Ester Cecere |
IN
PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. “Istantanee di vita”: le ombre e le luci
della quotidianità nei racconti di Ester Cecere
Con il
volume di racconti “Istantanee di vita”, Kairòs Edizioni, 2015, la poetessa
tarantina, Ester Cecere, fa il salto nel mondo della narrativa. E lo fa con
grande realismo veritativo, sensibilità d’animo, suscitando nel lettore un
senso di piacevolezza dettato sia dalla delicatezza delle storie da lei
narrate, sia dalla semplicità, “non calcolata” – direbbe il Bo –, con cui
tende, a suo modo, ad offrire le luci e le ombre della vita nella sue
antinomie, bellezze e contraddizioni,
ricordandoci
le parole di Oscar Wilde quando dice che “In ogni istante della nostra vita
siamo ciò che saremo, non meno di ciò che siamo stati”, e di quanto aggiunge
Eraclito: “Io stesso muto nell’istante in cui dico che le cose mutano”.
Già il titolo del libro, “Istantanee di vita”, costituisce in se stesso una dichiarazione di semantica narrativa. Il termine istantaneo ci riporta al concetto di “istante”, che è un composto di “in- stante”: cioè “che sta in”, sta dentro: qualcosa, qualcuno. Da qui le istantanee di Ester Cecere, che costituiscono una sorta di “istanti di senso” dentro i quali i suoi personaggi vivono una dialettica tra l’ “io epidermico”, quello spesso tipico di una società massificata e disattenta, ed l’ “io profondo”: il primo afferra le emozioni, le suggestioni e queste passano, sono fuggevoli, non durano a lungo; il secondo poggia sulla ragione che afferra la sostanza, il valore, il senso di ciò che vale in sé e per sé e che quindi perdura anche se l’istante è fuggevole.
L’estro narratologico della Cecere si muove, dunque, dentro una metafisica istantanea, ove ogni breve componimento riesce a dare una visione etica, un segreto dell’anima, una lettura dell’esistenza nel suo snodarsi di cose, di oggetti, di accadimenti, di sentimenti, di emozioni nel loro insieme.
La struttura di ogni racconto ha una sua fonte di ispirazione in pensieri di autori italiani e stranieri come Massimo Bisotti, Tiziano Terzani, Che Guevara, Hubert Reeves, Edwin H. Chapin, Osho Rajneesh, Victor Hugo, tanto per citarne alcuni, tutti appartenenti al bagaglio culturale dell’autrice. Non sono, sicuramente, citazioni di circostanza né di ostentazione, ma costituiscono il “leit motiv” del tessuto narrativo, l’ esplicazione della tematica che i personaggi interpretano per lanciare messaggi “onto-etici” alla società del nostro tempo.
La struttura del dettato narrativo trova il suo dispiegamento nella capacità della scrittrice di mettere in relazione quelli che il De Soussure chiama langue, language e parol, cioè lingua, linguaggio e parola. La Cecere usa la lingua come sistema di espressione del suo pensiero e del suo mondo emotivo-sentimentale, ma l’essenza dei suoi racconti non è certo nella lingua, che ha regole(grammaticali, lessicali, morfosintattiche) indipendenti da chi le usa. E’, invece, sul piano del linguaggio, che è l’uso che si fa di una certa lingua, che la Cecere diventa voce narrante, scrittrice che spicca il suo volo e che interpreta, attraverso i protagonisti dei suoi 11 racconti, la parabola umana del suo cammino personale, con i suoi pudori, le sue ansie, le sue delusioni, le sue incertezze.
Lì dove, infine, il discorso narrativo della Cecere diventa più convincente e quando fa uso della “parola” dentro situazioni di vita reale e in contesti di relazione interpersonale, come nel caso della giovane laureata Giovanna e dello studente Andrea; della pittrice Silvana e del critico d’arte Saverio Rossi; come nel colloquio tra Miriam Rossi e il dott. D’Andrea o come nel caso di Rossella che rinuncia all’aborto per amore del figlio, sfidando la medicina.
In questi “quadretti di vita” Cecere riesce a dare voce alla singole parole del suo cuore maturate nella interpretazione dei vari accadimenti quotidiani, trasformandole in un linguaggio narrativo che descrive, stigmatizza intenzioni, dà significato ad affetti e atteggiamenti , a idee e sentimenti spesso lasciati nel silenzio della coscienza aprendo anche piaghe profonde.
Già il titolo del libro, “Istantanee di vita”, costituisce in se stesso una dichiarazione di semantica narrativa. Il termine istantaneo ci riporta al concetto di “istante”, che è un composto di “in- stante”: cioè “che sta in”, sta dentro: qualcosa, qualcuno. Da qui le istantanee di Ester Cecere, che costituiscono una sorta di “istanti di senso” dentro i quali i suoi personaggi vivono una dialettica tra l’ “io epidermico”, quello spesso tipico di una società massificata e disattenta, ed l’ “io profondo”: il primo afferra le emozioni, le suggestioni e queste passano, sono fuggevoli, non durano a lungo; il secondo poggia sulla ragione che afferra la sostanza, il valore, il senso di ciò che vale in sé e per sé e che quindi perdura anche se l’istante è fuggevole.
L’estro narratologico della Cecere si muove, dunque, dentro una metafisica istantanea, ove ogni breve componimento riesce a dare una visione etica, un segreto dell’anima, una lettura dell’esistenza nel suo snodarsi di cose, di oggetti, di accadimenti, di sentimenti, di emozioni nel loro insieme.
La struttura di ogni racconto ha una sua fonte di ispirazione in pensieri di autori italiani e stranieri come Massimo Bisotti, Tiziano Terzani, Che Guevara, Hubert Reeves, Edwin H. Chapin, Osho Rajneesh, Victor Hugo, tanto per citarne alcuni, tutti appartenenti al bagaglio culturale dell’autrice. Non sono, sicuramente, citazioni di circostanza né di ostentazione, ma costituiscono il “leit motiv” del tessuto narrativo, l’ esplicazione della tematica che i personaggi interpretano per lanciare messaggi “onto-etici” alla società del nostro tempo.
La struttura del dettato narrativo trova il suo dispiegamento nella capacità della scrittrice di mettere in relazione quelli che il De Soussure chiama langue, language e parol, cioè lingua, linguaggio e parola. La Cecere usa la lingua come sistema di espressione del suo pensiero e del suo mondo emotivo-sentimentale, ma l’essenza dei suoi racconti non è certo nella lingua, che ha regole(grammaticali, lessicali, morfosintattiche) indipendenti da chi le usa. E’, invece, sul piano del linguaggio, che è l’uso che si fa di una certa lingua, che la Cecere diventa voce narrante, scrittrice che spicca il suo volo e che interpreta, attraverso i protagonisti dei suoi 11 racconti, la parabola umana del suo cammino personale, con i suoi pudori, le sue ansie, le sue delusioni, le sue incertezze.
Lì dove, infine, il discorso narrativo della Cecere diventa più convincente e quando fa uso della “parola” dentro situazioni di vita reale e in contesti di relazione interpersonale, come nel caso della giovane laureata Giovanna e dello studente Andrea; della pittrice Silvana e del critico d’arte Saverio Rossi; come nel colloquio tra Miriam Rossi e il dott. D’Andrea o come nel caso di Rossella che rinuncia all’aborto per amore del figlio, sfidando la medicina.
In questi “quadretti di vita” Cecere riesce a dare voce alla singole parole del suo cuore maturate nella interpretazione dei vari accadimenti quotidiani, trasformandole in un linguaggio narrativo che descrive, stigmatizza intenzioni, dà significato ad affetti e atteggiamenti , a idee e sentimenti spesso lasciati nel silenzio della coscienza aprendo anche piaghe profonde.
Entrando
nell’articolazione dei racconti, emergono pertanto situazioni di vita che fanno
parte della nostra quotidianità e che, spesso, proprio perché di routine,
passano inosservate e vengono lasciate nell’ombra. Ester Cecere, invece, con il
suo occhio vigile le fotografa, e con la sua sensibilità le interpreta e ne fa
strumento quasi didascalico.
L’amore tra illusione e disillusione, il valore della comprensione empatica, la cordialità e la gentilezza nelle relazioni, la solitudine, la denuncia dell’ingiustizia, la relazione affettiva e la separazione matrimoniale, il rapporto dell’uomo con la natura e il problema dell’inquinamento, la resistenza alle difficoltà della vita, il dolore come opportunità di crescita per domandarsi il senso della vita, il valore della libertà e l’importanza di saper sorridere nella quotidianità degli accadimenti, l’amore materno e la condivisione sono alcune delle tematiche dei racconti contenuti nel volume, su ognuna delle quali l’autrice apre orizzonti nuovi ed universali per farle uscire dalla visione di banalità e di marginalizzazione cui spesso sono relegate proprio perché, in quanto “istantanee di vita”, ritenute comuni, giornaliere, quotidiane, semplici, quando, al contrario, sono invece realtà che condizionano l’essere di ogni uomo, le sue motivazioni, le sue idealità, i suoi umori e i suoi progetti esistenziali.
I racconti di Ester Cecere sono tanto “istantanei” quanto “reali e veritieri”; esprimono il particolare ma toccano l’universale; sono tanti semplici quanto efficaci nel far comprendere l’importanza di una morale della convivenza interpersonale, e si fanno apprezzare perché espressione di una “letteratura come vita” che non ha bisogno di volare sulle magie dell’alchimia per incantare, né di ricercare costrutti sontuosi per affabulare. Il libro “Istantanee di vita” è insomma un affresco dove scorrono pennellate di vita che si fanno linguaggio di sapienza etica e riflessione antropologica: “ ‘Quanta solitudine – si disse – c’è nel mondo, anzi sotto i nostro occhi! Quanto bisogno d’affetto, semplicemente d’affetto, di attenzioni che lo rendono palese. Il denaro non è tutto! Mi è sempre sembrata un frase fatta, ma non lo è!’ Nel suo quotidiano frenetico andirivieni, completamente sopraffatta dai ‘suoi problemi’, prima di oggi Miriam non se ne era mai davvero resa conto”. (in “Due borse pesantissime”).
Addentrandosi ancora nella tessitura dei racconti c’è uno scorrere di luoghi e di personaggi cui l’autrice mette in bocca fatti, sentimenti, valutazioni, accadimenti, risentimenti; c’è un mondo di personaggi come Rosanna che “amava i monti, i valichi, i pianori erbosi e le rive del fiume Leogra”; come Gabriella, con alle spalle un matrimonio fallito e alla quale l’autrice mette in bocca riflessioni di grande forza d’animo: “Per nessuna persona e ragione al mondo vale la pena di togliersi la vita. Se avesse trovato un uomo che l’avrebbe amata per quello che era, sarebbe stata felice, anche a novant’anni, se il buon Dio avesse voluto concederle tanto tempo!”
Ed ancora troviamo personaggi come Patrizia che esprime la sua tenerezza per un capodoglio cui fa un’ultima carezza nel momento dell’agonia; come Carmelo che svolge la sua professione di “guardiano del faro” con le credenziali di “figlio d’arte” o come Viviana, laureata in psicologia, che affronta il suo difficile lavoro tra i malati di un centro oncologico: insomma tutti personaggi attorno ai quali le sequenze narrative fanno rivivere passioni e sentimenti, gioie e tristezze, sogni e illusioni, delusioni e speranze, bisogni e amori.
Sembra che la Cecere dia ai suoi racconti un significato “karassico”, (karasso in greco significa “incido”): in “Istantanee di vita” c’è infatti l’incisione di un “disagio dell’esistenza”, di un tempo ove si scontrano storia e memoria, bene e male, bellezza e cattiveria, pianto e sorriso ; c’è l’incisione di accadimenti che l’autrice riannoda attraverso i filmati della memoria come in una sorta di “diario minimo con riverberi autobiografici”.
Non mancano anche, nel volume, affacci ai luoghi della terra pugliese della scrittrice, dentro i quali, ricorrendo alla forza evocativa e realistica del racconto, accompagna per mano il lettore lungo le vie contorte delle credenze, delle relazioni sociali dei linguaggi della comunicazione, degli affetti, del sospetto, della curiosità, della diffidenza, del sogno, non isolandole dal loro contesto e recuperandole, invece, nella loro attualità e dimensione semantica.
I racconti , insomma, ci immergono in una ambientazione in cui si respira un’ atmosfera fatta di dialoghi, arguzie, ammiccamenti e accadimenti di vita quotidiana vissuta ora drammatici ora divertenti. La scelta dei personaggi non presenta forzature o coloriture, ma si staglia, in modo naturale, nel tessuto narrativo dei racconti, puntando su fatti reali che interpretano ciò che la fantasia letteraria dell’Autrice riesce ad organizzare per offrire ai lettori messaggi e spunti di riflessione. La prosa di Ester Cecere, per concludere, è nel contempo racconto e documento. Il linguaggio è colloquiale , lessicalmente usuale e di impatto immediato; è confidenziale e quasi parlato, ma contiene sotto traccia tante dimensioni metanarrative che fanno riflettere sulla sofferenza, sull’amore, sul sogno, sull’attesa, sulla fragilità dei sentimenti, sul bisogno della condivisione, sul senso della solitudine, sulla rassegnazione, sul cinismo, sull’affarismo, sull’ipocrisia, sulla delusione, sul sorriso, sulla speranza.
E così, racconto e documento, analisi e metalinguaggio diventano il binario del cammino di una coscienza critica, quella dell’autrice, capace, da una parte, di leggere la realtà e, dall’altra, di farla uscire dalla tentazione della manipolazione.
“Hominem pagina nostra sapit” diceva Marziale in un suo epigramma: ebbene, i racconti che vengono proposti da Ester Cecere hanno “sapore di umanità”, quello disincantato, genuino, che vive di fatiche e di passioni, di aneddoti, di “cose semplici”, che si affida alla concretezza e al realismo della relazione umana, che sa radicarsi in una data terra, in un dato luogo, in un preciso contesto storico, considerato che – come scrive Gesualdo Bufalino – “storia non è solo quella conservata negli annali del sangue e della forza; bensì quella legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato”. Dentro questa storia bufalinamente intesa credo possano trovare cittadinanza questi racconti di Ester Cecere, la quale – e prendo a prestito le parole di Tolstoj , “raccontando il suo villaggio ci ha raccontato il mondo”.
L’amore tra illusione e disillusione, il valore della comprensione empatica, la cordialità e la gentilezza nelle relazioni, la solitudine, la denuncia dell’ingiustizia, la relazione affettiva e la separazione matrimoniale, il rapporto dell’uomo con la natura e il problema dell’inquinamento, la resistenza alle difficoltà della vita, il dolore come opportunità di crescita per domandarsi il senso della vita, il valore della libertà e l’importanza di saper sorridere nella quotidianità degli accadimenti, l’amore materno e la condivisione sono alcune delle tematiche dei racconti contenuti nel volume, su ognuna delle quali l’autrice apre orizzonti nuovi ed universali per farle uscire dalla visione di banalità e di marginalizzazione cui spesso sono relegate proprio perché, in quanto “istantanee di vita”, ritenute comuni, giornaliere, quotidiane, semplici, quando, al contrario, sono invece realtà che condizionano l’essere di ogni uomo, le sue motivazioni, le sue idealità, i suoi umori e i suoi progetti esistenziali.
I racconti di Ester Cecere sono tanto “istantanei” quanto “reali e veritieri”; esprimono il particolare ma toccano l’universale; sono tanti semplici quanto efficaci nel far comprendere l’importanza di una morale della convivenza interpersonale, e si fanno apprezzare perché espressione di una “letteratura come vita” che non ha bisogno di volare sulle magie dell’alchimia per incantare, né di ricercare costrutti sontuosi per affabulare. Il libro “Istantanee di vita” è insomma un affresco dove scorrono pennellate di vita che si fanno linguaggio di sapienza etica e riflessione antropologica: “ ‘Quanta solitudine – si disse – c’è nel mondo, anzi sotto i nostro occhi! Quanto bisogno d’affetto, semplicemente d’affetto, di attenzioni che lo rendono palese. Il denaro non è tutto! Mi è sempre sembrata un frase fatta, ma non lo è!’ Nel suo quotidiano frenetico andirivieni, completamente sopraffatta dai ‘suoi problemi’, prima di oggi Miriam non se ne era mai davvero resa conto”. (in “Due borse pesantissime”).
Addentrandosi ancora nella tessitura dei racconti c’è uno scorrere di luoghi e di personaggi cui l’autrice mette in bocca fatti, sentimenti, valutazioni, accadimenti, risentimenti; c’è un mondo di personaggi come Rosanna che “amava i monti, i valichi, i pianori erbosi e le rive del fiume Leogra”; come Gabriella, con alle spalle un matrimonio fallito e alla quale l’autrice mette in bocca riflessioni di grande forza d’animo: “Per nessuna persona e ragione al mondo vale la pena di togliersi la vita. Se avesse trovato un uomo che l’avrebbe amata per quello che era, sarebbe stata felice, anche a novant’anni, se il buon Dio avesse voluto concederle tanto tempo!”
Ed ancora troviamo personaggi come Patrizia che esprime la sua tenerezza per un capodoglio cui fa un’ultima carezza nel momento dell’agonia; come Carmelo che svolge la sua professione di “guardiano del faro” con le credenziali di “figlio d’arte” o come Viviana, laureata in psicologia, che affronta il suo difficile lavoro tra i malati di un centro oncologico: insomma tutti personaggi attorno ai quali le sequenze narrative fanno rivivere passioni e sentimenti, gioie e tristezze, sogni e illusioni, delusioni e speranze, bisogni e amori.
Sembra che la Cecere dia ai suoi racconti un significato “karassico”, (karasso in greco significa “incido”): in “Istantanee di vita” c’è infatti l’incisione di un “disagio dell’esistenza”, di un tempo ove si scontrano storia e memoria, bene e male, bellezza e cattiveria, pianto e sorriso ; c’è l’incisione di accadimenti che l’autrice riannoda attraverso i filmati della memoria come in una sorta di “diario minimo con riverberi autobiografici”.
Non mancano anche, nel volume, affacci ai luoghi della terra pugliese della scrittrice, dentro i quali, ricorrendo alla forza evocativa e realistica del racconto, accompagna per mano il lettore lungo le vie contorte delle credenze, delle relazioni sociali dei linguaggi della comunicazione, degli affetti, del sospetto, della curiosità, della diffidenza, del sogno, non isolandole dal loro contesto e recuperandole, invece, nella loro attualità e dimensione semantica.
I racconti , insomma, ci immergono in una ambientazione in cui si respira un’ atmosfera fatta di dialoghi, arguzie, ammiccamenti e accadimenti di vita quotidiana vissuta ora drammatici ora divertenti. La scelta dei personaggi non presenta forzature o coloriture, ma si staglia, in modo naturale, nel tessuto narrativo dei racconti, puntando su fatti reali che interpretano ciò che la fantasia letteraria dell’Autrice riesce ad organizzare per offrire ai lettori messaggi e spunti di riflessione. La prosa di Ester Cecere, per concludere, è nel contempo racconto e documento. Il linguaggio è colloquiale , lessicalmente usuale e di impatto immediato; è confidenziale e quasi parlato, ma contiene sotto traccia tante dimensioni metanarrative che fanno riflettere sulla sofferenza, sull’amore, sul sogno, sull’attesa, sulla fragilità dei sentimenti, sul bisogno della condivisione, sul senso della solitudine, sulla rassegnazione, sul cinismo, sull’affarismo, sull’ipocrisia, sulla delusione, sul sorriso, sulla speranza.
E così, racconto e documento, analisi e metalinguaggio diventano il binario del cammino di una coscienza critica, quella dell’autrice, capace, da una parte, di leggere la realtà e, dall’altra, di farla uscire dalla tentazione della manipolazione.
“Hominem pagina nostra sapit” diceva Marziale in un suo epigramma: ebbene, i racconti che vengono proposti da Ester Cecere hanno “sapore di umanità”, quello disincantato, genuino, che vive di fatiche e di passioni, di aneddoti, di “cose semplici”, che si affida alla concretezza e al realismo della relazione umana, che sa radicarsi in una data terra, in un dato luogo, in un preciso contesto storico, considerato che – come scrive Gesualdo Bufalino – “storia non è solo quella conservata negli annali del sangue e della forza; bensì quella legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato”. Dentro questa storia bufalinamente intesa credo possano trovare cittadinanza questi racconti di Ester Cecere, la quale – e prendo a prestito le parole di Tolstoj , “raccontando il suo villaggio ci ha raccontato il mondo”.
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