Il destino della poesia di Holderlin
Un saluto a Lei, prof. Pardini, a Lei che,
gentilmente, mi ha dato spazio in quella che chiama la sua isola e indirizza il
cammino poetico verso Leucade.
Conosco la Lefkada odierna e c'è almeno un luogo
che è rimasto capace di mostrarsi fuori dai segni di qualsiasi storia, se non
la silenziosa ed evocativa presenza di un vecchio faro in disuso sopra le poco
visibili pietre perimetrali dell'antico tempio di Apollo: è il promontorio che
costituisce la punta meridionale dell'isola, la meravigliosa scogliera
verticale dove la tradizione colloca la scena del suicidio di Saffo. Lì è
possibile l'ascolto del vento e del moto ondoso fino a dissolvere la sensazione
del tempo.
L'isola poetica è raccolta, separata dal mare
ignoto e sempre rischioso. Chi vuole raggiungerla deve rinunciare ad ogni
approdo e ad ogni stabile stazionamento. Deve lasciare la terraferma del senso
comune e delle illusioni di conoscenza.
Chi risponde alla chiamata del poetare deve
misurare le sue forze nella solitudine del Mare Aperto, insondabile ed incommensurabile.
Oggi dobbiamo chiederci se siamo ancora capaci di
poetare, di abbandonarci all’Abisso senza più chiamare “poesia” il continuo percorrere
con rotte sempre più numerose la medesima superficie, il compiaciuto “…riandare i sempiterni calli…”. Non
sappiamo più nulla del Dio e dei Divini, e restiamo indecisi nei loro
confronti; non sappiamo morire, e quindi non sappiamo parlare, se non in modo
solo sempre più tecnico; non conosciamo il dolore, se non nella forma
dell'impedimento e della disperazione senza nome: abitiamo così in una terra
straniera.
Il quesito è uno solo. Radicalmente posto da una
nota di Heidegger nel prologo della seconda edizione della sua
"Introduzione alla Poesia di Holderlin": "Ancora oggi noi non
sappiamo ciò che sono in verità le poesie di Holderlin, nonostante i nomi di
"elegia" e di "inno".
Quando e come saremo in grado di prendere sul
serio questo avvertimento? E se il segnale di questo salto definitivo in Mare
Aperto fosse la consapevolezza che dopo la poesia di Holderlin siamo ormai
soltanto una superficie, senza ulteriore profondità possibile ad un abitare, il
nostro, che non è più all'altezza del nostro essere essenziale?
…"Invano nascondiamo il cuore nel petto,
Invano fermiamo ancora l'animo - noi, maestri e allievi.
Chi
potrebbe impedirlo? chi potrebbe vietarci la gioia?
Giorno e notte, un fuoco divino ci spinge
Ad aprire
la via. Su, vieni! guardiamo nell'Aperto,
Cerchiamo qualcosa di proprio, sebbene sia ancora lontano.
Resta ferma una sola cosa: che sia mezzogiorno,
o che si vada verso la mezzanotte, permane una
Misura,
A tutti comune, ma a ognuno è assegnata anche una
propria,
E ciascuno va e arriva dove gli è
possibile"…
("Pane
e Vino", 6)
Possiamo noi, ora,
pensare l’Aperto come Misura, cioè la Misura come l’Aperto? Non è forse
l’Aperto ciò che non giunge mai alla parola del pensiero? E non è forse il
sentimento della delimitatezza del
mondo che, nel suo concedersi alla dicibilità, fa del sentimento del Mistico, privo di oggetto e di
parole, il sentire che il mondo è,
che abbia cioè luogo nell’essere e non mai nella decadenza del valere? Non
siamo sospinti in modo definitivo verso il luogo d’origine di quell’Ethos poetico che genera la prima Parola
del pensiero occidentale, l’Apeiron in
cui Aperto e Misura sono segretamente pronunciati in modo indistinto? E
quell’Ethos non fu pronunciato da Eraclito (“Ethos anthropoi daimon”) come essenza poetante dell’abitare umano
in un reciproco richiamo col Divino?
Dovrà passare
molto tempo prima che versi come questi divengano dolci e sacri. Ebbri del
nostro progresso risolto nel dominio matematico delle cose, ci sforziamo di
proseguire lungo la strada maestra della nostra civiltà, via lastricata di
valori: cultura, politica, scienza e tecnica, religione, pace, economia,
ambiente, la filosofia stessa nella forma odierna di etica pubblica, “bioetica”
ed epistemologia. In questa euforia, quale Odisseo riuscirà a infilzare tutte e
dodici le scuri con la sua freccia e colpirci liberamente coi primi versi di un
tardo abbozzo di Holderlin, Mnemosyne?
“Siamo
un segno che non indica nulla,
Siamo
senza dolore, e abbiamo quasi
Perso
il linguaggio in terra straniera”
La Poesia, l’Ethos originario, impone ora il
silenzio dell’attesa. Il Mistico, l’essenza stessa del linguaggio, il suo
enigma originario, il segreto della sua origine, è l’appello dell’Aperto al
quale non può non seguire un nostro tentativo di risposta, ma non ci aiuta
nessuna parola. Ne abbiamo tante, ma non quelle adatte alla chiamata silenziosa
dell’essenza originaria dell’Ethos.
Se la terra straniera è quella in cui si è fuori
della propria, se è quella in cui avviene lo spaesamento e l’oblìo dell’essere
non rivela che “vivere la morte” e “morire la vita” non sono un gioco di
parole; se continuiamo a fare e titolare i nostri discorsi e i nostri versi
senza misurarci con una profondità che nominiamo soltanto, senza lasciare la
superficie, vuol dire, forse, che, nella strada che abbiamo dinanzi, il momento
in cui Holderlin sia l’unico interlocutore è ancora lontano. Non ci è ancora
concesso, questo momento. E, se questo momento non è concesso, noi non possiamo
più poetare senza restare nell’asfittico e illusorio già-poetato, che vuole e crede di farsi estraneo all’annuncio,
già avvenuto, della volontà di potenza in cui la profondità è bandita nel
dominio della superficie e non può, dunque, poetare l’Oltre.
Solo il confronto con l’immersione nella poesia
di Holderlin può preludere ad un canto capace di accogliere l’Istante e
riascoltare le possenti parole prime del nostro linguaggio aurorale per
autoaffermarsi come ulteriore, aprendo
la strada a Ciò che deve venire.
Prof. Pardini, caro Franco, e voi tutti sulla
rotta di Leucade, può essere questo un aspetto del “Bandolo” che cerchiamo o crediamo di cercare? Vi ascolto.
Vito Lolli
"Lasciare la terraferma del senso comune" e "abbandonarsi all'Abisso" significa annullare ogni certezza razionale, ma significa anche predisporre la ragione ad accogliere rivelazioni che vengono dall'Oltre: nel che consiste, da sempre la creatività. L'esperienza letteraria e dolorosa di Holderlin può essere un'ottima riprova di ciò. Nella sua infelicità, egli assapora l'amaro distacco degli dei, ma per quanto doloroso, quel distacco non è mai dispersione ed il suo mondo continua ad essere popolato dalla divinità. Tra l'Aperto e la Misura (l'Infinito ed il Finito, il Divino e l'Umano) c'è sempre una relazione, tanto che potremmo dire, con Franco Casadei, che "ciò che manca c'é" (verso stupendo, tratto da "Il bianco delle vele", Raffaelli Editore, 2014). O anche che "ciò che c'è non c'è": l'armonia dei contrari funziona ugualmente. L'intelletto dell'uomo non può pensare, né nominare la divinità, ma questa si può rivelare al suo intelletto con le immagini ed i pensieri, i suoni e le parole che vuole. Saranno comunque linguaggi e pensieri sconosciuti, e saranno rivelazioni di prima mano, a prescindere dall'uso corrente che se ne può fare e se ne fa. Il linguaggio aurorale lo troviamo senza dubbio alle origini storiche del pensiero e della cultura occidentale, ma non lo troviamo solo là, se è vero che le origini sono archetipiche: il che vuol dire che non sono storiche e che sono sempre nell'attualità. Più che "originarie", le origini sono "originanti", per questo la creatività è sempre presente nel corso della storia. Purché il poeta e l'artista sappiano "lasciare la terraferma del senso comune" e "abbandonarsi all'Abisso", accettando di morire (ma di morire realmente) nella razionalità.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Leggi come risposta: "N.PARDINI "LA MIA LEUCADE"" sul mese di marzo.
RispondiEliminaNazario