mercoledì 4 marzo 2015

UMBERTO VICARETTI SU "VER SACRUM" DI F. CAMPEGIANI


Umberto Vicaretti collaboratore di Lèucade



                                                     
Edizioni Tracce, 2012
Poesia collana "Magister"
64 pp. - € 11.00

DA "P: BALESTRIERE SU "VER SACRUM" DI F. CAMPEGIANI": 

Ho avuto la fortuna, tempo fa, di leggere "Ver Sacrum", raccolta che ci riconcilia con la nobile e alta poesia. La silloge di Franco Campegiani, infatti, abita i piani superiori del Parnaso, e Pasquale Balestriere, col suo stile netto e con ineguagliabile maestria, non solo ne coglie mirabilmente il senso e la genesi, ma ne individua anche la valenza teleologica, offrendoci un’interpretazione di assoluto valore esegetico ed ermeneutico. Notevoli anche, e pertinenti e originali, i contributi di Claudio Fiorentini, Umberto Cerio, Sandro Angelucci, poeti, scrittori e critici dalla penna affilatissima... 
Per mio conto posso aggiungere che con "Ver Sacrum" Campegiani, senza preamboli, ci catapulta fin da subito nel bel mezzo di una, per così dire, “chiamata in correità”. In fondo, la nostra storia l’abbiamo confezionata noi, e i mali che ci affliggono hanno quasi sempre una paternità che ci chiama direttamente in causa. Proprio per questo dobbiamo rispondere in prima persona di ciò che siamo, di ciò che nel tempo abbiamo costruito e di ciò che, soprattutto, abbiamo distrutto e dissipato. Perciò niente scuse, nessuna defezione, perché “Dovunque l’uomo è prigioniero / se non si fa crescere le ali, / se non spezza gli steccati / che pone innanzi a sé” (Autocritica). E ancora, a proposito di ali (metafora di libertà e di autodeterminazione), “Fedeli al Ver Sacrum, / ci cresceranno le ali e chissà / se saremo all’altezza dell’amore” (Ver Sacrum - II), richiamo liricamente stupendo alla coscienza individuale e a quella collettiva, in cui a me sembra di scorgere un implicito rinvio a quell’imperativo categorico con il quale Kant chiama alla responsabile costruzione del bene comune. E il focus, il punto nodale della speculazione poetica di Franco Campegiani, consiste nella necessità di abbracciare e di accettare il mondo nella sua totalità, nel suo magma indivisibile che ingloba il giorno e la notte, “Ordine e Caos”, “l’alfa e l’omega”; un mondo che assembla tenebra e luce, Bene e Male, l’Ulisse e il Nessuno, “il lupo e l’agnello”, il Caino e l’Abele che albergano in ognuno di noi. Ma un mondo in cui, oltre ai contrari citati, si contrappongono anche la realtà fenomenica e l’insondabile misura dell’inconoscibile e del noumeno, eterno dilemma del mistero esistenziale. Il tutto in una incessante alternanza di valenze che all’umana ragione sembrano antitetiche e inconciliabili, ma che invece rappresentano momenti complementari e inalienabili di una realtà che altrimenti risulterebbe incompiuta e monca: “Cosa la ragione può comprendere / della legge suprema dei contrari?” (Lettera a Kant - Quel che nell’imo siamo). Si stabilisce, così, un continuum tra gli elementi, un’integrazione assoluta che fa, della coincidentia oppositorum, il motore primo, il principio fondante che governa la vita e il cosmo. Ma una tale visione del mondo, che sottende una permanente autorigenerazione, un’automatica renovatio all’infinito, sembra esaurirsi in una sorta di panteismo spinoziano. Un panteismo che tutto trasfigura, ma che evoca l’asettica immanenza di una qualche indifferente e anonima divinità. Non è però questa la prospettiva della silloge di Franco Campegiani, poiché nella parte conclusiva il poeta rompe gli indugi ed entra nel cono di luce proiettato dalla Croce: “Libriamoci dunque / sul legno della Croce. / Rubiamo alle aquile / lo statuto dei cieli” (Condurrà il gregge). E ancora: “E’ la Croce il trono del Messia. / Sta il suo regno nel pianto / dei giorni amari, / nella fede degli ultimi / che saranno i primi” (Il Re messianico - La salute del giardino). Dunque, un nuovo inizio, una nuova rinascenza, nella pedagogica e illuminante rivisitazione del cammino compiuto: “Fin qui vagammo espulsi dal Giardino / in cerca di fuochi e soli e terre, / ignari che la luce era con noi” (Il Re messianico - L’esilio).. Si tratta certo di una svolta decisiva, che certifica il momento dell’adesione totale ad una fede. Una scelta di campo che ha tutto il sapore della scommessa pascaliana. 

Umberto Vicaretti


 Alla volta di Leucade 

5 commenti:

  1. La fortuna è tutta mia, caro Umberto, per avere lettori e recensori del tuo rango, come del rango di Pasquale (ma anche degli altri che hanno rilasciato commenti. Mi piace il richiamo alla libertà/responsabilità che cogli nella mia poesia, il riferimento a quell'autorigenerazione costante che non può prescindere dall'autocritica, dalla sofferenza e in fondo dalla simbologia della Croce. Il panteismo non c'entra, ma indubbiamente siamo figli di un Padre che ci vuole padroni di noi stessi.
    Franco Campegiani

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  2. Carissimo Umberto, la tua lettura autoptica della bellissima Silloge di Franco, mi spinge a riesumare la mia disamina, elaborata in modo molto più semplice.
    La vita esiste laddove tra gli opposti subentra una mutua necessità L’intero universo è sottoposto a un eterno fluire di forme e la vita richiede contraddizione. Noi stessi siamo e non siamo, perché esistere significare diventare, ossia mutare la propria condizione in un’altra.
    Franco ha scritto nel 2001 il saggio “La teoria autocentrica”, in cui, lungi dal porre l’individuo al centro dell’universo, mette in risalto il dualismo esistente anche all’interno dell’uomo stesso e, soprattutto, evidenzia il valore della creatività. Ricordo di aver letto subito dopo il saggio un documento che mi procurò uno stato di emozione profonda, in esso Franco asseriva che in un mondo destinato a vivere in fotocopia come il nostro, l’Artista o comunque l’uomo creativo, si rivelava l’unico essere intelligente.
    Con i suoi assunti egli sovvertiva tutti gli schemi esistenti, si poneva sempre in contrapposizione con le categorie Kantiane, tese a classificare i concetti, a immagazzinarli e renderli fissi, immutabili.
    Grazie alla sua libera elaborazione dell’armonia dei contrari, Franco stravolge le comuni visioni del bene e del male, del bello e del brutto, del nero e del bianco, complementari e indispensabili al fine del perpetuarsi della società e dell’uomo stesso.
    E se Ver Sacrum sembra una Silloge attraversata, come dice la professoressa Ninnj Di Stefano Busà, prefatrice del libro, da un malessere esistenziale, occorre prendere atto che quel malessere è funzionale al fermentare di nuova vita.
    La lirica che apre la raccolta “Autocritica”, che potrebbe intitolarsi “Autoritratto”, in quanto con essa Franco si presenta ai lettori, è già annuncio degli elementi che contraddistinguono la visione di vita dell’Autore. Contiene in sé, infatti, la rabbia dell’uomo legato alla Terra, nell’accezione effettiva del termine, l’uomo contadino che si rivela ai Soloni della cultura, difendendo il proprio
    “paradiso crocifisso /
    tra la merda delle ciminiere”.
    Ma, al tempo stesso, l’individuo definito selvaggio non riesce a smentire le voci di coloro che lo invitano ad andare in biblioteca. Sa che l’uomo resta prigioniero se non trova il coraggio
    “di farsi crescere le ali”.
    La scintilla del bene è sempre presente, quale fonte alla quale attingere per consentire all’essere umano di riscattarsi, di nascere nuovo nel campo dove gli avi hanno seminato.
    Il “Ver Sacrum” in latino era la Primavera Sacra, nel caso del nostro Franco è inteso come rinascita, come rigenerazione e rappresenta la speranza di salvezza che arde sotto la cenere “di queste tombe / che l’inverno ha demolito”.
    Franco mette in risalto il valore della mitopoiesi, della creazione di miti da parte dello spirito umano e del recupero degli stessi, che sono tutt’altro che leggende o vicende favolistiche, come vengono rappresentati. Il mito è all’origine della vita, non va confuso con la mitologia ed è fondamentale per la teoria dell’armonia dei contrari.
    E’ il mito a
    “recuperare le fate,
    colorare il cielo
    di nuove albe ed arie adamantine”.
    E, scendendo sul piano squisitamente personale, Franco sa bene quanto io sia trafitta, come la notte dalla luna, dai suoi versi d’amore. Versi sanguigni, carnali, suadenti, di erotismo sublimato. Versi di un uomo che si perde nell’universo femminile, senza assorbirne il ‘femminino’. Nel perenne gioco dell’armonia dei contrari il nostro Autore si rapporta alla donna senza succhiarne l’essenza, rimanendo altro, lasciando che si perpetui la vicenda dell’Eden, che Eva resti “mia carne scissa da me” e “bianco mistero d’armonia”. M'inchino ancora e sempre a tanta Arte!

    . Maria Rizzi

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  3. Carissima Maria, mi accorgo solo adesso di questa tua testimonianza e approfitto dello spazio riservato ad Umberto (l'amico perdonerà la mia intrusione) per dirti quanto io sia commosso e grato. Pochi, pochissimi, sanno leggere nella mia anima e nella mia scrittura come sai fare tu. Siamo entrambi affascinati dall'armonia dei contrari, che è il mistero dei misteri, ed è soltanto un nome diverso (filosofico) per definire l'Amore: quella legge universale che tiene unite le cose e che, se consente il loro smembramento, è solo perché dalla dispersione possa perennemente rinascere l'unione e l'armonia.
    Franco Campegiani

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  4. Carissima Maria, anch’io leggo solo adesso, e in forte ritardo anche rispetto all’amico Franco Campegiani, il tuo intervento, che mi sollecita una breve replica. Il mio riferimento a Kant e al suo ‘imperativo categorico’, che a me personalmente sembra di “leggere” in filigrana tra le righe del “Ver Sacrum” (avverto una fortissima tensione morale nelle poesie della magnifica silloge di Franco, a cominciare da “Autocritica”, “Civiltà pirata”, “Il male d’oggi”, per finire alla stessa “Lettera a Kant”), rappresenta proprio il concetto opposto a ciò che tu definisci, in riferimento al grande Emanuele, come “classificazione”, “fissità”, “immutabilità” dei concetti: non c’è infatti nulla di più dinamico, liberatorio, innovativo della forza “rivoluzionaria” dell’imperativo, che di per sé stesso, e per sua intrinseca valenza, è sinonimo di azione, rottura di equilibri, continuità; e che proprio per questo, in ultima analisi, è sinonimo di creatività e libertà. L’imperativo, infatti, è l’esatto contrario della stasi, dell’accettazione passiva, dell’immobilità. Quello kantiano, poi, non solo è tutto questo, ma si caratterizza anche per la “qualità” della sua urgenza e della sua creatività: considerare l’uomo sempre come il fine, mai come il mezzo dell’agire umano. Ciò premesso, e ricordando proprio quanto tu affermi, cioè che “Grazie alla sua libera elaborazione dell’armonia dei contrari, Franco stravolge le comuni visioni del bene e del male, del bello e del brutto, del nero e del bianco, complementari e indispensabili al fine del perpetuarsi della società e dell’uomo stesso”, si giunge al nocciolo della questione. Di fronte, infatti, alla verificata complessità del mondo, all’ineliminabile dualità (“armonia”) dei contrari, di bene e male, bello/brutto, nero/bianco, “Ordine e Caos”, l’uomo non può restare a guardare, dal momento che, come Campegiani con felice sintesi annota (invita, suggerisce, “comanda”?...), “Dovunque l’uomo è prigioniero / se non si fa crescere le ali”. Ciò presuppone (lo conferma d’altronde lo stesso Franco nella sua risposta) una diretta presa di coscienza da parte dell’uomo, di una sua precisa assunzione di responsabilità, di una direzione da dare al suo agire, al suo stare nel mondo. E se è vero, come poi sottolinei, che nella visione del mondo di Campegiani “La scintilla del bene è sempre presente, quale fonte alla quale attingere per consentire all’essere umano di riscattarsi”, ebbene, affinché la “scintilla” possieda quella forza redentrice del riscatto, c’è bisogno di quella autoregolazione, di quell’imperativo di ordine etico (possiamo anche togliere il “kantiano”) che io vedo negli appassionati versi di “Ver Sacrum”. Se così non fosse, se cioè l’uomo, e in particolare “l’artista o comunque l’uomo creativo”, non avvertisse tale tensione morale, ci ritroveremmo davvero tutti prigionieri di una realtà che non solo ci sovrasta, ma che ci toglie ogni identità, ci tarpa le “ali”, ci lascia anonimi spettatori, non attori e protagonisti, di un mondo e di un universo che procedono, si rinnovano, incessantemente si evolvono come per immodificabile, deterministica fatalità. La stessa visione e interpretazione, quest’ultima, che del mondo ha il Candido voltairiano, secondo il quale (e secondo Leibniz) il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili, e nulla può essere utilmente intrapreso per modificarne il corso e il senso. E’ dunque la tensione morale a differenziarci da ogni altra creatura, a rendere “l’artista o comunque l’uomo creativo […] l’unico essere intelligente”. Nel caso di Franco Campegiani, perciò, con il termine di ‘imperativo’ (da me liberamente associato al rimando kantiano solo per valenza concettuale) ho voluto individuare un valore puramente morale, niente affatto nominalistico. Grazie, Maria, per questo tuo puntuale, prezioso contributo, e per avere messo i puntini sulle ‘i’… Inutile sottolineare che tanto ci sarebbe da dibattere sul tema in questione. Ma qui è necessario limitarci alla tua specifica chiamata in causa...
    Umberto Vicaretti

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  5. Carissimo Umberto,
    il mio intervento non era volto a contraddire la tua lettura dell'Opera del nostro comune amico, bensì a esprimere la mia personale, fallibile opinione.Credo che la tua chiusa sia esaustiva circa quanto ci sarebbe da dire su "Ver Sacrum" .
    Abbraccio te, Franco e il Professor Pardini, che ci ospita con infinita disponibilità.
    Maria Rizzi

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