Ringraziando Valeria Serofilli per le interessanti
domande che mi ha rivolto durante la presentazione di “Le stanze inquiete” (La
Vita Felice, 2016) a Pisa, presso il Caffè dell’ Ussero, lo scorso 14 dicembre,
offro ai lettori di “Alla volta di Leucade” l’intera intervista. Un sentito
grazie anche a Nazario Pardini per l’ospitalità.
Intervista
a LUCIANNA ARGENTINO con riferimento al volume "Le stanze inquiete"
Riprendendo il titolo del tuo volume, "stanze" è una parola che può avere diversi significati che spaziano dall'ambiente prettamente letterario ad un luogo fisico, in quanto parte di un edificio. In metrica infatti si definisce "stanza" sia la strofa di una canzone (cioè una struttura di più versi cui è associato un determinato schema di rime), sia un testo poetico di una sola strofa. Posteriormente a Dante è anche il gruppo di otto versi che costituisce l'unità ritmica dell'ottava rima.
Questa polisemia è voluta o è occasionale?
E in termini più ampi, nel tuo libro che
rapporto c'è tra la letterarietà e la realtà esterna?
In
realtà “stanze”, come spiego nella nota introduttiva, si riferisce per lo più
al fatto che ho immaginato che le persone che in quegli anni si sono
avvicendate alla mia cassa, confidandosi con me, mi abbiano socchiuso la porta
della loro vita, della loro anima consentendomi di sbirciare all’interno,
condividendo ciò che in quel momento in loro premeva, ciò che sentivano di
dover condividere per alleggerirne il peso.
In
questo libro di letterarietà c’è il fatto che ho usato il linguaggio poetico
che è quello che sento a me più consono per raccontare delle storie vere. C’è
quindi, si può dire, più realtà che letterarietà.
Il
linguaggio è il ponte tra la vita, tra la realtà e il racconto, la
trasposizione sulla carta di piccole storie, di vite o di momenti di vita di
cui nessuno altrimenti avrebbe mai saputo nulla, ma che per me sono state un
ricco spunto per una riflessione sulla nostra umanità.
In un tuo testo contenuto nella raccolta parli di «vita in paragrafi». Cosa intendi con questa definizione?
In un tuo testo contenuto nella raccolta parli di «vita in paragrafi». Cosa intendi con questa definizione?
Con
vita in paragrafi intendo ciò che dice l’etimologia della parola greca
paràgraphos, ossia “scritto a lato, al margine”. Vite al margine della Vita,
storie minime, dentro la Storia. Storie che non fanno rumore, che passano
silenziose, ma che sono ricche di significato.
Nella nota introduttiva da te stessa scritta, nello specifico alle pp. 6-7 sostieni, anche citando Heidegger, che poetare in quanto far abitare è un costruire uno spazio, un luogo. Tale tematica è cara anche alla sottoscritta si veda al riguardo il mio testo "La chiocciola"(in Amalgama, I quaderni di Poiein curato da Gian Mario Lucini) di cui alcuni versi recitano " Ti abiti ad oltranza / inquilino moroso di se stesso. T'indossi/telamone dal gravoso fardello/ ma abito o anima il tuo guscio?(...) E Tu poeta non farti lumaca/ se a sfiorarti è mano di poesia!". O anche in "Tuo doppio" : maschera/casa disabitata agghindata a festa se/ dietro non v'e anima che t'indossi"(dalla mia Opera prima "Acini d'anima" del 2000).
Come possiamo costruire luoghi interni dell'anima che siano coerenti col nostro modo di essere ma nello stesso tempo possano accogliere gli altri, come risulta da molti tuoi componimenti ed anche da quello riportato in quarta di copertina?
Per
me la poesia è un modo di stare al mondo, di abitare il mondo. Heidegger
leggendo Holderlin diceva che il poetare è l’originario far abitare. Abitare
poeticamente vuol dire stare alla presenza degli dèi ed essere toccati dalla
vicinanza essenziale delle cose. Se fossimo davvero coerenti con la nostra
umanità, con la nostra essenza di creature, che non è apparire, ostentare, ma
essere, essere nella direzione del bene, dell’amore, ci accorgeremmo che i
luoghi dove accogliere l’altro sono già in noi. Ama il prossimo tuo come te
stesso è un comandamento difficile, ma in questo sta il senso della nostra
esistenza. Accogliere l’altro anche e soprattutto quando questo altro è
diverso, è sporco, puzza (come nel caso della barbona della poesia di quarta di
copertina) o ha un diverso colore di pelle,
una vita e una cultura diversa dalla nostra. E forse ci sarà più facile
quando capiremo che ognuno di noi è l’altro.
Una delle particolarità di questo libro,
interessante e sui generis, è l'inserimento di alcune fotografie in cui vengono
riportati degli scritti autografi di persone con cui hai interagito durante i
tuoi anni di lavoro. Rappresentano solamente una documentazione visiva o
entrano in un dialogo diretto con i tuoi versi diventandone parte integrante?
Ho
voluto inserire nel libro alcuni “documenti” come il disegno con dedica di una
bambina, uno degli scontrini “mistici” che mi lasciava Silvio quando veniva a
comprare la birra, una delle tante lettere, che ancora conservo, che mi
scriveva Mimì, alias Domenico, un barbone che spesso aiutavo, perché sono delle
tangibili testimonianze di quella varia umanità che mi è passata davanti in
quegli anni e perché li ritengo significativi del desiderio di esprimersi anche
in altre forme, insito nell’animo umano.
Questa è una pubblicazione che contiene vari spunti di diversa natura. Avendo già pubblicato numerosi libri in precedenza, quanto c'è di innovazione e quanto invece che s' innesta ad un filone già esplorato in precedenza? "Le stanze inquiete" dunque un punto di arrivo o un punto di passaggio della tua esperienza sia letteraria che umana?
“Le
stanze inquiete” è e rimarrà un unicum nella mia produzione poetica. E’ un
unicum perché unica e particolare è stata l’esperienza da cui è nato. Forse è
un’area di sosta nonostante il mio cammino poetico non si sia mai fermato, ma
anzi è proseguito anche attraverso una scrittura
poematica ad esempio con il lavoro inedito “La vita in dissolvenza” o di
racconto in versi come altri inediti di prossima pubblicazione. Un cammino comunque coerente con la mia
poetica e con la mia visione del mondo.
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