domenica 1 marzo 2015

P: BALESTRIERE SU "VER SACRUM" DI F. CAMPEGIANI

Pasquale Balestriere collaboratore di Lèucade

Franco Campegiani collaboratore di Lèucade


                                                          FRANCO CAMPEGIANI
Edizioni Tracce, 2012
Poesia collana "Magister"
64 pp. - € 11.00
VER SACRUM
Edizioni Tracce, Pescara, 2012

Quando si entra nel mondo artistico di Franco Campegiani si ha l’immediata percezione di trovarsi di fronte a  una poesia possente e dolce, profonda e risentita, percorsa da solido pensiero in perenne movimento indagatore. Il poeta non si accontenta (né, per costituzione mentale, potrebbe) della realtà così come appare; egli, ben oltre  l’aspetto fenomenico delle cose, cerca la sostanza, in particolare quella umana. Sì, è l’essere umano che gli sta a cuore; ma anche la società che l’uomo crea, che lo circonda e lo contiene; e la natura, che in qualche modo lo influenza e che ne è, spesso, vistosamente determinata. Ma, per riflettere in modo accorto  su questa silloge di Campegiani, vorrei partire dal titolo che, come è noto, spesso è contemporaneamente sintesi e spia dei contenuti e  del loro significato.  Il “Ver sacrum”, come sa bene ogni amante del mondo antico, era una ricorrenza rituale, in uso presso popolazioni italiche,  consistente nel voto, fatto in situazione di pericolo incombente, di altra grave difficoltà o semplicemente  a scopo apotropaico,  di offrire in sacrificio al dio Mamerte (il Marte dei Latini) tutto ciò che nasceva nel periodo della primavera: prodotti della terra, animali e uomini. Questi ultimi non venivano uccisi, ma, divenuti adulti, dovevano abbandonare la comunità di appartenenza e  formarne una nuova, una sorta di colonia. Era quindi anche un modo per distribuire meglio la popolazione sul territorio. Al di là della sua funzione  propiziatoria, il “ver sacrum”, simbolicamente,  indicava una rinascita, una ripartenza, un rinnovamento. Proprio come accade nella poesia eponima  -Ver sacrum, appunto- della raccolta di Campegiani: “Oggi si torna a capo./.../Si dissolve nelle tenebre la storia, / la sua boria in un ghigno il nulla attrae. / Ora si torna a capo / alle vive origini del mondo...” (I).  Ri-partenza, ri-nascita, palingenesi: “Oggi uccidiamo il re tiranno / nella selva votata alla dea Diana,/ nella radura sacra alle nascite / e ai nuovi albori. / ... / Prenderemo il suo posto, nuove leve, /... /Fedeli al ver sacrum,/ ci cresceranno le ali e chissà / se saremo all’altezza dell’amore.”(II) . A parte la considerazione non proprio positiva che il poeta ha della storia, svelata dalla rima interna (storia-boria), che a mio parere giustamente sottolinea  il velleitario e burbanzoso proporsi dell’uomo sulla corteccia della terra,  è evidente da questi pochi versi, ma ancor più dall’intera lettura dell’opera, il senso profondo della  Weltanschauung poetico-filosofica di Franco Campegiani che ipotizza, spera, agogna un urgente, improcrastinabile recupero  di una realtà archetipica di bontà e di solidarietà, di purezza e d’amore, purtroppo  progressivamente  travisata dall’essere umano fino al tradimento, in nome di una falsa idea di civiltà e di progresso che ha prodotto disastri morali e materiali. Siamo di fronte a una poesia  di pensiero prima ancora (e più) che di  sensazioni e di emozioni; le quali però, pur disponendosi in posizione, per così dire,  di rincalzo o, meglio, di minore visibilità, trasmettono ai componimenti il tono risentito di chi, costretto  alla  difensiva, vigorosamente protesta contro la “civiltà pirata/ .../ ...santa diabolica / gloriosa e oscena...” (Civiltà pirata).                                                                               Se però da un lato  il poeta avverte il rischio che deriva all’uomo dalla “civiltà”, la quale gli fa perdere il contatto con se stesso e con la natura, fino ad annullarlo nella macchina, dall’altro è anche vero che il problema del male -o almeno della presenza degli opposti-  è insito nella stessa natura umana, come Campegiani ci testimonia a più riprese: “E stanno in me il lupo e l’agnello, in me il giorno e la notte...” (Lettera a Kant. Quel che nell’imo siamo); “io nano e gigante di me stesso / io nulla e tutto” (Nessuno, Naufragio);  “E sono io Caino, io Abele, / io l’angelo e il diavolo di me stesso.” (Guerra e pace). E ancora di più è vero che, se tale problema non verrà risolto in una compresenza armonizzata in senso positivo,  attraverso un costante processo autoeducativo per il quale si riacquisti la coscienza dell’Io, non come Ego ma come Sé,  allora il disastro dell’uomo sarà totale, definitivo.
È, dunque,  un’aspirazione all’equilibrio la nota precipua  di tutta la poesia di Campegiani che, seppur percorsa da qualche segno di pessimismo, mostra di possedere in sé, intatti da ogni negatività, ma anzi in pieno germoglio, i semi di una florida vita.

Pasquale Balestriere





10 commenti:

  1. Sono molto colpito da questa esegesi. Balestriere coglie con grande acume critico il cuore della mia scrittura poetica e della mia weltanschauung. Il "Ver sacrum" vuole essere un invito alla rinascita che presuppone una decadenza, un crollo, un momento di grave difficoltà. Una palingenesi, dunque, come lui dice; un ritorno nelle armonie archetipiche dopo i guasti della storia e della civiltà. Di grande efficacia l'argomento del Bene e del Male, che il critico affronta sostenendo l'unità degli opposti, anziché la loro scissione, in una visione realmente armonica della vita. Lo ringrazio vivamente. Non potevo avere di più.
    Franco Campegiani

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  2. Nelle civiltà più antiche i riti di rinnovamento portavano all'azzeramento del tempo: l'uomo non viveva nella storia, ma viveva la storia. Il rapporto con la storia è un prodotto dell'uomo che in essa traccia la propria evoluzione. Negli ultimi millenni l'evoluzione è divenuta quasi una necessità, come se differenziarsi dal passato fosse il fine ultimo della nostra specie. Per poterlo fare, occorre evidentemente una storia che tracci tutti i passi fatti, dimostrando che oggi siamo meglio di ieri, più intelligenti, più belli, meglio alimentati... insomma, una sorta di giustificazione del nostro procedere contro natura, sorta di scudo protettore contro il senso di colpa che ci portiamo dentro, e che viene palesato anche nei testi sacri dove la vita diventa espiazione e sofferenza. L'occhio del poeta affronta in modo molto critico il nostro rapporto con la storia, e immerso nel dubbio si chiede: perché? è forse necessario evolvere come stiamo evolvendo? esiste solo questo cammino? se tornassimo al tempo zero, pur essendo quello che siamo, come saremmo oggi?
    Il tempo zero, il mito dell'eterno ritorno, il caos primordiale da cui nascono nuovi ordinamenti; Franco Campegiani lo sa: il caos primordiale, il magma che borbotta e lancia lapilli, ciò che dà il via alla scultura della natura, quello non è stato sostituito dall'arrivo dell'uomo storico, per quanto la storia ci sovrasti, il magma è ancora e sempre lì, incandescente, accomunante, fondente... uguale per tutti... e si trova in tutti... solo che nel cercarlo - non avendo più riti di rinnovamento collettivi che lo assecondino, che lo canalizzino verso la coscienza dell'uomo nuovo - lo affrontiamo con paura e diffidenza, ritenendoci -giustamente- incapaci di governarlo.
    Non abbiamo coscienza di quali siano stati i riti dell'antichità, abbiamo solo teorie da condividere, che tuttavia rimangono nel quadro della definizione dell'evoluzione dell'uomo, restano tentativi di storicizzazione, eppure dentro qualcosa si ribella, e quindi il rito esiste, è intimo, sacro e privato, risulta difficile condividerne la profondità, perché il linguaggio ormai troppo razionale ci obbliga a percorrere la strada infida della spiegazione, e non l'abbraccio o la condivisione animale dell'esperienza di rinnovamento. Ci resta l'arte per comunicare quanto di più profondo si possa esplorare, e la ricerca dell'archetipo è un rito di rinnovamento che spesso Franco Campegiani esprime attraverso la sua poesia.

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    1. Scusate, ho dimenticato di firmarmi. L'autore di questo commento è
      Claudio Fiorentini

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    2. Splendida e profonda esegesi anche questa. Ti ringrazio, Claudio, per la tua chiave di lettura. L'azzeramento del tempo è una sorta di riconversione cardiaca che il tempo si procura da sé. E' il blackout, il corto circuito che inevitabilmente accade quando storicamente non se ne può più. Da lì, da quell'azzeramento che è un ritorno alle stagioni aurorali del tempo, prende avvio un nuovo corso di civiltà. Ed è quel tornare negli archetipi di cui parla Fiorentini, ben presente in ogni processo della creatività.
      Franco Campegiani

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  3. Ho sempre seguito, in modo solidale, scritti e note di Franco Campegiani ed ho sempre condiviso la sua "filosofia" di vita e di arte: una specie di hegeliana visione di tesi antitesi e sintesi, attraverso la quale il suo pensiero si manifesta con felici espressioni che colgono il senso dell'uomo e del manifestarsi dell'essere e del mondo umano. Peccato non avere sottomano la silloge completa per cogliere tutti i risvolti di cui coglie il senso la magnifica esegesi di Pasquale Balestriere, ma già solo dai versi riportati si sente "la verità" del mondo poetico di Franco Campegiani nel dettato metaforico di uccidere "oggi ...il re tiranno" e di ricominciare una vita vera: "Fedeli al ver sacrum,/ ci cresceranno le ali". Certo, così prendere il volo! Superba anche l'esegesi di Pasquale Balestriere. Complimenti sinceri a entrambi.

    Umberto Cerio

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    1. Carissimo Umberto, ti sono grato per la condivisione e posso assicurarti che ci sono aspetti della tua weltanschauung che anch'io sento particolarmente vicini. Ho grande rispetto per Hegel, ma i procedimenti dialettici da lui descritti non mi convincono, perché a mio parere le armonie stanno all'origine e non in divenire. Mi sono rimaste poche copie del "Ver sacrum", ma molto volentieri me ne privo di una e in giornata te la invierò.
      Franco Campegiani

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  4. Leggo, con partecipazione, questa nota critica di Pasquale Balestriere. Conosco bene (penso di poterlo dire) la poetica di Franco Campegiani e trovo queste riflessioni appropriate e rispettose della Weltanschauung dell'amico, soprattutto laddove ne mettono in evidenza il suo nucleo, la sua distintiva cifra originaria. Già, perché l'attenzione posta ai contrari (bene e male su tutti) è, in lui, molto ma molto di più di una semplice constatazione: egli cerca la loro armonia perché sa che il prevalere del male sul bene (per riprendere i due opposti fondamentali) ha portato a ciò che costantemente abbiamo sotto gli occhi; ma sa, anche, che il verificarsi dell'altra forma di dominanza porterebbe comunque l'uomo ad essere insoddisfatto ed incompleto ( il peccato originale ).
    Dov'è, allora, la soluzione? Se si vuole usare questo termine, questa non può essere che l'equilibrio - come acutamente sostiene Pasquale - ma senza mai dimenticare, che si tratta di una "aspirazione", appunto, con tutto ciò che, della stessa va preso in carico. Voglio dire - per quanto la ragione mai ci porterà ad accettarlo - l'accettazione del dolore: il dolore come elemento ineludibile per comprendere la gioia. "Non c'è rosa senza spine" - recita un vecchio proverbio - : è, dunque, necessario pungersi per carpire tutto il profumo.
    Ringrazio Nazario per aver pubblicato un pezzo che induce a profonda riflessione, Franco per il dono della sua poesia e Pasquale per averne tratto il succo del pensiero, augurando loro e a tutti i lettori che - seppure presenti - le spine non ci facciano mai desistere dal desiderio di respirare il fragrante profumo di un fiore.

    Sandro Angelucci

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  5. "Non c'è rosa senza spine". Mi piace questo ricorso ad una saggezza popolare scomparsa (e a mio avviso nativa), consapevole del contributo ineliminabile del male alla costruzione della coscienza. Come chiaramente detto nel Genesi, il vero male, quello demoniaco, non è il male in sé, ma è la scienza (la separazione) del bene dal male. Con l'amico Sandro ne abbiamo parlato e ne parliamo spesso. Lo ringrazio per averlo voluto sottolineare in questo contesto prestigioso.
    Franco Campegiani

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  6. Ho avuto la fortuna, tempo fa, di leggere "Ver Sacrum", raccolta che ci riconcilia con la nobile e alta poesia. La silloge di Franco Campegiani, infatti, abita i piani superiori del Parnaso, e Pasquale Balestriere, col suo stile netto e con ineguagliabile maestria, non solo ne coglie mirabilmente il senso e la genesi, ma ne individua anche la valenza teleologica, offrendoci un’interpretazione di assoluto valore esegetico ed ermeneutico. Notevoli anche, e pertinenti e originali, i contributi di Claudio Fiorentini, Umberto Cerio, Sandro Angelucci, poeti, scrittori e critici dalla penna affilatissima...
    Per mio conto posso aggiungere che con "Ver Sacrum" Campegiani, senza preamboli, ci catapulta fin da subito nel bel mezzo di una, per così dire, “chiamata in correità”. In fondo, la nostra storia l’abbiamo confezionata noi, e i mali che ci affliggono hanno quasi sempre una paternità che ci chiama direttamente in causa. Proprio per questo dobbiamo rispondere in prima persona di ciò che siamo, di ciò che nel tempo abbiamo costruito e di ciò che, soprattutto, abbiamo distrutto e dissipato. Perciò niente scuse, nessuna defezione, perché “Dovunque l’uomo è prigioniero / se non si fa crescere le ali, / se non spezza gli steccati / che pone innanzi a sé” (Autocritica). E ancora, a proposito di ali (metafora di libertà e di autodeterminazione), “Fedeli al Ver Sacrum, / ci cresceranno le ali e chissà / se saremo all’altezza dell’amore” (Ver Sacrum - II), richiamo liricamente stupendo alla coscienza individuale e a quella collettiva, in cui a me sembra di scorgere un implicito rinvio a quell’imperativo categorico con il quale Kant chiama alla responsabile costruzione del bene comune. E il focus, il punto nodale della speculazione poetica di Franco Campegiani, consiste nella necessità di abbracciare e di accettare il mondo nella sua totalità, nel suo magma indivisibile che ingloba il giorno e la notte, “Ordine e Caos”, “l’alfa e l’omega”; un mondo che assembla tenebra e luce, Bene e Male, l’Ulisse e il Nessuno, “il lupo e l’agnello”, il Caino e l’Abele che albergano in ognuno di noi. Ma un mondo in cui, oltre ai contrari citati, si contrappongono anche la realtà fenomenica e l’insondabile misura dell’inconoscibile e del noumeno, eterno dilemma del mistero esistenziale. Il tutto in una incessante alternanza di valenze che all’umana ragione sembrano antitetiche e inconciliabili, ma che invece rappresentano momenti complementari e inalienabili di una realtà che altrimenti risulterebbe incompiuta e monca: “Cosa la ragione può comprendere / della legge suprema dei contrari?” (Lettera a Kant - Quel che nell’imo siamo). Si stabilisce, così, un continuum tra gli elementi, un’integrazione assoluta che fa, della coincidentia oppositorum, il motore primo, il principio fondante che governa la vita e il cosmo. Ma una tale visione del mondo, che sottende una permanente autorigenerazione, un’automatica renovatio all’infinito, sembra esaurirsi in una sorta di panteismo spinoziano. Un panteismo che tutto trasfigura, ma che evoca l’asettica immanenza di una qualche indifferente e anonima divinità. Non è però questa la prospettiva della silloge di Franco Campegiani, poiché nella parte conclusiva il poeta rompe gli indugi ed entra nel cono di luce proiettato dalla Croce: “Libriamoci dunque / sul legno della Croce. / Rubiamo alle aquile / lo statuto dei cieli” (Condurrà il gregge). E ancora: “E’ la Croce il trono del Messia. / Sta il suo regno nel pianto / dei giorni amari, / nella fede degli ultimi / che saranno i primi” (Il Re messianico - La salute del giardino). Dunque, un nuovo inizio, una nuova rinascenza, nella pedagogica e illuminante rivisitazione del cammino compiuto: “Fin qui vagammo espulsi dal Giardino / in cerca di fuochi e soli e terre, / ignari che la luce era con noi” (Il Re messianico - L’esilio).. Si tratta certo di una svolta decisiva, che certifica il momento dell’adesione totale ad una fede. Una scelta di campo che ha tutto il sapore della scommessa pascaliana.
    Umberto Vicaretti

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  7. La fortuna è tutta mia, caro Umberto, per avere lettori e recensori del tuo rango, come del rango di Pasquale e di tutti gli altri. Mi piace il richiamo alla libertà/responsabilità che cogli nella mia poesia, il richiamo a quell'autorigenerazione costante che non può prescindere dall'autocritica e in fondo dalla simbologia della Croce. Il panteismo non c'entra, ma indubbiamente siamo figli di un Padre che ci vuole padroni di noi stessi.
    Franco Campegiani

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