giovedì 26 marzo 2015

N. PARDINI: PREFAZIONE A "ELOGIO DELL'IMPERFEZIONE" DI R. VETTORELLO




Prefazione
a
Rodolfo Vettorello: Elogio dell’imperfezione. LuoghInteriori. Città di Castello. 2015. Pg. 90  

Un ossimorico gioco di vita e morte, di rumori e silenzi che rende vitale, vicino e oggettivo il messaggio tormentato dell’uomo


  …Solo il cuore
la sua tachicardia disordinata,
dà il giusto ritmo al vivere una vita
di un’unica certissima nozione:
la meraviglia dell’imperfezione (Elogio dell’imperfezione).

Mi piace esordire da questa citazione testuale tratta dalla poesia che si pone come momento incipitario con valore eponimo per evidenziare, fin da subito, quello che è il focus alimentatore della silloge di Vettorello. Una poetica che guarda più al sentimento che alla ragione. D’altronde è proprio l’interiorità con tutta la sua forza emotiva a fare da pilastro ad ogni manifestazione artistica, a fare da nido, per ospitare, nutrire e riscaldare ogni modulazione ritmica; per animare quella sonorità che avvince e convince come lo può un intermezzo della Cavalleria rusticana di Mascagni o della   Butterfly di Puccini. Sì, dico proprio di quella musicalità indispensabile a che la Poesia possa dirsi tale: un valore aggiunto allo scorrere dello spartito di questa plaquette. È la passione, quindi, con gli impulsi di sostanza e potenzialità creativa, fonica e cromatica a creare la substantia del canto. La ragione, semmai, tende a frenare questo disordinato movimento, questo incontrollato subbuglio, queste grandi vertigini esistenziali, queste impennate iperboliche, per  richiamarli all’ordine, al freddo equilibrio della razionalità, che è agli antipodi del nutrimento estetico. E qui tutto prende il via dalle cose minime, dai piccoli fatti, dalle grandi questioni, dalla coscienza della pochezza del fatto di esistere per azzardare sguardi oltre gli orizzonti, oltre il tempo, oltre le siepi del nostro umano vivere: un percorso da via crucis che alimenta una poesia forte, nerboruta, e di perspicua intensità umana:

… Siamo fantasmi, corpi inconsistenti,
monadi sperse della stessa storia,
siamo gli avanzi dello stesso pranzo
o solamente come bolle d’aria.
Siamo le frasi, chiuse in un fumetto,
di personaggi
                 da fotoromanzo (Fotoromanzo).

        Dacché è nelle vene dell’uomo, è sua  natura, cercare di superare i limiti della terrenità, delle ristrettezze dell’esistenza, della gabbia in cui è vincolato. E allungare la vista verso spazi che superino la nostra precarietà significa agguantare la coda dell’inarrivabile, dato che non ci è consentito di essere tutto, e che questa diatriba fra il tutto e il niente, fra il giorno e la notte, fra l’umano e il divino, fra l’assoluto e il relativo costituisce il tormento del nostro esser/ci, a cui il poeta cerca di ovviare confondendo il suo pathos in “… frenate allegrie d’abbandoni/ a una musica dolce d’orchestra/ sulle molli lagune. // Sto pensando/ alla triste allegria di Albinoni”.  Una dicotomica fusione pascaliana che si fa inquietudine della nostra vicenda, della vicenda di un essere coi piedi a terra e con lo sguardo rivolto all’oltre, allo svincolamento dalla materialità; afferma in un celebre passo Blaise Pascal:

<<Quando considero la breve durata della mia vita, inghiottita nell’eternità passata e futura, l’esiguo spazio che occupo, e che posso vedere, inabissato nell’infinita immensità di spazi che ignoro e che non mi conobbero, io sono atterrito, sono sorpreso di essere qui piuttosto che altrove; giacché non vi è motivo al perché qui anziché là, oggi anziché domani. Chi mi ha messo dove mi trovo? Per ordine e istruzione di chi mi sono stati assegnati questo posto e quest’epoca? L’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi terrorizza>>. 
       
        Forse è proprio nella varietà dei policromi affreschi naturali che il vivere trova un’analogia col  patema vicissitudinale ed è proprio col ricorrere ai lampi di Pan che il poeta riesce a dare concretezza alle sue intime nostalgie. Una risposta al fatto di esistere:

… Voglio cercare il sole dove c’è
e voglio avere un’ombra che mi segua
per farmi compagnia,
sola certezza mia
che sono vivo, esisto e lascio un segno (Un’ombra che mi segua).

Un ricorso alla natura per individuare la soluzione ai quesiti esistenziali, soluzione tanto dolorosa quanto problematica, per affidare a luci ed ombre il linguaggio del  poièin. Ed è così che l’autunno, la notte, il nulla, il mare, la sorgente, il fiume, il sasso, la neve, le stelle, i monti, le voragini non sono altro che frammenti  di un’anima che cerca di rendersi concreta, visiva mettendo in gioco tutti i moti ed i perché dell’esistere che non trovano soluzioni: melanconia, solitudine, Eros e Thanatos, e voglia di volare, di uscire dalle grinfie dell’inquietudine umana, troppo umana:

Andare via da qui, come d’autunno
la nube spinta al filo d’orizzonte
da un alito  di vento mentre il giorno
apre le porte a un brivido di luna.
(…)
Vorrei partire come l’aeroplano
che taglia il cielo col suo volo sghembo.
(…)
Voglio andar via in un attimo e sparire
come la nube ch’è trascorsa adesso… (L’insignificanza).

Un’inquietudine che va a braccetto con il pensiero della morte:

La temo così tanto la mia morte
che a volte spero si sia già conclusa
la tragica avventura della vita
e tutto sia finito
e d’essere già morto
                 a mia insaputa (A mia insaputa).

Un timore che torna spesso in questi versi a fare da leitmotiv, e dare compattezza al tessuto poetico:

Non ci sarà nessuno che si accorga
se griderò che non vorrei morire.
Il nostro pianto è nulla e si disperde
dentro il frastuono delle cose vive:
la musica lontana di un jukebox
e i canti e i gridi dei bambini al sole.

Si muore soli e senza far rumore (Così è morire).

Un ossimorico gioco di vita e morte, di rumori e silenzi che rende vitale, vicino e oggettivo il messaggio tormentato dell’uomo. Questa necessità di sottrarsi alle pene col “finire adesso”:

                      … Se si perdesse
e se davvero tutto si perdesse,

vorrei finire ma finire adesso (Porterò con me).

L’eterna diatriba fra la fine ed il sempre. Forse volgendo la prua verso ignoti mari o verso onirici spazi c’è la possibilità di rendere meno gravosa l’esistenza, meno pesante la routine quotidiana, o una tristezza di periferia:

Una tristezza di periferia,
in questi casermoni disumani
al  limite di un mare di binari.
(…)
Sono le otto ed è già buio fuori,
domani all’alba il buio è come ieri.
Le stesse case a ridosso dei binari,
le stesse luci alle finestre, accese,
le stesse storie, identiche le attese;
domani sarà un giorno come ieri (A Rogoredo).

D’altronde il sogno fa parte della vita, ne è una componente essenziale e serve a sottrarci alle aporie della monotona quotidianità o al pensiero di noi stessi:

Andiamo via di qui.
                    S’è fatto tardi
ed io non voglio stare dove stanno
le donne che patiscono in silenzio.
(…)
Non ti trattiene il bene che c’è stato
né le promesse e il pianto che mi scioglie.
Neppure un figlio,
                    la magia d’amore,
il segno di un legame indissolubile,
ti obbliga a restar.
                Tu rinneghi
qualsiasi cosa ti trattenga a terra.
Sciogli ogni ormeggio e salpi ad ogni sera
da questo approdo verso ignoti mari (In tanti porti ed in nessuno).

… Non ho mai smesso credo di sognare
e sono ancora qui che spero, a tratti,
per un’ultima volta di volare (Il sogno di volare).

Un volo lontano dalle sottrazioni che però ha breve durata:

… Si piomba giù di colpo nella vita
e si rimbalza a lungo
come una palla o come un sasso piatto,
sull’acqua troppo ferma di uno stagno… (ibidem)

        D’altra parte cosa è la poesia se non che uno slancio dell’anima al di fuori del suo abitacolo verso il cielo, o verso un passato che ci appartiene o verso quella natura che tanto simboleggia la nostra storia; un volo che, una volta  intinto di colori e profumi esuberanti o autunnali, rincasa per rovesciare sul foglio corpi a rivestire segmenti in cui l’anima stessa si è frastagliata. E che cosa se non che vita, in tutta la sua polisemica significanza, in tutta la sua plurivocità di illusioni, delusioni, sottrazioni, sogni, utopie, dolori, che, tradotti in canto di tanta energia classico-moderna come quella del Nostro, embricano indissolubilmente l’ieri l’oggi e il domani in una simbiotica fusione che tende a sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo: “La vita è l’arte dell’incontro”, affermava un poeta brasiliano, Vinicius De Morales, “e vita e poesia sono la stessa cosa”. 
        Questa è la Poesia, assieme al patrimonio delle nostre memorie che preme con urgenza per tornare a vivere dopo una lunga decantazione. Che preme dopo che si è tradotto in immagine. Ma anche il memoriale si tinge di tristi colori. Di accentuazioni aggettivali che ne fanno una rievocazione melanconica, sfumata nel tempo. Un sentimento di spleen e di malum vitae che si insinua nel substrato del “poema” senza mai raggiungere, comunque, punte di marcato pessimismo e che, in effetti, si traduce in terriccio fertile per una buona resa di ermeneutica fattura:

Come era triste la città nell’alba
e come, dai lampioni ancora accesi,
spioveva sul bagnato delle strade
una sottile polvere di luna.
(…)
Presto si sveglia e presto si addormenta
questo ritaglio grigio di città.
(…)
E’ sempre triste la città puttana
ma nel chiarore pallido di luna
una canzone sale dai binari,… (Porta romana).

Tutto pareva svaporato, al tempo
e tu svanita, come alla memoria,
la pallida parola che fu desta
l’attimo prima di finire.
                       Fanno
come le foglie quando arriva il vento
le tende alla finestra della stanza… (Fotoromanzo).     

Chimere vuole dire un altro mondo
promesse disattese,
profondità insondate della mente,
memorie cromosomiche irrisolte
e pura suggestione d’altri altrove… (Les chimères).

Le sottolineature delle aggettivazioni sono mie a rimarcare scene di ricordi melanconici che portano la loro bruma a disfarsi nel tempo.
        E tutto questo, evadendo ex abundantia cordis con grande eleganza e proteiforme simbolismo, fa del verso un intimo abbraccio di vaghezze semantiche dove la metaforicità fonosimbolica e i ripetuti enjammbements riescono ad evitare l’endecasillaba naturale cadenza e l’insidia dei luoghi comuni, dribblando, anche, quel sentimentalismo, che Contini definiva “pulizia del desiderio”, in un linguismo che assume valenza di realismo lirico.    
        Poesia dunque densa, classicamente impostata, infoltita di motivazioni attuali, ma pur sempre esistenziali, in cui i versi, alternando misure brevi a più ampie aperture (quaternari, quinari, settenari, novenari, decasillabi, ipermetrici), si predispongono ad accentuare importanti significanti metrici in endecasillabi che si succedono come cascate di vera musicalità. Che, in corrispondenze e punti fermi a metà del verso, convalidano ancor di più per classici questi testi, esemplificando una ricerca continua d’innovazione verbale e assecondando gli intrecci etimo-fonici dove la parola si vincola e si svincola, si accorcia e si amplia, si arrotonda e si smussa per combaciare, il più possibile, con gli abbrivi emotivi. Pur sapendo l’autore che non ci sarà mai un topos sufficiente a tradurre del tutto le espansioni dell’anima, dacché la parola è un segno terreno, e l’anima è di più, è qualcosa che supera ogni intenzione mortale:

Logora il cuore
quest’incapacità della parola
a dire l’indicibile,
                a tentare,
solo a tentare almeno
di cogliere in un verso l’incantesimo
di ciò che accade, a volte, in un istante
e che sappiamo
nessuno al mondo potrà più rifare… (L’incapacità della parola).

        Ma quello che risulta, alfine, dalla lettura contaminante di questa silloge, è che il poeta, con tutto il suo travaglio  esistenziale, col suo desiderare presto la fine, non fa che dichiarare tutto il suo amore per la  vita. E penso che la sua insofferenza derivi proprio dal fatto che esista lo spettro di Thanatos, come atto conclusivo a cui non si può sottrarre, cosciente di perdere il bene più grande, il dono più prezioso che fortunatamente gli è toccato. Ed è così che vorrebbe ingannare la sorte, togliendole la possibilità di scegliere sul suo destino con una poesia a cui affidare tutto se stesso; un futuro foscolianamente duraturo. Magari volando o rimpiazzando la sua malinconia con un sogno che lo porti in un lontano ipotetico azzurro:

e sono ancora qui che spero a tratti,
per un’ultima volta di volare.
                   
Nazario Pardini



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