domenica 1 marzo 2015

P. BALESTRIERE E N. PARDINI SU: "INVENTARIO DI SETTEMBRE" DI U. VICARETTI

Pasquale Balestriere collaboratore di Lèucade

Nazario Pardini collaboratore di Lèucade

Umberto Vicaretti collaboratore di Lèucade


Prefazione
a
Umberto Vicaretti: Inventario di settembre. Edizioni Blu di Prussia. Piacenza. Dicembre. 2014. Pg. 128


Vedi, mia cara,
             il giorno è stato un lampo
abbacinante, luce incorruttibile
(sospese ed esitanti le clessidre,
immemori e incolmabili di baci).
(…)
Ma vuota è la faretra e il foglio è sabbia,
disabitato alveare (Non chiedermi prodigi).


Scrivere sulla poesia di Umberto Vicaretti significa “de Poesia loqui”; sì!, significa parlare di una Poesia con la “P” maiuscola: Poesia robusta, intensa, umana, sociale in cui il verso abbraccia con generosità ritmica ogni impulso emotivo, ogni slancio vitale. Una Poesia la cui architettura metrica combacia, simbioticamente, con le allusioni significanti del dettato interiore. Di una interiorità tutta protesa a leggere il mondo nelle sue varianti e nei suoi accostamenti al vivere e alle meditazioni che ne derivano. E già nel verso incipitario della citazione testuale, che fa da prodromico annuncio, da antiporta alla plurivocità di questo “poema”, l’autore preannuncia il focus della sua frequentazione letteraria; la tematica che costituisce il leitmotiv, la carica dei suoi intendimenti di vita, d’amore, di sogno, e di spiritualità. Inventario di settembre, il titolo. E tre i sottotitoli in cui si dilata il poema: La rotta, Dorme la mia città, Canti d’amore. Messaggio proteiforme, di polisemica significanza, che indaga sul nostro essere ed esistere, con una resa di grande tensione orfica, anche, dai toni epico-lirici; di una tensione che volge, con guizzi creativi e ampio ardore allusivo di metafore, a sottrarre la bellezza del poièin alle voraci fagocitazioni del tempo. Di un tempo che tutto divora e lascia solo la possibilità di mutare il presente in un ricordo, in una spinta continua al repêchage. Ma tante le occasioni ispirative del Nostro: il memoriale, il panismo esistenziale, l’amore cosmico, la filosofia virgiliana del “sed fugit interea, fugit irreparabile tempus” (Virgilio, Georgiche III, 284), il sociale, e le plurime tematiche storico-culturali: “stremato e affranto muore il girasole”; “Ora contiamo i giorni come i grani/ consunti d’un rosario…”; “… sfiorate le promesse/ lasciate ad ossidare, come a ottobre/ le foglie a questo vento”; “Ora il tempo è finito e, nel silenzio,/ i bambini di Cana in mano serrano/ sogni appassiti/ e piano vanno via”. Così si esprime il poeta in una piena confessione dettata dalla coscienza della nostra precarietà; della inconsistenza e inaffidabilità di un giorno che lascia abbracci irrisolti, parole non dette, atti incompiuti; e anche se il poeta, reattivamente, si affida alla luce di un’ora nuova nel tentativo di assegnare validità e continuità ai momenti fulgidi della vita; a quei frangenti che la mente umana pensa, o vuole pensare eterni: “Eppure accenderemo un tempo nuovo/ con le albe seminate ai nostri rami…”, pur tuttavia “Non chiedermi prodigi”, dacché siamo umani e in quanto tali destinati a vivere fra cose caduche, e in spazi ristretti da cui invano proiettiamo sguardi verso orizzonti incolmabili per la nostra miopia di esseri terreni destinati alla sconfitta.      
       Tante le configurazioni naturali di grande supporto intimistico. Di grande forza visiva a significare, con non comune energia autoptica, deus absconditus, le tappe della via crucis di una storia: girasoli, foglie, ottobre, questo vento, fiori e voli, un lampo. Della storia di noi uomini, di noi esseri fatti di un impasto terra/cielo; destinati a vivere piedi a terra e sguardi al sempre in questo dicotomico esser(ci), in questo dicotomico tormento pascaliano, irrisolto e irrisolvibile.    
       Sì!, ci sarebbero rimedi a questa carenza di risposte ai perché delle sottrazioni; ma il poeta, di solito, non si accontenta di un pedissequo abbandono all’Essere Supremo; alla quiete di un’anima in pace coi dilemmi escatologici. Qui c’è indagine, c’è ricerca, c’è dolore, martirio di un’analisi interiore volta ad un vero irraggiungibile; analisi foriera di dubbi e di inquietudini umane, analisi di un essere cosciente di lasciare questa sacrosanta esperienza, che tanto bramerebbe portare con sé en haut, forse in un cielo che sa tanto d’azzurro e dove gli uomini possano ripescare la loro innocenza primordiale.
       E non disdegna, il poeta, abbandoni di sapore bucolico, o visioni notturne di slanci d’amore di un tibulliano “hoc mihi contingat”:

Roma di notte trattiene il respiro,
(…)
All’angolo del Corso, inanimate
eppure vive, sostano alle porte
sagome senza nome né memorie
avviluppate in cumuli di cenci (Notturno a Roma),

per tornare, però, a quella venatura di malinconia che disdice abbracci; che infilza e assembla, col suo filo trasparente, le perle di questa silloge in una collana preziosa per vis creativa:

Disdico abbracci. Niente
lega il mio sangue ormai a questa terra,
mentre dipano il filo che mi porti,
come una volta Roma, oltre le Gallie,
antiche rotte,
             in cerca della rosa (ibidem).

W. B. Yeats (1865-1939), Nobel 1923, autore di molte raccolte di poesia – da I cigni selvatici a Coole, che richiama il mito dei cigni descritto da Platone nel Fedone -, nel trattato estetico Una visione avverte “nel poeta una presenza, che è percepita non dall’osservazione precisa ed attenta dello scienziato o dello studioso dei fatti, ma dal risonare di un’eco all’interno di colui che ascolta le sue parole”: egli chiama questa rievocazione “phantasmagoria”, di cui “il poeta è parte attiva e noi lo adoriamo perché la natura si fa intelligibile e diviene essa stessa parte del nostro potere creativo”. E c’è qui tutta la natura con il suo simbolismo panico. Una natura che il Nostro fa sua, abbandonando l’anima al vagolare fra mirti, fronde e girasoli, in attesa di un suo rientro carico di colori e profumi a rivestire frammenti del suo sentire. Un sentire bisognoso di voli, di fughe su ippogrifi dalle aporie di un mondo di vetri, sterpi, e ferraglie:

       Anch’io sull’Ippogrifo salgo,
rapito viaggiatore clandestino.
Lascio alla terra vetri di bottiglia,
sterpi bandoni plastica ferraglie.
Salpiamo verso le isole felici
tessendo rotte favolose e audaci
tra le baie delle Orse e i mari della luna (Il volo dell’Ippogrifo).

Volare “tra le baie delle Orse”. C’è il sogno, questo onirico bisogno di sottrarsi alla morsa di una terra che non sa trovare un giusto assestamento; alla morsa di un terreno troppo terreno, di un mortale troppo umano. La voglia impellente di uscire da questa trappola del dove e del quando; del prima e del poi; per questo, gettare un’àncora in un porto sicuro, lontano da burrasche, aperto ad orizzonti senza limiti può essere un buon ancoraggio:

Vorrei gettare l’ancora alla fonda,
ma ferme ed inflessibili clessidre
chiamano al tempo, all’ossido, alla terra (ibidem).

Ma la terra chiama, chiama il tempo, chiama la vita a riflettere, a pensare, ad agire, a concludere indifferenti alle nostre stanchezze. Tanto vale rifugiarci in quelle memorie che sanno tanto di feste natalizie, familiari, di abbracci di seta, di fughe giovanili, di sogni e di speranze di tempi in cui “bevemmo acqua di neve ai fontanili”:

Ecco torno alla casa di mio padre
al suo silenzio, al suo sorriso mite.
Torno alla fresca spuma di quegli anni
che in cima ai sogni misero radici;
bambini in corsa, il vento tra i capelli,
corruschi e ignari al fuoco del domani (Al gelo di Natale).
              
È lì che Vicaretti trova la pace. È in quei ritorni che trova un rifugio dal sapore di nirvana edenico, di amore oblativo. E immagini feconde di slanci emotivi s’impennano, gridano la loro esistenza, per tornare a vivere. Tanto forti il sogno e la memoria che si fanno realtà, nuova vita in questo tentativo di sconfiggere il tempo. D’altronde è proprio la memoria l’unico mezzo per sfidare la morte. Ma si sa che il ricordo pesa, dacché è proprio quello il segno evidente del logorìo del nostro esistere:
             
             A quel Natale antico,
perduto agli anni, a questa pena vivo (Al gelo del Natale).  

       Mai si scade in una lamentatio becera e lacrimevole, in un piangersi addosso; ed il riaffiorare di antiche presenze e di incancellabili affetti è incanalato in argini strutturali di alto spessore tecnico-metrico; spessore in cui l’endecasillabo, orchestrato in maniera sapiente in tutte le sue varianti, si offre ora come sinfonia wagneriana ora come romanza pucciniana, rafforzato e potenziato, nella sua resa musicale, da misure di settenari o quaternari o misure più brevi, ottenute dal frangimento dello stesso endecasillabo. Una grande esperienza tecnica di cui Vicaretti dimostra di essere in possesso e di cui si avvale per tradurre i sentimenti  in importanti significanti metrici. Un’armonia che accarezza i contenuti, li prende per mano, e li dispone in una ragnatela di nessi di alto spessore lirico. Anche quando il messaggio si fa più tragico, più melanconico per questioni storico-sociali che rattristano il poeta, il Nostro non eccede in commenti oltre le righe. Narra, certamente con tanta partecipazione, ma narra e appunta situazioni e fatti. Momenti veramente toccanti sono quando torna alla sua città (L’Aquila) dissestata dal terremoto:

Vedi, torno alla mia città,
alle sue strade dai perduti passi,
ai campanili senza più canzoni.

Dorme la mia città,
dorme la mia città profondamente.
Larga come la notte ha una ferita
che artiglia ancora e ancora ancora brucia (Dorme la mia città),

o quando tratta la storia della giovane Aisha, 13 anni, lapidata a Chisimaio - Somalia:

Stringe adagio il tuo capo,
perse le mani dolenti,
                    tua madre,
lieve sfiorando i capelli tuoi crespi,
dolcemente raccolti sulla nuca
con fermagli di porpora e carminio ( Stabat Mater),

o quando ricorda le tragedie dei campi di sterminio nazisti, come quello di Buchenwald:

Anche qui cresce l’erba a primavera,
forse perché i più piccoli non sappiano
che a volte sono i semi dell’assenza
a germogliare invece dei rosai (Sale azzurro il fumo dei camini),

o quando, addolorato, si rivolge alla madre terra, alle sue ferite, prendendo spunto dal Cantico delle creature di San Francesco:

Se canto l’Orsa, Orione, e l’Ippogrifo,
Terra, mia Terra, tu non condannarmi:
di te non ho scordato le ferite
né il tuo martirio in nuvole di fuoco (Di te non ho scordato),

o se si commuove per i bambini di Cana:

Eppure a Cana ci fu un tempo in cui
la porpora odorava di prodigi
e il sangue dei bambini era rubino
acceso tra le stelle della notte,
miele redento e intatto alle tempeste.
Oggi le madri affrante, in Galilea
(Getsemani di gridi aggrovigliati),
bevono calici di sale e assenzio (I bambini di Cana),

o, infine, quando rivela tutta la sua sapientia poetica nel rielaborare, con acribia intellettiva, il Trittico Minore di un Vangelo Apocrifo:

1 – Pietro

Per questo a te, che già m’hai perdonato,
chiedo perdono.
             E ti perdono anch’io. 

II – Lazzaro

Che abbia una riva tutta luminosa
un chiaro approdo senza più dolore -

III – Tommaso

Tutti mentimmo, ma per solo amore:
loro, per abbracciarti un’altra volta;
io, per carezzar le tue ferite –
Sorrise il Cristo mentre lo stringeva:
- Lo so, Tommaso.
                   Metti qui la mano –

Una plurivocità d’intenti che attinge la linfa dalle più svariate occasioni umane. L’anima di Vicaretti è talmente profonda che vorrebbe contenere tutto il mondo, le sue giustezze e le sue ingiustizie, le sofferenze e l’amore. Quel dicotomico dualismo fra Caino e Abele di cui è impastata la vita. Ma sa anche, il poeta, che è un’utopia portare il cielo in terra, perché conosce i limiti degli uomini e le loro umane mancanze. E sa che non trovano forze giuste a che le loro defaillances possano essere inficiate in questa nostra “società liquida” (Zygmund Bauman).
       E Vicaretti assimila ogni cosa, ogni fatto, ogni pur piccolo elemento della realtà; ogni attrito esistenziale trova posto nel suo animo generoso. Ed è lì che i vari segmenti di un’avventura restano a decantare: s’imbevono dei ritmi cardiaci dell’autore, delle sue vibrazioni emotive, per offrirsi poi nuovi e rigenerati alla pagina. Per declinare un’orchestrazione verbale, onesta, di abbracci e di assenze, di luci e di ombre in un realismo lirico di convincente e contaminante impatto poetico, connaturato all’uomo: “La poesia è connaturata all’umanità: il vero poeta assimila e trasfigura, lo scriba si limita a copiare” (Thomas Stearns Eliot).
       Ma è l’amore per la vita che alfine trionfa in questi versi. Motivo trattato con tanto sperdimento emotivo da trasmettere quel senso di pace di cui il poeta va in cerca. Una pace di  valori familiari, di ritorni di affetti, di amorosi sensi, che fanno da punto luce alle aporie del mondo. Sì!, la sacralità della vita e il canto all’amore dominano alfine. Quegli insostituibili beni per i quali vale la pena vivere. Vale la pena dare tutto noi stessi per consegnarli ad una poesia che urli, con spirito foscoliano, la loro validità e la loro continuità nel tempo. Ad una poesia che si proponga di vincerlo, quel tempo, proiettandosi oltre la misura della caducità umana:

Perciò ti prego, cara, non smarrirti
dentro il lampo dell’ora che si sfalda.
 Torneremo ai crocicchi delle stelle
a sfogliare ventagli di conchiglie:
tu, scampata Euridice che risali
a un nuovo giorno ed io, rinato Orfeo,
che i passi tuoi lievi precedo e canto,
senza voltarmi canto gli occhi tuoi (Canzone d’Orfeo).

Nazario Pardini


Umberto Vicaretti
INVENTARIO DI SETTEMBRE

Postfazione

Con grande gioia ho accettato l’invito del poeta Umberto Vicaretti a redigere la postfazione alla sua seconda raccolta di versi, la cui pubblicazione era stata peraltro da me caldamente e ripetutamente sollecitata e  auspicata. Ma, dopo la trepida emozione  procuratami dalla lettura delle liriche, mi sono chiesto: ”Ed ora come faccio a dire tanta ricchezza di affetti, tutta questa calma esuberanza creativa e la totale, e a volte sofferta, adesione alla vita? Come la sempre  risorgente speranza? Come le sfumature, le allusioni, le suggestioni? Come la tinnula voce del cuore e le vibratili sonorità di un canto così  terso e luminoso? E l’eco della memoria e il fervido assalto all’ineffabilità mistico-misterica della poesia?”
Poi, per fortuna,  la penna ha preso a scrivere, con il tratto netto e deciso di una nota assolutamente e gioiosamente libera,  e ogni facoltà intellettiva  si è rituffata nel grande mare poetico dello scrittore marsicano; quel mare che intride il lettore di grazia e soavità, di tenerezza e di forza, di malinconia e di speranza,  e lo tiene del tutto, nel senso che -con dolce tirannia- non gli concede distrazioni, gli fa trattenere il respiro nell’attesa che  il momento poetico trovi la completa e quasi divina incarnazione, il suo magico compimento.
Più nello specifico, questo tripartito Inventario di settembre, che si offre come prezioso scrigno di sicura e alta poesia, invita  -già dal titolo- alla dovuta riflessione e cautela esegetica, consegnandoci una prima chiave interpretativa. “Inventario” infatti è parola di ampio significato, che include, in felice e variabile ambiguità, i concetti di ricerca, rilevamento, classificazione, enumerazione, descrizione, valutazione; “settembre”poi  è il mese dell’equinozio d’autunno, del tramonto dell’estate, ma allude anche all’autunno della vita: stagione di raccolta, certo,  però anche occasione di bilanci, per mettere ordine nei conti. Da questi emerge un attivo radioso in termini di umanità e, quel che più conta, di un’arte piena e matura, la quale ha il magnifico pregio di un raggiunto e dosato equilibrio, che ha quasi valenza identitaria, tra νος  e  λγος,  tra il pensiero (sospeso tra  filosofica saggezza e  fremiti di passione) e la sua espressione, cui si piega e obbedisce una ricchezza e padronanza verbale in grado di offrire al lettore un prodotto artistico inesauribilmente accattivante, vero, genuino,  perché genuina e vera è la  commozione di questo mirabile creatore; e anche bella e intensa, come è la sua voce  dai toni ora teneri e lirici, ora vibranti ed epici, ora assorti e meditabondi.  E tutto questo perché Vicaretti, come i poeti autentici, sta saldamente nella vita, l’abita con partecipazione, consapevolezza e un pizzico di dolceamara ironia, ne sa la precarietà, il dolore, la violenza, ma ne testimonia anche il fascino e l’amore; e la vive come un viaggio, un esodo verso la Terra Promessa (La Terra irraggiungibile) in un tripudio di affetti -specialmente familiari (bordeggiano il mito le figure del padre e della madre, vivida e soave appare quella di Maria)-  spesso segnati da graffiante sofferenza; di luoghi consegnati all’amorosa e vigile memoria di colui che, bambino, fu  superbo re dei vicoli e del vento; e di altri luoghi che,  visitati dalla furia di belve umane, rompono gli argini del cuore e reclamano la voce dolente e solidale del poeta (Fiori di Londra, Fiori di Madrid…) ; di personaggi e vicende, di istanze sociali e civili che, trascurati dalla futile e gretta realtà odierna, cercano -e trovano per merito di questa sensibilissima penna - degna ed elevata espressione.
In Vicaretti ogni verso è uno svelamento, una realtà poetica in sé e che quasi vive, come pure potrebbe,  per sé, una corposa e densa creazione, in cui si aggrumano insospettate pregnanze semantiche e indicibili venustà. E ciò perché egli, per lunga militanza letteraria e artistica, è perfettamente consapevole  di quanto sia necessario, non solo in poesia,  il labor limae  o, quanto meno, il tentativo di dire fedelmente l’attimo dell’illuminazione, della scintilla creativa: per ragioni di serietà, perché all’arte apollinea non si addicono improvvisazione e velleitarismo.
Per finire, una confessione: considero Umberto Vicaretti poeta di grande e indiscutibile validità. Tra i viventi uno dei migliori, superiore a tanti già famosi i quali, rispetto a lui,  possono vantare  il grande privilegio di avere alle spalle una casa editrice di grido. E la sua poesia incarna quella classicità -sintesi, armonia,  misura- che è degli spiriti eletti e che il Flora definisce come  morale e verbale; che non conosce barriere spazio-temporali, né scuole o salotti e conventicole letterarie;  che, insomma, canta la vita nella sua perfetta nudità e, perciò, in tutto il suo drammatico e inconfutabile splendore. Dove s’annida la fragranza della  rosa,  primo fiore di un’autentica raccolta di fiori.
                                                                                                  Pasquale Balestriere




                                                                         


7 commenti:

  1. Questa silloge di Umberto Vicaretti mi fa sognare e mi rimescola la ragione l'anima e l'ansia di vivere. Aggiungiamo pure lo spleen, per il desiderio sollecitato da un sublime sentire e da una versificazione splendida di liriche che danno gioia e brividi, dolcezza e passione, partenze e ritorni. Per il desiderio di volare sull'ippogrifo e per la consolante certezza del ritorno alla casa del padre. E per le metafore espresse con versi scolpiti tesi a cogliere il senso della vita e dell'amore:"Ma vuota è la faretra e il foglio è sabbia, / disabitato alveare". Mi piacerà ancora appigliarmi alle citazioni della meravigliosa esegesi di Nazario Pardini, autore di una splendida prefazione a questo INVENTARIO DI SETTEMBRE. Paesaggi di città e di "bucoliche" visioni arricchiscono la già suggestiva silloge, perché essi non sono semplici paesaggi descrittivi, ma incarnazione di un pensiero e di un mondo poetico mai schematico e mai esteriore, ma insito nell'intimo animo del poeta, che vuole lasciarsi dietro i detriti e le scorie di un mondo in disfacimento, per andare oltre:"Lascio alla terra vetri di bottiglia, (e ci ricorda Montale!) "sterpi bandoni plastica ferraglia./ Salpiamo verso le isole felici". Fino a toccare vette altissime, anche attraverso paesaggi veri e tragicamente infelici, che hanno il sapore del tormento del rimpianto e del dolore, quando sente il dolore della sua città ferita a morte dal terremoto di qualche anno addietro:"Dorme la mia città (....) Larga come la notte ha una ferita / che artiglia ancora e ancora ancora brucia". Non ho ancora, ovviamente, il libro di Umberto Vicaretti, ma bastano le citazioni riportate da Nazario Pardini (che ho ampiamente saccheggiato) e leggere la postfazione profonda e superba di Pasquale Balestriere, per sapere che si tratta, qui, di una "Poesia con la maiuscola". E' poco complimentarsi con l'autore e con le esegesi di due maestri di critica e di poesia.

    Umberto Cerio

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  2. Devo di cuore ringraziare ancora una volta gli amici Nazario Pardini e Pasquale Balestriere per avere dato alla mia silloge, con i loro magistrali contributi critici ed esegetici, un “imprimatur” straordinario e impagabile, che, al di là del valore oggettivo delle mie composizioni, ne nobilitano e ne impreziosiscono il contenuto, validandolo certamente ben oltre i miei personali meriti letterari. La loro adesione alle ragioni del mio poièin, altresì, adesione che spesso oltrepassa il confine puramente artistico per farsi corrispondenza sentimentale e affettiva, mi onora e mi gratifica oltre ogni possibile dire. Così come mi onora il commento dell’amico Umberto Cerio, al quale sono grato e debitore per le parole alate che mi riserva, espressioni certo suggeritegli da un benedicente dèmone del Parnaso, dove Umberto gode di “entrature” esclusive come inamovibile ambasciatore di poesia…
    Umberto Vicaretti

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  3. Scritti di notevole competenza critica. I miei complimenti ad ambedue gli esegeti.
    Prof. Angelo Bozzi

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  4. Due grandi penne per presentare una voce poetica tra le più vibranti e significative dei tempi attuali. Endecasillabi a iosa e musicalità struggente per parlare della precarietà dell'esistere, con un speranza mai doma rivolta al cielo, ma senza "pedissequo abbandono all'Essere Supremo". Una macerazione interiore, tesa alla ricerca dell'umano e della "primordiale innocenza". Da qui la memoria delle radici, una memoria non imbalsamata, ma viva e vegeta, un Eden perduto, ma pur sempre a portata di mano. "Inventario di settembre" ce l'ho qui, sulla mia scrivania. Non ho ancora iniziato la lettura, ma lo farò quanto prima, visto che dovrò occuparmene per una presentazione. Non vedo l'ora di immergermi in questo formidabile canto della vita, in questa poesia dell'anima che so assolutamente priva di intimismo. Auguri a Vicaretti e complimenti ai suoi due recensori.
    Franco Campegiani

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  5. Tutto il mio grazie, caro Franco, per questa tua graditissima testimonianza. E grandemente mi gratifichi, prima ancora di “immergerti” in quello che generosamente promuovi a “formidabile canto della vita”, e col solo sostegno dei rimandi e delle note critiche di Nazario Pardini e di Pasquale Balestriere, facendomi ampio credito di bella poesia, con giudizi molto lusinghieri (e anche molto temerari…). Sottoscritti da una penna come la tua, per me assumono un valore davvero unico. Spero che tutto ciò non venga però vanificato dalla ‘prova del nove’, quando cioè ti accingerai a leggere (senza gli amichevoli ‘suggerimenti’ di Pasquale e di Nazario…) il mio librino.

    Umberto Vicaretti

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  6. Umberto Vicaretti - “Inventario di settembre” - Blu di Prussia – dicembre 2014

    Ieri, anche se il tempo non prometteva niente di buono, sono andato a vedere un "vernissage" di Umberto Vicaretti. E mentre guardavo, attentamente, le sue preziosissime tele tra "gouache", acquetinte, tempere ed acquerelli, i colori (i versi) si espandevano a dismisura nell'aria ed i profumi, intensissimi, spargevano aromi dappertutto.
    Vicaretti disegna, dipinge, con tecniche diverse ma sempre essenziali, le sue creazioni con strumenti efficacissimi ed accuratamente disposti sulla tela; e gli effetti di questo lavoro rigoroso divengono sorprendenti principalmente per un sereno godimento del lettore.
    In questa "exposition de peinture" segnata da un cromatismo molto particolare, parlerei di impressionismo mentre immagino vetrate colorate, cattedrali assolate e mani che si innalzano verso il cielo. E' come se tutti noi fossimo "im traum".
    Pertanto non accennerò ai colori (versi) di Vicaretti.
    Li cercherò con accuratezza. Cercherò di capirli e legare le emozioni che si accavallano tra le dita in attesa di scoprire, spiegare e disseminare la sua fertile terra e "humus".
    Vicaretti ha una sua propria "dichtung anschauung" che porta avanti con maestria e delicatezza. E' la bellezza della poesia che semina e realizza.
    Mentre cammino ancora tra le tele di Umberto Vicaretti, ascolto con vero piacere, e legati delicatamente ai suoi colori, i Notturni di John Field ed i voli maestosi di Max Bruch.
    E niente è più commovente!
    A te, caro amico Umberto, auguro lunga vita. Lunga vita.

    Giannicola Ceccarossi

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    1. Molto bella questa trasfigurazione operata da Giannicola Ceccarossi, al quale riesce, per così dire, di trasferire sulla tela e sul pentagramma, in simbiotica comunione con la pittura e con la musica, la resa emotiva di parole, versi, poesia. Solo l’acuta sensibilità di un poeta come lui, infatti (che d’altronde è figlio d’arte, di quel Domenico Ceccarossi grande cornista italiano del Novecento), ha potuto con tanta naturalezza accomunare distinti piani artistici, fondendoli in un continuum esteticamente armonico; una sorta di sinestesia che assembla parola e luce, colore e suono, visione e canto. Davvero grazie, Giannicola, per avere letto con così grande partecipazione e profondità i miei versi, per averne fatto una visione sospesa tra fantasia e realtà, tra desiderio e sogno (“E’ come se tutti noi fossimo “im traum”). E grazie ancora di cuore per quell’augurale e ripetuto “lunga vita” (del tutto ricambiato), che tradisce le radici di un’amicizia e di un affetto puri e veri.

      Umberto Vicaretti

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