martedì 2 novembre 2021

LETTERA SU "ECONOMIA E ARTE"

Cara Miriam,

lei tocca argomenti veramente stimolanti che coinvolgono uno dei problemi espressivi principali della contemporaneità:  il rapporto fra arte e economia. Diciamo che la vera rivoluzione nell'arte, la prima nel senso della parola, l'ha effettuata il Romanticismo: la libertà come condizione indispensabile dell'atto creativo. Per la prima volta è l'artista a proporre la sua creazione e non il contrario. Antecedentemente, e soprattutto nel nostro splendido e fruttuosissimo Rinascimento, il signore assegnava la commissione. Comandava all'artista il lavoro dandogli anche spunti e precisazioni su cui lo stesso avrebbe dovuto operare. Quindi mancanza di quella condizione ispirativa di cui i Romantici faranno il loro cavallo di battaglia. Eppure, paradosso delle contraddizioni, è proprio il periodo, quello del Rinascimento, in cui produciamo i più grandi capolavori letterari, figurativi, architettonici... per i quali l'Italia è e sarà sempre ricordata. Allora come si mette. Eppure sarà proprio nelle dittature che gli artisti lasceranno, per reazione, i più grandi capolavori. E’ inutile sciorinare nomi a destra e a manca; è sufficiente citare un Guernica di Picasso, citazione ovvia e abbastanza scontata, comunque. Sarà che (nel nostro Rinascimento) c'erano le ricchezze dei principi a incentivare l'arte? A permettere certe realizzazioni? Sarà che l'artista veniva ben remunerato e non aveva la preoccupazione di piazzare l'opera, perché già antecedentemente comandata? Lei, ad esempio, nel suo campo è una notevole artista. Riesce a miscelare immagini, parole e musica con una maestria che può scaturire solamente dalla sensibilità di una grande anima. Ma le sue opere è bene o male che vengano commercializzate? L’artista si sente realizzato non solo nel produrre, ma anche nel riscontro che trova nel piazzare l’opera. E non è detto che il raggiungimento di un equilibrio economico non dia forza al convincimento e all’autostima del creatore. In questo caso creatrice. Credo che la libertà debba essere certamente il piedistallo su cui basare l'attività creativa. E che l'artista non si debba assolutamente far condizionare dalla commercializzazione nella sua attività espressiva. Ma nel mondo in cui viviamo, mi chiedo, non può essere la stessa commercializzazione motivo e stimolo di produzione, materia da metabolizzare per lo stesso atto creativo? E se un pittore, ad esempio, crede fermamente nelle sue opere, ma non riesce a piazzarle, non è che entrando nel circuito commerciale possa dare inizio alla sua realizzazione? E poi non può darsi che le sue creazioni possano essere propagandate a fini di lucro? E’ talmente sottile il confine fra libertà, economia e arte che tanti potrebbero essere gli esempi da addurre come convalida delle diverse posizioni. Invece io penso che il critico letterario debba assolutamente salvaguardare la sua dignità. Non  elogiare incondizionatamente quando non ci sono i presupposti. Magari cercare quello che di buono c’è in un opera. E da lì partire. C’è sempre qualcosa di positivo in ogni scrittore. Solo il fatto di scrivere, di per sé, è già una grande cosa. Ingentilisce l’animo, che sempre più impreziosito cercherà di sfogare la sua esistenza o il suo modo di essere. Però alla base del tutto ci deve essere la parola, il possesso della lingua, la scrittura, come per il pittore il colore, e l’utilizzo del pastello. Si può essere ricchissimi di sentimenti, sentire il bisogno di esternarli, ma se la parola non ti prende per mano e non ti accompagna in questo personalissimo percorso la cosa si fa dura. Allora studiare, studiare, studiare, leggere, leggere, leggere. Poi sarà la nostra personalità a setacciare dizionari e sintassi, a sforzare le parole, a dilatare i percorsi per renderli unici. Perché un buon musicista potrà essere solamente un buon musicista, ma per divenire artista dovrà andare al di là delle note stesse, come il poeta al di là dei significati. Tocca al critico saper leggere e individuare e valorizzare questi al di là. Senza, però, mai deprimere. La critica non deve mai essere violenta. Semmai dolce, poesia su poesia, e far capire fra le righe quali parti potrebbero essere più liriche o meno, più riuscite o meno. E la critica non potrà mai essere  obiettiva, ma un’opera d’arte su un’opera d’arte. Il critico legge il lavoro, lo fa suo, lo rivive, e lo getta sul foglio “rilucidato” e zuppato del suo sentire.  Vi accosta tutto se stesso, coi suoi gusti, i suoi intendimenti, e, perché no, le sue memorie..

Cara amica, grazie dei complimenti, ma io credo che per essere dei veri critici  dovremo mangiare ancora tanto pane.

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