Franco Campegiani collaboratore di Lèucade |
Relazione svolta nell'ambito del
dibattito "Poesia... il mondo poetico"
Arte e Artificio
Teatro dei Dioscuri, Quirinale - 5 marzo 2015
Da sempre l'uomo
trasforma e modifica il mondo, ma lo sviluppo abnorme delle tecniche che
abbiamo creato sta oggi rendendolo irriconoscibile. E noi stessi come suoi ospiti. Viviamo oramai, e sempre più vivremo, in paradisi artificiali dove,
a fronte di indiscutibili vantaggi, la verità è uscita di scena. Ed anche la
menzogna è uscita di scena. Magari ci fosse la menzogna, perché la menzogna
presuppone la verità, ma la realtà è che sono entrambe uscite di scena. Sta qui
l'origine di tutti i nostri mali. In pratica stiamo diventando delle macchine.
Vi chiederete cosa
c'entra tutto questo con la poesia e con il mondo poetico, oggetto del
dibattito odierno e del nostro incontro. Ebbene c'entra, se è vero che poesia (poiéin) significa produrre,
con chiara allusione al mondo del lavoro e della tecnica. La stessa parola
latina ars (arte) corrisponde alla
parola greca téchnè (tecnica), e ciò immerge
inesorabilmente le Muse nella problematica tecnologica. C'è tuttavia da dire
che la tecnica, all'origine, aveva valenze opposte a quelle che si sono
affermate successivamente. Quelle
valenze non avevano nulla a che vedere con l'artificio o con la
manipolazione.
Nel suo statuto
originario, la tecnica appartiene all'ordine naturale delle cose. Nasce e si
sviluppa negli orizzonti della natura stessa. Se pensiamo alle strategie, agli espedienti
e agli accorgimenti posti in essere dalla natura, dobbiamo necessariamente
concludere che la tecnica sta nella vita, ed anzi è la vita stessa. Inammissibile
pertanto sfruttare questo termine per giustificare il nostro andare contro la
vita. Téchnè significa mettere le
mani in pasta nei processi creativi del creato. Ebbene, questo non è artificio, non è andare contro natura,
bensì assecondare i disegni della natura, collaborare con i progetti della
vita. Un conto è la tecnica, un altro è la degenerazione della tecnica con cui stiamo
manipolando la natura e la vita.
Ci giustifichiamo
dicendo che il verbo produrre (nella
fattispecie produrre arte, o poesia) significa inventare, dando a questo termine il significato improprio di una
finzione, di una costruzione arbitraria e artificiale della fantasia. Io non
sono d'accordo. Lo sostengo da tempo, ma ora anche nell'ambito di un manifesto
culturale, Il Bandolo, nato da poco,
con oltre cento firmatari tra poeti e artisti diffusi su territorio nazionale.
Che cosa sostiene Il Bandolo?
Sostiene di smetterla con l'eccentricità, con l'autoreferenzialità e con il
narcisismo di un'arte avvitata su se stessa. L'arte deve scuotere le coscienze
e non bearsi vanamente del proprio virtuosismo.
Il riferimento non è
all'arte contemporanea, ma a quel manierismo della modernità che va sotto il
nome di Postmoderno (anche se fra le
due fasi c'è continuità, indubbiamente).
E mi piace contestare l'uso improprio che si fa del termine inventare. Su basi etimologiche lo
contesto, perché inventare deriva da invenire, e invenire significa scoprire,
rinvenire, trovare cose che esistono, cose che sono nascoste, ma che ci sono
realmente e non sono frutto dell'immaginazione, di un esercizio escogitato per
passare il tempo. Poesia è rivelazione,
è nominazione sorgiva delle cose. Ben
venga il gioco, ovviamente, purché sia un gioco costruttivo come quello dei
fanciulli, e non un gioco evasivo come quello dei nullafacenti.
La poesia nomina per
la prima volta il mondo, e sempre lo rinomina per la prima volta, a prescindere
dal secolo o dal millennio in cui viene alla luce. Essa fa nuove le cose, fa
nuova la vita, perché se ne stupisce, ne coglie e ne illumina il valore. La
poesia è verità, è ascolto dell'Essere. Non si può scrivere, né dipingere o
scolpire, senza questa autenticità, senza questo ascolto dell'Essere. So bene,
dicendo ciò, di pormi contro una tradizione millenaria, risalente se vogliamo a
Platone, il quale nella sua Repubblica
pose fuori dalla città ideale i poeti e gli artisti, definendoli filodoxoi, ovvero amanti degli spettacoli
anziché della verità, come a suo parere sarebbero i filosofi. E questo è un bel
pregiudizio.
C'è da dire, a
discolpa di Platone, che in una sua opera giovanile, lo Ione, egli aveva esaltato il canto dei rapsodi, in quanto tutt'altro
che frivoli e divinamente ispirati dalle Muse.
Ma l’antico pregiudizio greco, secondo cui la poìesis, il mythos, sarebbe il campo per eccellenza del soggettivismo umano,
mentre l’epistéme, la verità, si
manifesterebbe nel logos, identificato
con l’intelletto razionale, fu così radicato e inamovibile che permeò l’intero
tessuto della civiltà occidentale fino ai nostri giorni. Il mio punto di vista
si trova agli antipodi di questo assioma, le cui formule non credo fossero
nelle corde del substrato più arcaico della grecità, che fu profondamente
misterico prima dell’insorgere del pensiero metafisico.
Io
ritengo che la realtà si dia così come è al nostro intelletto, senza
manipolazione alcuna, nuda e semplice, soltanto nell’attività mitopoietica, ovvero nella creazione di miti.
La manipolazione della realtà è opera dell'intelletto razionale, non può essere
opera dell'intelletto creativo, che allo stato puro non è che un tramite disinteressato del mistero. Dove
la poesia è l'imporsi delle cose, la ragione è il tentativo di imporre alle
cose il pensiero dell'uomo. Il mito non manipola un bel nulla, la ragione
manipola tutto, perché tende a distinguere e a separare. Essa è sempre
schematica e partigiana, è sempre e comunque doxa, opinione, e vano risulta qualsiasi tentativo di trasformarla
in verità, in epistéme.
E’
giunta l’ora di dire che non c’è nulla di universale nella ragione umana, per
sua natura settaria, particolaristica, mentre l’universalità prende corpo
esclusivamente nella mitopoiesi, nel
mito sorgivo, non ancora decaduto a mitologia.
Non pensiate che sto parlando di spontaneismo.
Sto parlando di innatismo, che è
tutta un'altra cosa. Ci sono valori innati nell’uomo, che soltanto la cultura
creativa ha il compito di rintracciare. La mitopoiesi non è spontaneismo, ma una
facoltà anamnestica, autoanalitica, capace di riportare in vita valori
totalmente dimenticati. Non è memoria storica, che conserva e tramanda eventi
del passato, ma è memoria inconscia degli archetipi: una memoria ancestrale che
vive fuori dal tempo e che per questo è sempre attuale.
L’innatismo dà voce ai principi che vengono dall’oltre e che sono stampati nelle cose,
mentre lo spontaneismo dà voce ai pregiudizi costruiti nel laboratorio storico
razionale. L'arte è innatismo, è rigenerazione,
rinnovamento. E' risposta al bisogno ancestrale degli uomini di capire se
stessi. Ciò che occorre pertanto è uno sforzo generoso di rifondazione del
mito, una reinvenzione possente del senso e del valore della vita. Non è vero
che il tempo dei miti sia finito. Finita è la mitologia, non la mitopoiesi.
Si sono estinte le favole logore e stanche del passato, non la capacità di
sognare, di dar corpo a nuove cosmogonie, a sorgive rivelazioni del significato
o dei significati della vita. E sia pure facendo rivivere in modo nuovo le
favole antiche.
Noi
artisti dobbiamo tornare a farci ispirare
dalle Muse, ovvero dagli Archetipi, aprendo nuovi cicli di passioni e stagioni
culturali. In assenza di ciò resta soltanto la vanità
di sciocchi mestieranti, quali siamo diventati, che pensano a pubblicare
i propri libri, a fare le proprie mostre, a vincere i propri premi, a
promuovere se stessi e i propri affari, le proprie consorterie ed in breve la
propria carriera, la propria affermazione personale, il proprio tornaconto ed
il proprio ego. Annullare l'ego, certo, è impossibile, ma superarlo si può. Come? riconoscendo e
abbracciando il livello più profondo della soggettività. Un conto è l'Ego,
un conto è il Sé.
L'artista, come ogni
altro individuo, e forse più, deve scaltrirsi nella conoscenza di se stesso.
Solo così può migliorarsi e affievolire i danni di un ego tutto proiettato nel pubblico,
ovvero nel lato esteriore delle cose. Quei danni non si evitano facendo ricorso
al Noi (sostituendo l'Io con il Noi), perché in tal modo si resta comunque ancorati all'orizzontalità,
totalmente invischiati nella cultura dell'Apparire. L’individuo non è una
monade, appartiene alla comunità, è un soggetto di relazioni. A partire però
dalla relazione con se stesso. Se si salta questo primo anello della catena
relazionale, salta tutta intera la catena e le relazioni si fanno inautentiche.
E' da sfatare la
leggenda che l'individuo sia sempre e comunque egoistico, che l'individualità
sia sempre e comunque sinonimo di individualismo meschino. Esistono individui
aperti, generosi, altruisti, aperti ai venti dell'universalità. Ciò significa
che l'universale è dentro noi stessi e che non può essere avvilito ai livelli
del pubblico consenso. L'universale è la poesia stessa, è quello che noi
realmente siamo, la nostra identità profonda, la nostra creatività del tutto
singolare. L'universale è la capacità che abbiamo di pensare in originale,
anziché in fotocopia, come purtroppo accade (e ci accade) nella vita associata.
Ed è facendo questo percorso che la cultura, e ancor più l'uomo, si possono
rinnovare.
Franco Campegiani
Trovo meditato e sapiente quest'intervento di Franco Campegiani, solidamente strutturato sotto il profilo logico, ricco di spunti condivisibili, ma soprattutto fecondi.
RispondiEliminaBravo Franco, complimenti!
Pasquale Balestriere
I concetti espressi nella Relazione sono da me tutti pienamente condivisi. Interessante la distinzione tra spontaneismo e innatismo, fruttuoso quest'ultimo per riuscire a scovare in noi i valori innati. Riguardo alla Ragione Umana, che Franco Campegiani definisce “per sua natura settaria, particolaristica”, mi sento di considerare che la ragione, pur essendo oggi in crisi, è l'unico strumento che abbiamo per continuare ad addentrarci sul cammino della Scienza. In questo senso condivido la distinzione: “un conto è la tecnica, un altro è la degenerazione della tecnica.”
EliminaQui a Pisa il compianto Aldo Gargani, richiamandosi a Cora Diamond a proposito di certi valori: bene, male, virtù, saggezza ecc. diceva che non devono essere considerati “come etichette ma come promotori di un discorso che coinvolge, in un unico contesto discorsivo, processi cognitivi, atteggiamenti valoriali, emozioni, sentimenti, immaginazione, linguaggio e memoria. L’etica ha un carattere complessivo e la filosofia dell’etica consiste nel restituire agli uomini i concetti che essi hanno perduto, di cui risultano mutilati. Occorre ritornare ad essere umani.”
Ecco perché la Diamond fa uso dell'immaginazione letteraria, dialoga con i grandi scrittori e con i poeti. E questa è la strada indicata dall'ottimo Franco Campegiani.
Ubaldo de Robertis
Sono grato a Pasquale Balestriere per l'incoraggiamento. L'apprezzamento di persone del suo rango culturale e creativo è a dir poco esaltante. Fa bene sentirsele accanto.
EliminaFranco Campegiani
Ringrazio vivamente Ubaldo De Robertis per il pensiero che esprime. Sostenendo la superiorità del Mito sulla Ragione, non intendo offendere la Ragione, ma la Ragione chiusa in se stessa, incapace di farsi illuminare dal genio trascendente, dall'essere alare, dal daimon, o anche dalla musa che le vive dentro. Un esempio confortante: le pagine scientifiche di Galilei, al tempo stesso opere di alta poesia. Intendo dire che nel Mito, in nuce, c'è tutto: Poesia, Religione, Arte, Scienza, Filosofia, e quant'altro, armonicamente fuse tra di loro in funzione dell'uomo. I guai iniziano quando si scatena la lotta per l'egemonia, capovolgendo il sano rapporto tra i mezzi e i fini. A quel punto ogni branca dello scibile tenta di prendere il sopravvento sull'altra ai danni dell'uomo e della sua armonia. Ringrazio davvero Ubaldo per la possibilità che mi offre di chiarire questo aspetto non dichiarato del mio pensiero.
EliminaFranco Campegiani
Molto bene, Franco, l'intesa è totale!
EliminaAggiungo che, oltre a prendere a modello Galileo, mio mito, si possono trovare esempi validi anche tra gli uomini di scienza contemporanei, cito ad esempio il giovane scienziato Carlo Rovelli. Basta leggere i suoi mirati riferimenti ai versi dei poeti anche quando spiega questioni complesse come quelle inerenti alla Quantististica Gravitazionale. Credo che Rovelli sia in linea con il suo pensiero: nel Mito in nuce c'è tutto! Ieri ricordavo Leonardo Sinisgalli, (amato anche dal nostro Nazario Pardini) che Enrico Fermi avrebbe tanto voluto tra i suoi ragazzi di via Panisperna.
Ubaldo de Robertis
Non c'è una virgola che non approvi in questo discorso di Franco. L'amico lo sa, lo sa bene per esserci tante volte confrontati.
RispondiEliminaQui, però, mi urge dire una cosa, esternargli un'ammirazione della quale voglio fare partecipi anche voi, lettori e collaboratori del blog di Nazario:
"sei stato coraggioso, hai detto ciò che pensi e ciò che senti senza mezzi termini, con una chiarezza cristallina. In ambienti - bene o male - elitari, hai portato l'umiltà, quella con la "u" maiuscola e non la falsa modestia; l'umiltà che rivaluta davvero l'individuo, che si apre - come dici - "ai venti dell'universalità" (basta sentirli: soffiano costantemente dentro di noi)".
Ho un solo rammarico: quello di non aver potuto essere presente: ti avrei fatto un applauso da spellarmi le mani. Con affetto, grazie; da poeta ma, più ancora, a nome della Poesia,
Sandro Angelucci
Il tuo applauso mi è giunto ugualmente, caro Sandro. E posso dirti che sovrastava gli altri, tanto era caloroso. Grazie per la tua vicinanza davvero speciale. E grazie per aver ribadito, nel tuo breve ma luminoso commento, l'equivalenza dell'individuale con l'universale.
EliminaFranco Campegiani
Ma sì, Franco caro, lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti. Non c'è alternativa, tutti i percorsi, quali che siano, devono compiersi. Questo è un nuovo tempo dell'Arca e cerchiamo di cogliere in questa parola il richiamo dell'Archè (non i pezzi di un barcone sui ghiacciai dell'Ararat...) che suggerisce a chi ha orecchie da intendere l'importanza di salvare il salvabile. La Poesia è la prova sperimentale dell'esistenza dell'Uomo: qualsiasi confusione possa essere sovrapposta alla sua Luce, essa è destinata alla dissoluzione, senza traccia alcuna, non appena un raggio di Poesia erompe dall'oscuro. Come è sempre stato e sempre sarà.
RispondiEliminaVito Lolli
Carissimo Vito, se il frutto non cade, il seme non ha possibilità di radicarsi nel suolo per dare nuove gemme e frutti nuovi. Il destino dei padri (io sono nonno addirittura!) è di morire, perché solo morendo hanno la possibilità di rivivere nelle future generazioni. Non parlo di memoria storica (tanto, checché se ne dica, la storia non è maestra di vita), ma parlo di quell'humanitas, di quell'essenza, di quel mito che segretamente e senza clamori muore e rivive da sempre nel cuore degli umani. Grazie per il tuo illuminante contributo.
EliminaFranco Campegiani
Davvero magnifica questa relazione di Franco Campegiani (qui in veste soprattutto, ma non solo, di filosofo e saggista), che mette a fuoco una serie di aspetti e problemi tra i più interessanti dell’attuale passaggio di civiltà. Un’analisi ad ampio raggio, che affronta diverse tematiche ed emergenze, tutte ricomprese in quella dimensione che fa, dell’uomo, non solo il riconoscibile “faber fortunae suae”, ma lo innalza, in armonica concorrenza con la natura, a (cor)responsabile artefice della civiltà intera in cui egli interagisce. E’ questo il quadro in cui storicamente si colloca l’agire umano, da sempre intento a trasformare, modellare, modificare il mondo. Ma, nota Campegiani, “lo sviluppo abnorme delle tecniche che abbiamo creato sta oggi rendendo irriconoscibile il mondo […]. Sta qui l’origine di tutti i nostri mali. In pratica stiamo diventando delle macchine”. Se questo è l’assunto, e se riferiamo la sua valenza all’ambito estetico ed artistico, l’involuzione qui denunciata rappresenta, per Campegiani, una tacita abdicazione che l’uomo compie rispetto alla sua capacità creativa, alla sua sensibilità, quindi alla sua umanità. Perché fare della “macchina” e della “Techné” non il mezzo, ma il fine della conoscenza e della ricerca, tutto ciò rappresenta una resa, l’abbandono, la sconfitta. Proprio in quanto tale, infatti, la macchina non sa “leggere” in profondità la realtà, non è in grado di attingerne l’essenza, di penetrare dentro la verità, di individuare la radice stessa delle cose e degli eventi, ma si limita a fermarsi in superficie, a copiare, replicare la realtà, senza però trasformarla, plasmarla, elaborarla, farne cioè materia viva, lievito per ulteriori e feconde rivelazioni. Gli spunti per approfondire tematiche e problemi sarebbero molteplici, ma l’esigenza della sintesi ci induce a limitare l’indagine all’arte e alla poesia, intese queste come fonti primigenie di creatività e di invenzione. A tale riguardo è chiara la condanna di Campegiani per lo strapotere delegato alla tecnologia, con il conseguente progressivo stravolgimento del significato di ’”homo technologicus”, un tempo perfettamente sovrapponibile all’ “homo faber”, ma oggi sempre più cyber-dipendente e robotico, sempre meno immaginifico e inventivo. E a suo parere è da contestare radicalmente il significato attribuito oggi all’espressione “produrre arte”, o poesia, che secondo l’opinione corrente starebbe a significare, sì, “inventare”, non però nell’accezione di produzione creativa e ri-generatrice, ma “dando a questo termine il significato improprio di una finzione, di una costruzione arbitraria e artificiale della fantasia”. Niente di più fuorviante, sottolinea Campegiani, “perché ‘inventare’ deriva da ‘invenire’, e invenire significa ‘scoprire’, ‘rinvenire’, ‘trovare’ cose che esistono […] e non sono frutto dell’immaginazione”.
RispondiEliminaUmberto Vicaretti (Continua)
Ma proseguire nell’excursus di Franco Campegiani ci porterebbe lontano, dal momento che gli spunti e le implicazioni di carattere filosofico-storico (ma anche estetico, artistico, linguistico…) sarebbero millanta (le Muse, Platone e la sua Repubblica, ’doxa’ ed ‘epistème’, ‘mythos’ e mitopoiesi; e ancora spontaneismo e innatismo, individualismo e universalità, l’ego e il sé, gli Archetipi, le monadi…). Mi limito qui a sottolineare come egli abbia soprattutto voluto, con il suo intervento, metterci in guardia dal rischio di una possibile, per così dire, deriva tecnocentrica della società attuale, deriva che certo risulterebbe del tutto aberrante e disumanizzante. E che abbia voluto responsabilizzare tutti, in particolare i poeti e gli artisti in genere, sollecitandoli ad arginare quel pericolo e fare ritorno a quell’ “universale che è dentro di noi”, così dando il decisivo contributo alla rinascita di una società genuinamente antropocentrica, aperta alle più nobili relazioni interindividuali: “Noi artisti dobbiamo tornare a farci ispirare dalle Muse, ovvero dagli Archetipi, aprendo nuovi cicli di passioni e stagioni culturali”.
RispondiEliminaSi tratta di parole, proposte, scenari di grande impatto ideale. Prezioso canovaccio per il manifesto di un nuovo umanesimo.
Umberto Vicaretti
Un poeta e un umanista come Umberto Vicaretti non poteva non cogliere il nucleo centrale del pensiero da me espresso: l'esigenza ossia di un nuovo umanesimo che sappia contrastare gli eccessi e le involuzioni della robotizzazione in atto, facendo perno sullo sviluppo delle facoltà creative. Dove "creatività" significa capacità di cogliere l'"universale che è in noi". Un umanesimo pertanto "autocritico" ed "autocentrico", come io amo dire, che sappia contenere i pericoli di un "antropocentrismo" degenerato, inteso come dispotismo dell'uomo nei confronti del creato. Non posso che essere grato all'amico Umberto per avere messo a fuoco, con parole chiare e fluide, questo mio pensiero.
EliminaFranco Campegiani
La cosa che più colpisce, ogni volta che leggo ciò che scrivi, Franco, è l'atmosfera che si crea intorno e dentro me. Si fa tutto morbido, caldo e ovattato, è come se mi ritrovassi in un abbraccio antico e materno, mentre qualcosa mi dice “Questa è casa”. E in effetti è proprio così che mi sono sentita, mentre mi lasciavo attraversare dalle tue parole: a casa. Ritmi, tempi, e semi del discorso erano familiari e sapevano già dove dirigersi, verso quali punti scoperti avviarsi per farsi riconoscere dai ritmi, tempi e semi che sono dentro me.
RispondiEliminaScrivi lasciando leggera e quindi autentica ogni parola, non appesantendola da giudizio, presunzione, voglia di imporsi, di conquistare, di apparire … semplicemente ti fai strumento di ciò che è, aiutandola così ad 'arrivare' là dove sa di poter arrivare.
Credo che per fare davvero esperienza dell'universale ci si debba spogliare, di maschere, di preconcetti, di giudizi, di verità su se stessi e sugli altri, rimanere per il tempo necessario 'senza pelle' e non lasciarsi plasmare da niente. Sperimentare così l'universale, dell'opera, del dipinto, della musica … o di qualsiasi altra cosa o evento che in quel momento si è incontrato, fa in modo di renderlo, per chi davvero – da 'spoglio'- ne fa esperienza, individuale, e allora nasce qualcosa di nuovo, se pur proveniente dalla stessa matrice, di ciò di cui si è fatto esperienza. Qualcosa di unico e di autentico perché come le impronte digitali, appartiene al corpo, al sentire di un unico e irripetibile individuo, che a sua volta si sentirà talmente pieno e grato da creare lui stesso qualcosa da donare al mondo. Solo che per essere 'individuo', per come la vedo io, ci vuole coraggio, perdere la propria identità per farsi Vuoto fa paura e non sempre si è disposti a farsi davvero coinvolgere, ma è questo che adesso la terra ci sta chiedendo perché è di questi doni individuali nati dall'universale e che tornano ad essere universali, che ha bisogno. C'è ancora tanto da dire, da dare e da inventare e questo lo scrivo perché ultimamente mi capita spesso di sentire giovani e grandi dire “Ormai non c'è più niente di nuovo da scoprire perché tutto è già stato scoperto, e allora io non posso offrire niente di diverso”. Limitandosi in questo modo a servire le idee di qualcun altro, ed è così che piano piano si muore.
Letture come queste invece stimolano e caricano, di curiosità, di entusiasmo perché ribaltano con grazia e non con violenza, una vecchia e statica prospettiva, facendo emergere dal profondo spunti, idee, intuizioni, che poi spetta ad ognuno scegliere se, e come, seguire e nutrire.
Grazie perché quando ti leggo mi viene subito voglia di scrivere, di esprimermi a mia volta.
Camilla
Grazie a te Camilla. Ti confesso che sono un po' imbarazzato, ma l'affinità elettiva evidentemente funziona a dispetto dell'enorme distanza generazionale che mi separa da te. E ciò è stupefacente. Mi interessa e mi stuzzica molto il tuo discorso: spogliarsi dei pregiudizi e restare senza corazza; fare il vuoto mentale per fare di nuovo il pieno e lasciarsi invadere dai venti dell'universalità. E' in tal modo che si diviene creativi, mettendo le mani in pasta nei processi creativi della creatività.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Caro Franco,
RispondiEliminacondivido pienamente quanto hai scritto nella tua relazione e ti ringrazio.
Questa analisi espressa con molta sincerità ti ricongiunge con i grandi di sempre toccando pensieri capaci di generare, se compresi, una società più sana.
La tua relazione poggia su fondamenta solide generate dall’esperienza vissuta, sperimentata e comunicata a tutti noi con grande chiarezza.
Grazie di cuore
Giancarlo Litofino
Il mio "grazie" va a te, Giancarlo. La mia ricerca filosofico-estetica va in una direzione analoga alle tue proverbiali indagini sulla simbologia rinascimentale (michelangiolesca "in primis", ma anche degli altri Maestri che in quel periodo hanno fatto grande l'arte italiana nel mondo). Il "leitmotiv" è lo studio dell'"universale che è in noi" (del divino che è in noi), costringendoci ad abbattere ogni presunzione razionalistica. La tua testimonianza ha per me un immenso valore.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Il ruolo dell'artista, in questa fase di transizione, è cruciale, perché dalla poesia nascono i miti. La sfida è molto dura, perché il vuoto lasciato dall'esaurimento della mitologia è stato occupato dalla fabbrica dei falsi miti che ha prodotto modelli di vita artificiali e che spinge l'umanità ad ispirarsi a quei modelli. L'arte è stata messa al margine dei circuiti di comunicazione ed è stata sostituita da pseudo-arte, rappresentata da veline o da cialtroni che si definiscono artisti. Basta giocare a pallone per scrivere un libro di barzellette, basta fare uno spettacolo in TV per improvvisarsi romanziere.... Questi modelli che ora occupano gli scaffali pretendono di sostituirsi al mito perché molti artisti, plagiati dal proprio narcisismo, si sono allontanati dalla ricerca dell'archetipo per soddisfare artigianalmente il pubblico, indebolendo così il ruolo dell'artista nella società, rinforzando così la dinamica di un mercato che ci trasforma in automi atti a consumare e basta. Ora più che mai occorre risvegliare la coscienza dell'artista, di tutti gli artisti, anche di quello che vive immerso nella sua convenienza, schiavo della cosorteria, anche lui, perché se solo un giorno ha iniziato a scrivere o a dipingere per vocazione, non può ora aver perso tutto, e la sua coscienza va risvegliata. Il manifesto culturale Il Bandolo ha tentato di dare qualche linea guida sul cammino che abbiamo davanti, sulle sfide che dobbiamo affrontare, andiamo avanti per questa strada.
RispondiEliminaGrazie Franco per questo bellissimo intervento...
Claudio Fiorentini
Il mito allo stato sorgivo ha caratteristiche assai diverse dal mito decaduto a "fabula" ripetitiva. C'è la differenza che corre tra simbolo e feticcio, ed oggi c'è un grande bisogno di riscoprire il valore della simbologia. Hai ragione, Claudio, a ricordare che con il Bandolo è esattamente questo che stiamo cercando di fare.
RispondiEliminaFranco Campegiani