lunedì 16 marzo 2015

N. PARDINI LETTURA DI: "IN LUCE D'ESTASI" DI I. SCERROTTA SAMA'





Innocenza Scerrotta Samà: In luce d’estasi  Edizioni Polistampa. Firenze. 2015. Pg. 72

Confluenza in un naturismo dal sapore di naufragio leopardiano

Estasi
il confine
con
la
morte

Iniziare da questa poesia incipitaria significa penetrare già a fondo nella poetica di Innocenza Scerrotta Samà. Estasi, confine, morte; e, aggiungerei, limen e spazi, mito, trasmutazione infinita:

Al di qua
del confine
trasmutazione
infinita.
In costante
anelito
di vita.

Termini che nella loro espansione etimo-significante fanno da antiporta, da prodromica apertura ad un viaggio di polisemia levatura. Un andare zeppo di tutti i quesiti dell’essere e dell’esistere, di ogni propensione verso quell’azzurro che attrae da sempre la nostra pochezza. Forse perché proprio nel mistero di quel colore, l’uomo intra/vede il bilanciamento della sua insufficienza. Vita morte, ordine caos, alfa omega, Ulisse e nessuno, il niente e il tutto: quel polemos degli opposti eracliteo di cui è fatta la nostra essenza; la navigazione in un mare enorme e pauroso che può significare fine, ma anche apertura ad una libertà luminosa e indecifrabile di memoria alfieriana, di palpito neo-platonico, ellenistico; luce aeropagita (Dionigi l'Aeropagita, luce degli stiliti del deserto; o S. Francesco, di Dante, luce luziana ("Nel viaggio terrestre e celeste di Simone Martini"); ed è proprio nella simbiotica fusione delle contrapposizioni che la Poetessa riesce a trovare un faro che illumini il porto; che faccia da bussola per il ritorno ad una spiaggia familiare, seppur nuova, rigenerata; ad un’Itaca dai tramonti eterei, dai giardini paradisiaci, senza Proci, con Penelopi e Telemachi freschi, desiderati ed amati; per  vivere tutti assieme in quest’angolo di felicità e di sogno. Per ricuperare nei confronti di sconfitte, volute forse dal destino, o da chissà mai quali congegni imperscrutabili. Il fatto sta che il cammino è lungo, come lunga e problematica la vicissitudine di un’anima che scopre strade nuove dopo forti, e inquietanti peripezie. Di un’anima che si aggrappa a quell’azzurro come àncora di salvataggio; che si guadagna la cima dopo una scalata ripida; che scorge un fascio di luce abbagliante dopo una selva oscura e dolorosa:

Nel secolare oceano
di dolore,
il canto
del cuore,
il succo dolce
delle vigne,
il bacio della pioggia
amica.

       Poesia snella, audace, apodittica, generosa di perlustrazioni intime, di interrogativi quotidiani e universali, che si amplificano in un andare di soluzioni eteree, escatologiche, verticali;  una  via crucis di stazioni dolorose, che, partendo dal terreno e dalle sue molteplici insoluzioni, o dalle sue illuminanti e romantiche nicchie di luna (Estasi/ la/ brezza lieve/ sui/ biondi capelli/ di/ Lavinia/ al sole/ d’aprile./ Alla luce dorata della luna.), si eleva alle soglie del Cielo, con una spiritualità ed uno slancio tali da farsi estasi e pienezza ontologica; confluenza totale in un naturismo dal sapore di naufragio leopardiano:

Estasi
l’urlo
dell’oceano oscuro,
il bacio
dell’onda
sulla
riva,
(…)
senza
ieri
e
domani,
con l’insegna
d’un mare
senza scogli,…

di un amletico Ulisse in un mare senza confini.
Ed è il verso, con tutta la sua carica verbale, con tutto il suo valore semantico, e con tutti i suoi nessi inconsueti ad accostare folgorazioni ora surreali, ora visionarie, ora parenetiche. Una struttura poematica breve e succinta, moderna e meditata, dove la parola è tutto; è sufficiente a se stessa nel verso appagato di essa, architettonicamente gotica, se si considera l’altezza du plafond a cui volge lo sguardo. La Nostra fa del dolore una  base di appoggio per una arrampicata diretta agli abissi della poesia; all’ossimorico travaglio fra l’umano e il divino. D’altronde è proprio dell’uomo aspirare all’oltre per svincolarsi dai limiti della terrenità, dacché, cosciente del tempus fugit, ha sempre sofferto della posizione scomoda della sua precarietà di fronte alla morte; o del malum vitae di fronte ad un mandorlo fiorito nella luce di marzo senza dilemmi e angosce. Ma la Poetessa si completa in un superlativo stato di estasi, in una poesia che raggiunge la plurivocità di cospirazioni palingenico-epifaniche, per vincere il tempo:

Apoteosi
d’un coro
senza tempo.


Alla fuga
del tempo,
l’eterno presente
col messaggio
d’un essere
vivente.

Dove presente e passato si fondono insieme per scrutare il fremito oscuro del domani:

Fremito
oscuro
Il già
Il non
ancora

 Si parte dalla vita vissuta, da tutta la sua pienezza: amore, contemplazione, melanconia, stasi e fughe, andate e ritorni, nostos e nostoi, saudade; “abisso di se stesso”, libertà, sguardo ad orizzonti impossibilmente possibili:

Dall’abisso
di se
stesso,
alto
maestoso
lo sguardo.
Libero
come
allodola
di
prato.

 Un odisseico viaggio che ci dice del vivere e della sua complessità: un milieu entre rien e tout. E qui c’è tanto di pascaliano, di ricerca, non solo spirituale ma anche verbale in un proposito di fare del lemma un tatuaggio di un’anima tutta  volta a completare se stessa. E la Samà sa che solo la poesia può rivelare il misterioso nesso di ricongiunzione fra il non essere e l’essere.  Fra quello che siamo e quello che dovremmo e potremmo essere. Ed è alla vita che si ritorna dopo un lungo viaggio, perché è quella che la nostra ama. È quella che brama ed ha bramato vivere in tutta la sua purezza, in tutta la sua epigrammatica esistenzialità, declinandola in poièin, con un atto onirico che fa da leitmotiv a tutta l’opera. Sta proprio in questa identità fra asciuttezza fenomenica e volo pindarico il canto; e si sa quanto sia problematico tradurre in parole tanto sentire, tanto sperdimento esistenziale; per questo la Samà ricorre al mito, a traslati iperbolici, a misure simboliche, ad un discorso metaforico-allegorico, per superare un impatto verbale che la vincolerebbe ad una cifra troppo terrena. Un mito sfiorato, appena accennato, rinnovato; un mito che racconti gli abbrivi emotivi dell’Autrice. Un mito che non dica di sé ma che si assoggetti alla totalità intima di una storia; ad un pathos che sente forte il bisogno di concretizzarsi in figure sapide di classico, di nuovo, di sempre:

Su ali
di
silenzio
e
d’uragano,
il canto
di
Saffo
piena
d’Alceo
e
d’antica parabola
d’amore.

Il memoriale stesso assume una valenza da nirvana edenico, da alcova rigenerante, che poco ha a che vedere con la tensione umana che ri/vorrebbe a  vita figure e immagini amate, luoghi e tempi di una storia. Ella desidera perpetrarli con sé; tutti assieme in questo voyage misterico e misterioso; dolce e immacolato; quello di un nostos, di un ritorno a un mondo che ha cambiato i connotati facendosi diverso, sognato e realizzato, grande e, anche, immortale sotto la spinta di una poema che si eleva all’eccelso “Sulle rive/ dello Xanto,/ odorose/ di/ zagare/ e/ verbena,/ esile/ e/ nuda/ con riflessi/ d’alba/ nel totale/ oblio.”.
Una rinascita in Luce d’estasi:

In luce
d’estasi
l’ombra
dei
cipressi.

Un urlo di luce a vincere la morte.   
  

Nazario Pardini                   

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