venerdì 13 marzo 2015

N. PARDINI LETTURA DI "GRIDO" INEDITO DI C. FIORENTINI



Claudio Fiorentini collaboratore di Lèucade


                   Claudio Fiorentini

                   Grido

                Nuovo canzoniere

  
Si srotolano i pensieri sul volto
E nelle rughe scolano cadendo.
Mai come ora
Vedo quei pensieri
Guardandomi allo specchio e grido

Spiriti del tempo,
Folletti in gozzoviglio,
Elfi dementi…

Iniziare da questa citazione testuale significa andare da subito a fondo nella poetica di Claudio Fiorentini. Un dire di assoluta novità architettonica per valenza  metrica e cospirazioni intime, dove il verso, con andare fluttuante e modulato, cerca di farsi geografia fisica di un animo intimamente graffiato da una irrequietezza esistenziale. Ricerca, scavo, analisi attenta e perspicace di pensieri che, con stratagemmi metaforici, si srotolano sul volto e scolano cadendo nelle rughe. Claudio si sdoppia per leggersi meglio; si vuol vedere come persona estranea, come immagine allo specchio per ritrarsi con ironia e curiosità, con ardore e intensità epigrammatica, raffrontandosi con la vita, il tempo, l’amore, la nullità dell’esistere, e il divenire implacabile dell’essere che non dà punti di riferimento a cui appigliarsi.
Una silloge forte e tormentata, dove il Nostro si agita con guizzi formali e scarti semantici per indagare sul percorso terreno; conoscerne il dubbioso profilo, i nascosti segreti con tutto ciò che comporta il fatto di esserci. Nostos e nostoi, latebre da scoprire, saudade da patire. D’altronde c’è in ognuno di noi mortali questa psicosi del ritorno, del riavvicinamento al luogo che ci vide nativi, inconsapevolmente; e forse da là arriva l’inquietudine che ci fa umani, con tutti gli interrogativi che tale vicenda comporta. Un ritorno che non significa solo casa, paese, città, donna, famiglia, ma piuttosto l’altra parte di un noi da cui forse siamo partiti e da cui ci siamo gradatamente allontanati. È una malinconia inspiegabile che ci attanaglia, e che ci spinge verso un oltre indefinito e indefinibile, a cui difficile è approdare. Un porto senza faro, che sembra dirci “Costruisciti la tua luce; delinea la tua rotta, se vuoi giungere a toccare le mie coste”. Ma il mare è immenso, le onde irrequiete e tormentate come il nostro animo che si sperde facilmente in quell’immensità. Sì, in quel piano azzurro che ci dà l’idea, anche, di una libertà totale, plurale; quella che sempre abbiamo sognata e mai trovata; ma, anche, simbolo del nostro andare come viandanti sperduti in una società liquida. Della nostra diatriba interiore fra l’essere terreni e il pensare di non esserlo, che non ha affatto il senso di un escatologico prurito, ma qualcosa che ha a che vedere con la nostra struttura mentale, con quella del nostro Autore che non accetta la sua mortalità, passivamente, biologicamente, come facente parte di un insieme di un processo naturale destinato a finire. O, tutt’al più, destinato a lasciare qualche seme di una rinascita. Forse il Nostro è in questo che crede. Nel potere dell’Arte e dei suoi meccanismi foscoliani, dacché è polimorfica e  plurale la sua predisposizione ai linguaggi più vari; ed è a quelli che mira, ed è con quelli che vorrebbe tramandare il suo pensiero, il suo messaggio, quella parte di sé che in definitiva domina sul tutto.      

 C’era solo un riflesso, una strana chiamata
come un accenno a qualcosa di più grande
messo di traverso tra l’ora e il poi,
e rivoltato, rigirato, scansato
il nulla
                il vuoto
misero avanzo di mistero che si oppone a vivere anche ora che è vinto.
C’era solo quello.

Ora, che di luce e buio non resta che l’accenno,
il tempo si consuma senza lentezza e senza fretta
fino a scompigliare ogni sua istanza
fino ad annullarsi nella vergogna di scoprirsi breve  

Un presente, un passato, un futuro che si embricano fortemente nella ricerca tormentata di un poi; di un sempre; di una ragione per cui vivere ed esistere, dacché il vuoto, il nulla, o una traccia pur minima, e quantomeno falsa del vero, sono lì a gridare baldanzosi la loro inesistente esistenza. Resta solo la faccia inesorabile del tempo, la sua prepotenza dissolutrice, a consumare lentamente tutto ciò che magari noi abbiamo ritenuto anche indistruttibile. Una realtà sconquassante  su quello specchio offerente la parte di noi affannosamente cercata; un afflato di sapore leopardiano, anche se colorato di una modernità a tinte forti:

… È un frutto fecondato dal dolore
La gioia
Nulla può ferirla né offenderla
Essa è già oltre
È un dio assassino che si nutre di sangue sacrificale
È egoista…
   
Sì, la gioia è quella lì! È un dio assassino che si nutre di sangue sacrificale…
Un tormento interiore tradotto in sigilli verbali di grande effetto narratologico; di grande portata empatica che si fa terriccio fertile per fioriture di poemi floreali. Dacché proprio il fiore col suo nascere e sfiorire, con i suo colori e scolori, con il mistero della sua immutabile mutabilità, ci dà l’idea della vita; non certo la soluzione del suo mistero; visto che fra realtà e verità il percorso è talmente arduo da lasciare pochi spiragli; quelli che baceranno l’Autore, per farlo loro schiavo:

Sciogliti con esso, oh luce riflessa
Non farmi credere alla tua menzogna
                        Io guardo su
                        Là dove la luce è vera
E pur se tremola, lontana e persa nell’immensità del buio
Pur se tarda anni luce di fatica per giungere a me
So che mi bacia, per farmi suo schiavo.

Un tentativo di cogliere il perché delle cose e degli ingranaggi in cui siamo impigliati in questo nostro percorso tanto casuale e problematico. Una luce che rischiari l’ombra della vita. Si tratta di una verità di  portata spirituale, da canzoniere intimo; di una meta tanto agognata quanto affannosamente cercata: quella dell’altro sé, che l’autore vuole assolutamente scoprire, dacché è cosciente che quel segmento completerà il tutto; un congegno di olistica visione, specchio dell’univertso.   
     
… So che un solo minuto della tua vita mi renderebbe folle
Non potrei tornare ad essere me
Lo so,
Ma in che altro modo posso amarti?...

L’amore stesso fa di questo Canzoniere un’aspirazione ad una fusione completa, ad avere “un tuo minuto, per viverlo come lo vivi tu, e capirti”. Il solo modo per amare. Il sentimento dei sentimenti assume una tale potenza connotativa, una tale coscienza emotiva da trascendere il potere umano e farsi ipotetica follia in un gioco di  sottrazioni e spersonalizzazioni. In un gioco di donazioni e privazioni. Uno spartito di allusioni iperboliche preste a donare ritmi di valente poesia. Una traversata onirica, una cavalcata in un mondo surreale, dove il Poeta aspira a completarsi con compensazioni a mancanze quotidiane, reali, troppo umane:

In quel momento così astratto, così imprendibile, così fragile
L’uomo si avvicina a Dio, il suo Dio
Che vigile sorveglia
E che perdona.

Il solo modo, anche, di raggiungere il culmine dell’estasi. La fusione dello spirito col cielo, con quel Dio che ognuno porta dentro di sé, alla sua maniera; ma pur sempre una scalata a una cima astratta, fragile e imprendibile. Illusoria, direi, e futile come la vita. Come questo nostro esistere fatto di andate e ritorni che ci ingannano con apparenze che, fagocitate da un tempo incomprensibilmente fugace, passano e ci dimenticano. E allora mutiamo in pietre questo magma che ci tormenta e che ci tiene vivi; in pietre secche, o levigate, sole o stratificate, basta che si facciano corpo solido e variegato come le parole di questi canti:

Quest’esplosione è in fondo la poesia?
Se adesso le parole sono pietre
Cos’eran prima, magma borbottante?,

in un grido alla Munch per gareggiare con una clessidra destinata a vincere:
    
… Grido sarà per esser dimensione
E per tracciare il senso
Di questa vita mia
Che piano passa…,

con parole che il Poeta scolpisce, e alle quali affida tutto sé stesso, perché è in loro che crede, ed è con loro che spera di non morire:   

Non per soffrire, non per morire
Per vivere
Eccomi qui


 Nazario Pardini




 DA  “Grido”


Si srotolano i pensieri sul volto
E nelle rughe scolano cadendo.
Mai come ora
Vedo quei pensieri
Guardandomi allo specchio e grido

Spiriti del tempo,
Folletti in gozzoviglio,
Elfi dementi

Innanzi a voi io giuro
Non un solo soffio
Non un solo dubbio
Cederò della mia vita ad altri

Giuro di portare in me questa mia pena
        Intera tutta
Per trasformarla in gioia

Giuro di far del sogno
Una missione

Giuro e rigiuro: vivrò fino alla fine
Senza che un solo attimo si sprechi!
Fino alla fine in me, con me, di me,
Così come son fatto
Cercando l’altro Me, finché con lui
Ritornerò completo, e sarò Uomo!



C’era solo un riflesso, una strana chiamata
come un accenno a qualcosa di più grande
messo di traverso tra l’ora e il poi,
e rivoltato, rigirato, scansato
il nulla
                il vuoto
misero avanzo di mistero che si oppone a vivere anche ora che è vinto.
C’era solo quello.

Ora, che di luce e buio non resta che l’accenno,
il tempo si consuma senza lentezza e senza fretta
fino a scompigliare ogni sua istanza
fino ad annullarsi nella vergogna di scoprirsi breve.

Io l’osservo da fuori, ma è dentro che succede
Dentro mi vive e mi percuote
Dentro mi ama e mi disama
Fuori
                c’è solo distanza
E quel riflesso, avanzo di mistero
Mi appare controvoglia
Sapendosi specchio di qualcos’altro.



Come un manto che si slega dal tuo fiato
Trasformato in vento polline e luce
E vola fecondo fino ad essere niente,
Così il dolore scioglie legacci
Per accendersi nel suo frutto:
si chiama gioia
e non conosce parole.

È un frutto fecondato dal dolore
La gioia
Nulla può ferirla né offenderla
Essa è già oltre
È un dio assassino che si nutre di sangue sacrificale
È egoista
Non si cura di chi o cosa le ha dato nutrimento
Nuda, nel suo bozzolo che la protegge,
si mostra solo al ramo che la sostiene
e quando infine la metamorfosi è compiuta
dispiega colorate ali e accarezza il soffio che l’accompagna
e più nulla può ostacolarla.

Gioia,
se vera, anche nell’abisso vive
e dovunque vada lascia il suo seme.



Insieme al buio le distratte luci
Sospinte da un vento dissolto
Senza una logica, si spargono tutte
Per diventare stelle.

Al guardarle l’animo brucia
Riflesso inconscio del loro fuoco
E si spegne anche l’intendimento
Per mormorare all’anima
Che l’ultimo riflesso
È solo l’ultimo volto di uno specchio.

Sciogliti con esso, oh luce riflessa
Non farmi credere alla tua menzogna
                        Io guardo su
                        Là dove la luce è vera
E pur se tremola, lontana e persa nell’immensità del buio
Pur se tarda anni luce di fatica per giungere a me
So che mi bacia, per farmi suo schiavo.



Vorrei avere un tuo minuto
Tuo, non mio
Per viverlo come lo vivi tu
E capirti.

Un solo minuto per essere te, non me
Per entrare nel tuo corpo, nella tua mente, nel tuo spirito
Vedere la tua anima,
E poi spaventarmi e tornare in me
Perché solo in me posso vivere.

So che un solo minuto della tua vita mi renderebbe folle
Non potrei tornare ad essere me
Lo so,
Ma in che altro modo posso amarti?

Io resto io, tu resti tu,
Non conosco il tuo mondo,
Lo immagino riflesso del mio
Ma è altro.

E un tuo minuto val bene una vita di pazzia,
Se vivendolo saprò cosa ho saputo darti.



Quando la luce finirà
noi non saremo ciechi all’abbaglio
di quel terrore
e solo potremo credere
allora come non mai in quel laccio di fede
nascosta e limpida
come da notti e giorni
e tempi andati
e vibratili fibre che ci impediscono
                        ora come sempre
                        di volare


Quando la luce finirà
e d’improvviso un altro degrado
sarà lì a convincerci che la follia
forse non era tale
e che il tempo non è bastato a farci capire
che matti si è savi e savi si è stolti

Ci ritroveremo allora
per un attimo
                eterno, vero, solido
                ... a pentirci



Nella notte, quando il soffio della preghiera si addolcisce
Ed anche il silenzio si appresta a tacere
Il mio respiro si fa gesto e traduce ansie nascoste
Poi la coscienza ormai rilassata abbandona la realtà
Per farsi sogno,
Altra coscienza che di giorno dorme.

Solo allora si aggrovigliano pensieri e paure
In tormentate lotte.
È l’anima che a luce spenta si libera dal pegno
Pagato da ogni uomo

In quel momento così astratto, così imprendibile, così fragile
L’uomo si avvicina a Dio, il suo Dio
Che vigile sorveglia
E che perdona.


Cos’è il sogno se non abbandono
             Cos’è il tempo se non illusione
             Tratti bruciati esprimono le note
                               pudiche e possenti
             Per ridestarsi dimentichi di dimensione
             Già morte di fuggevole istante....

             Morte?

             Talvolta feconda e insonne
             Tende il suo graffio sorridente
                               lacerando il passo
                               per dormire....

                                       1993


Non per violenza né per gioco
L’eterno alternarsi delle parti
Unite e in armonia si scioglie nell’unico momento
Vissuto in due
Unione di contrari su terre feconde
Fiume che esplode in una grotta per dar luce e vita

Questo si chiede allo stare insieme
Non per violenza né per gioco
Ma per amore
Vissuto in due
Unione di carni e di passione
Che simile a preghiere ti avvicina a Dio

(...)





4 commenti:

  1. Con grande sorpresa leggo questo post e ringrazio Nazario Pardini per l'onore che mi riserva. Sarò grato a tutti quelli che vorranno commentare.

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    1. Dimentico spesso di firmare. Rimedio subito: Claudio Fiorentini

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    2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  2. Bravo, Claudio, mente pensante in un cuore pulsante! Ho letto con interesse e attenzione la nota critica del Prof. Pardini che coglie l'essenza del tuo vivere e scava nella profondità del tuo pensiero. Ancora una volta mi sorprendo emozionato a leggere i tuoi versi, e di ciò ti ringrazio. Vola sempre più in alto, spinto dalle termiche del tuo essere.
    Franco Vetrano

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