giovedì 19 marzo 2015

VITO LOLLI: "IL DESTINO DELLA POESIA DI HOLDERLIN"



Vito Lolli collaboratore di Leucade




 Friedrich Holderlin




Il destino della poesia di Holderlin

Un saluto a Lei, prof. Pardini, a Lei che, gentilmente, mi ha dato spazio in quella che chiama la sua isola e indirizza il cammino poetico verso Leucade.
Conosco la Lefkada odierna e c'è almeno un luogo che è rimasto capace di mostrarsi fuori dai segni di qualsiasi storia, se non la silenziosa ed evocativa presenza di un vecchio faro in disuso sopra le poco visibili pietre perimetrali dell'antico tempio di Apollo: è il promontorio che costituisce la punta meridionale dell'isola, la meravigliosa scogliera verticale dove la tradizione colloca la scena del suicidio di Saffo. Lì è possibile l'ascolto del vento e del moto ondoso fino a dissolvere la sensazione del tempo.
L'isola poetica è raccolta, separata dal mare ignoto e sempre rischioso. Chi vuole raggiungerla deve rinunciare ad ogni approdo e ad ogni stabile stazionamento. Deve lasciare la terraferma del senso comune e delle illusioni di conoscenza. 
Chi risponde alla chiamata del poetare deve misurare le sue forze nella solitudine del Mare Aperto, insondabile ed  incommensurabile.
Oggi dobbiamo chiederci se siamo ancora capaci di poetare, di abbandonarci all’Abisso senza più chiamare “poesia” il continuo percorrere con rotte sempre più numerose la medesima superficie, il compiaciuto “…riandare i sempiterni calli…”. Non sappiamo più nulla del Dio e dei Divini, e restiamo indecisi nei loro confronti; non sappiamo morire, e quindi non sappiamo parlare, se non in modo solo sempre più tecnico; non conosciamo il dolore, se non nella forma dell'impedimento e della disperazione senza nome: abitiamo così in una terra straniera.
Il quesito è uno solo. Radicalmente posto da una nota di Heidegger nel prologo della seconda edizione della sua "Introduzione alla Poesia di Holderlin": "Ancora oggi noi non sappiamo ciò che sono in verità le poesie di Holderlin, nonostante i nomi di "elegia" e di "inno".
Quando e come saremo in grado di prendere sul serio questo avvertimento? E se il segnale di questo salto definitivo in Mare Aperto fosse la consapevolezza che dopo la poesia di Holderlin siamo ormai soltanto una superficie, senza ulteriore profondità possibile ad un abitare, il nostro, che non è più all'altezza del nostro essere essenziale?
…"Invano nascondiamo il cuore nel petto,
      Invano fermiamo ancora l'animo - noi, maestri e allievi.
  Chi potrebbe impedirlo? chi potrebbe vietarci la gioia?
      Giorno e notte, un fuoco divino ci spinge
  Ad aprire la via. Su, vieni! guardiamo nell'Aperto,
       Cerchiamo qualcosa di proprio, sebbene sia ancora lontano.
Resta ferma una sola cosa: che sia mezzogiorno,
o che si vada verso la mezzanotte, permane una Misura,
A tutti comune, ma a ognuno è assegnata anche una propria,
E ciascuno va e arriva dove gli è possibile"…
("Pane e Vino", 6)
Possiamo noi, ora, pensare l’Aperto come Misura, cioè la Misura come l’Aperto? Non è forse l’Aperto ciò che non giunge mai alla parola del pensiero? E non è forse il sentimento della delimitatezza del mondo che, nel suo concedersi alla dicibilità, fa del sentimento del Mistico, privo di oggetto e di parole, il sentire che il mondo è, che abbia cioè luogo nell’essere e non mai nella decadenza del valere? Non siamo sospinti in modo definitivo verso il luogo d’origine di quell’Ethos poetico che genera la prima Parola del pensiero occidentale, l’Apeiron in cui Aperto e Misura sono segretamente pronunciati in modo indistinto? E quell’Ethos non fu pronunciato da Eraclito (“Ethos anthropoi daimon”) come essenza poetante dell’abitare umano in un reciproco richiamo col Divino?
Dovrà passare molto tempo prima che versi come questi divengano dolci e sacri. Ebbri del nostro progresso risolto nel dominio matematico delle cose, ci sforziamo di proseguire lungo la strada maestra della nostra civiltà, via lastricata di valori: cultura, politica, scienza e tecnica, religione, pace, economia, ambiente, la filosofia stessa nella forma odierna di etica pubblica, “bioetica” ed epistemologia. In questa euforia, quale Odisseo riuscirà a infilzare tutte e dodici le scuri con la sua freccia e colpirci liberamente coi primi versi di un tardo abbozzo di Holderlin, Mnemosyne?
“Siamo un segno che non indica nulla,
Siamo senza dolore, e abbiamo quasi
Perso il linguaggio in terra straniera”

La Poesia, l’Ethos originario, impone ora il silenzio dell’attesa. Il Mistico, l’essenza stessa del linguaggio, il suo enigma originario, il segreto della sua origine, è l’appello dell’Aperto al quale non può non seguire un nostro tentativo di risposta, ma non ci aiuta nessuna parola. Ne abbiamo tante, ma non quelle adatte alla chiamata silenziosa dell’essenza originaria dell’Ethos.
Se la terra straniera è quella in cui si è fuori della propria, se è quella in cui avviene lo spaesamento e l’oblìo dell’essere non rivela che “vivere la morte” e “morire la vita” non sono un gioco di parole; se continuiamo a fare e titolare i nostri discorsi e i nostri versi senza misurarci con una profondità che nominiamo soltanto, senza lasciare la superficie, vuol dire, forse, che, nella strada che abbiamo dinanzi, il momento in cui Holderlin sia l’unico interlocutore è ancora lontano. Non ci è ancora concesso, questo momento. E, se questo momento non è concesso, noi non possiamo più poetare senza restare nell’asfittico e illusorio già-poetato, che vuole e crede di farsi estraneo all’annuncio, già avvenuto, della volontà di potenza in cui la profondità è bandita nel dominio della superficie e non può, dunque, poetare l’Oltre.
Solo il confronto con l’immersione nella poesia di Holderlin può preludere ad un canto capace di accogliere l’Istante e riascoltare le possenti parole prime del nostro linguaggio aurorale per autoaffermarsi come ulteriore, aprendo la strada a Ciò che deve venire.
Prof. Pardini, caro Franco, e voi tutti sulla rotta di Leucade, può essere questo un aspetto del “Bandolo” che cerchiamo o crediamo di cercare? Vi ascolto.

Vito Lolli



2 commenti:

  1. "Lasciare la terraferma del senso comune" e "abbandonarsi all'Abisso" significa annullare ogni certezza razionale, ma significa anche predisporre la ragione ad accogliere rivelazioni che vengono dall'Oltre: nel che consiste, da sempre la creatività. L'esperienza letteraria e dolorosa di Holderlin può essere un'ottima riprova di ciò. Nella sua infelicità, egli assapora l'amaro distacco degli dei, ma per quanto doloroso, quel distacco non è mai dispersione ed il suo mondo continua ad essere popolato dalla divinità. Tra l'Aperto e la Misura (l'Infinito ed il Finito, il Divino e l'Umano) c'è sempre una relazione, tanto che potremmo dire, con Franco Casadei, che "ciò che manca c'é" (verso stupendo, tratto da "Il bianco delle vele", Raffaelli Editore, 2014). O anche che "ciò che c'è non c'è": l'armonia dei contrari funziona ugualmente. L'intelletto dell'uomo non può pensare, né nominare la divinità, ma questa si può rivelare al suo intelletto con le immagini ed i pensieri, i suoni e le parole che vuole. Saranno comunque linguaggi e pensieri sconosciuti, e saranno rivelazioni di prima mano, a prescindere dall'uso corrente che se ne può fare e se ne fa. Il linguaggio aurorale lo troviamo senza dubbio alle origini storiche del pensiero e della cultura occidentale, ma non lo troviamo solo là, se è vero che le origini sono archetipiche: il che vuol dire che non sono storiche e che sono sempre nell'attualità. Più che "originarie", le origini sono "originanti", per questo la creatività è sempre presente nel corso della storia. Purché il poeta e l'artista sappiano "lasciare la terraferma del senso comune" e "abbandonarsi all'Abisso", accettando di morire (ma di morire realmente) nella razionalità.
    Franco Campegiani

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  2. Leggi come risposta: "N.PARDINI "LA MIA LEUCADE"" sul mese di marzo.
    Nazario

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