degli anni, s’ingigantiscono nella sacca dei ricordi; s’infoltiscono per dare consistenza ad un patrimonio che ci portiamo dietro come prolungamento dell’esistere: “… dove tu padre/ eri chino su un fianco/ il mio sguardo/ fu subito colmo di luna/ venni/ per nascerti ancora una volta/ dentro.”. Una plaquette, dunque, energica e docile, docile e diretta, diretta e avvolgente, dove le umane e sentite meditazioni sull’esser-ci, pur se a  volte segnate da un certo sottofondo di melanconica intrusione, rivelano  il grande attaccamento alla irripetibile vicenda della vita; ad una storia dove gli affetti volgono la rotta ad “Indizi, al di sopra dell’acme.”.

Nazario Pardini 






1 commento:

  1. Grazie per l'attenta lettura dei miei versi.
    Emma Mazzuca

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